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NUMERO 8
DICEMBRE 98
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FABIO
LUBRANO
Lettera ai Puffi
Carissimi
Puffi,
vi scrivo e non so nemmeno se leggerete mai questa mia lettera.
Sono anni che vi cerco sotto ogni fungo che incontro, ma non ho
mai trovato né porte né finestre che segnalassero la vostra presenza.
Una volta mi è capitato davanti un gatto che assomigliava inquietantemente
alla Birba. Ho provato a seguirlo per vedere se mi portavai da
voi, ma quello si limitava a giocare con i tombini. Anche di Gargamella
nessuna traccia. Faccio quindi quest'ultimo disperato tentativo,
nella remota speranza che possiate venire a conoscenza della mia
persona.
La prima volta che sentii parlare di voi non ne fui particolarmente
entusiasta. Ricordo che provai una vaga curiosità per quel vostro
modo di parlare che non riuscivo a capire se fosse cretino o geniale.
Avevo cinque anni, ero ancora analfabeta. Sul divano in salotto,
mio fratello più grande (undici anni, un veterano della lettura)
mi leggeva le vostre avventure dalle pagine del corrierino dei
piccoli. Non ci capii niente: vedevo dei nanetti blu col cappuccio
da sonnambulo bianco e sentivo la voce di mio fratello che al
posto di qualunque verbo usava 'puffare'. I nanetti puffavano
questo, puffavano quello, avrebbero puffato quell'altro, puffarono
quell'altro ancora. "Perché parlano così?" domandai.
"Perché sono i puffi e i puffi puffano così," rispose
mio fratello. E rise. (Ancora adesso non so bene cosa ci fosse
da ridere (potrei domandarglielo, ma sospetto che negherebbe di
aver detto, sia pure a undici anni, una cretinata simile)). Non
chiesi più niente. Voi puffi parlavate così, punto e basta.
Un anno dopo le mie capacità di lettura erano indipendenti. Ogni
settimana aprivo il corrierino dei piccoli e vi spiavo. Mi abituai
al vostro linguaggio e potenziai il mio (ho una teoria linguistica
al riguardo: il fatto di dover cercare di capire cosa stavate
dicendo mi obbligava a meditare sulle parole; se per esempio dicevate
puffiamo la torta io dovevo sostituire il verbo puffare con quello
giusto che nell'esempio poteva essere sia 'prepariamo' che 'mangiamo';
dovevo quindi osservare l'illustrazione, costatare che la torta
era già pronta e quindi dedurre che il verbo adatto era 'mangiamo';
ecco, questa operazione fortificatrice del linguaggio accadeva
almeno tre volte a vignetta, e infatti ci mettevo due ore a leggere
una storia. Ma dirò di più: secondo Chomsky, e anche secondo me,
tutti gli uomini del mondo pensano nello stesso modo, con un linguaggio
mentale comune a tutti i popoli: poi, in un secondo tempo avviene
la traduzione verbale, che varia da cultura a cultura; ecco, credo
di sapere quale sia questo linguaggio mentale: è la vostra lingua;
quell'unico verbo, puffare, è il minimo comune denominatore di
tutte le lingue, tutti puffiamo quando pensiamo, non c'è niente
da fare, poi troviamo i verbi giusti, ma all'inizio inizio, è
inutile negarlo, non facciamo altro che puffare).
Insomma, nel giro di un altro anno ero diventato un vostro amante.
Mi piacevate, vi trovavo graziosi, simpatici, intelligenti. C'eri
tu, puffo quattr'occhi, il più odioso (la mia gastrite è iniziata
alla terza volta che ti ho sentito dire quel fastidiosissimo che
è beglio!), ma quello in cui mi identificavo di più: anch'io portavo
gli occhiali, ero il primo della classe e avevo il fastidioso
sospetto di essere antipatico; vivevo nel terrore che i compagni
di classe mi paragonassero a te, cosa che avveniva sì e no una
trentina di volte al giorno. Poi c'eri tu, puffo brontolone, un
vero rompicoglioni, sempre lì a lamentarti. Però ti volevo bene,
in fondo non lo facevi con cattiveria. E tu, puffo dormiglione,
ti invidiavo moltissimo, io mi dovevo svegliare tutte le mattine
alle sette e mezza anche la domenica, per la messa mattutina dei
bambini (non c'entra niente con i puffi però vorrei dirlo: perché
i bambini alla primissima messa della domenica e gli adulti a
quella dopo? Facciamo i furbi su quell'oretta di sonno in più?)
e tu, invece, dormivi tutte le volte che ne avevi voglia. E poi
c'eri tu, naturalmente, grande puffo, il padre che non ho mai
avuto. Saggio, buono, comprensivo, attento (lo era anche mio padre,
ma mai contemporaneamente, come te). L'unico puffo con la barba
e con il cappuccio rosso: un po' ti associavo a babbo natale,
però preferivo te, perché anche se non portavi i regali almeno
c'eri sempre, non una volta all'anno e per giunta entrando in
casa di nascosto. Ma soprattutto c'eri tu, puffetta. La mia vita
sentimentale ha avuto inizio incontrandoti. Se la mia prima erezione
è stata procurata da uno spogliarello televisivo di Patrizia Pellegrino
(in prima serata, sulla Rai, verso la fine degli anni settanta!)
ho conosciuto l'amore platonico grazie ai tuoi capelli biondi,
il nasino all'insù e quell'aria da stronza che avevi anche quando
eri felice. Da allora mi sono sempre innamorato di bionde tendenzialmente
basse, col naso tendenzialmente all'insù e la faccia tendenzialmente
da stronza (mi sono liberato di te soltanto da due anni, quando
finalmente mi sono innamorato di una ragazza bruna, con il naso
normale e la faccia da angioletto).
Passò un altro anno e finalmente la televisione si accorse di
voi e di colui che vi aveva scoperti, il signor Pejo, scritto
come l'acqua che se vuoi ti portano a casa. All'inizio andavate
in onda su un oscuro emittente locale, che nessuno riusciva a
prendere bene. Il titolo era 'il flauto a sei puffi' ma nessuno
riuscì a conoscerne il contenuto: alcuni miei amici prendevano
il video ma non l'audio, altri il video che sballonzolava e l'audio
che gracchiava, altri ancora né il video né l'audio. Ci trovavamo
in giardino il pomeriggio e ci domandavamo: qualcuno è riuscito
a vederlo? E tutti scuotevamo la testa frustrati. Io prendevo
bene l'audio ma non il video: sentivo solo che dicevate 'puffiamo
qua, puffiamo là' senza capirci niente; non avevo le immagini
per dedurre il verbo giusto: provavo una sensazione orrenda, identica
anche se al contrario, a quella che provavo quando era analfabeta
e vedevo le immagini ma non leggevo le parole.
Ma non durò molto. Iniziarono a trasmettervi poco tempo dopo su
Antenna Nord, la futura Italia 1 e quindi proprio su Italia 1.
Vi scrissero anche una canzoncina ridicola e falsa, cantata ovviamente
dall'ipocrita che cantava tutte le sigle dei cartoni animati:
diceva, anzi, faceva dire a voi!, che eravate alti due mele o
poco più. Ma come due mele? Sono tante due mele, sono troppo alte.
Anche in relazione ai funghi dove abitate: non potreste mai viverci
se foste alti due mele. Perché dovevano scrivere quelle falsità?
Solo per fare la rima? Come si permettevano?
Insomma, grazie alla televisione diventaste famosissimi. Ora vi
conoscevano tutti i bambini d'Italia. Iniziarono a vendere dei
pupazzetti che vi raffiguravano (troppo alti pure quelli, sempre
in relazione ai funghi, ma rispetto alle due mele si iniziava
a ragionare). Ce li ho tutti, i pupazzetti. Tutti. Non sto scherzando.
Ogni volta che prendevo un bel voto a scuola un vostro pupazzo
mi veniva regalato. E siccome, come vi ho già detto, ero il primo
della classe, ricevetti molti pupazzi. Il primo fu il pupazzo
di quattr'occhi, naturalmente. Il più bello. Quelli che fecero
dopo erano diversi, leggermente più grandi, colorati con meno
precisione, più approssimativi. Quattr'occhi, invece, era perfetto.
E anziché la sua solita aria da saputello aveva un'espressione
che mi faceva tenerezza. Il mio preferito. Poi grande puffo, puffo
dormiglione, puffo brontolone, e a ruota tutti gli altri: puffo
pasticcere, puffo meccanico, puffo falegname, puffo imbianchino
e così via. Poi arrivò il giorno di puffetta. Mia madre non era
convinta, pensava che mi avrebbe infastidito quasi come se mi
avesse regalato una barbie. Non poteva sapere. Simulai: feci finta
di essere effettivamente infastidito, ma l'accettai, in fondo
faceva parte della comunità, non si potevano fare discriminazioni,
grande puffo non lo avrebbe apprezzato. Me la portai in camera
mia, la misi insieme agli altri puffi. Fu un giorno importantissimo:
avevo finalmente la fidanzata. A Natale mi regalarono la casa.
Un bel fungo di plastica con porta e finestre (enorme, per essere
un fungo, ma lasciai correre). Adesso avevo proprio tutto. Disposi
casa e pupazzi sul tavolo: un puffo qua, un puffo là, orchestrando
una plausibile scena di vita. Poi si pose il problema di chi mettere
a casa: nel fungo ci stavano quattro pupazzi. Feci dei tentativi
che non mi soddisfacevano. Da un lato volevo che puffetta stesse
a casa, mi spiaceva lasciarla fuori, dall'altro non mi andava
che rimanesse a casa con tre puffi maschi. Decisi alla fine di
lasciarla a casa da sola, le avrei fatto compagnia io.
Giocavo sempre con i vostri pupazzi, vi cambiavo disposizione,
vi facevo parlare. Trattavo i vostri pupazzi come se foste veramente
voi. Meglio, li trattavo come se fossero vivi. Lo so che lo fanno
tutti i bambini, tutti i bambini fingono che i loro giochi siano
vivi ma io provavo una sensazione strana, e questo non lo so se
lo provano tutti i bambini (non ne ho mai parlato con i miei compagni
di classe): io da un lato sapevo che i pupazzi non erano vivi
però dall'altro mi sforzavo per autoconvincermi del contrario.
Ecco, la mia vita da quel momento ha imboccato una strada irreversibile.
Non avevo mai giocato così, mi capitò solo con voi. (Mio fratello
se ne accorse e un giorno mentre giocavo lo sentii sghignazzare
dicendo 'crede che siano vivi!', lui, lo stesso fratello che ci
aveva fatti conoscere sulle pagine del corrierino dei piccoli.
Vergogna).
Questa confusione tra vero e finto ha finito per farmi passare
dalla parte dei pupazzi, così che ero io quello che faceva il
gesto di fare le cose. Studiavo, diventavo grande, aveva delle
amicizie importanti, qualche amore, qualche delusione. Però era
sufficiente che mi girassi a guardare i miei coetanei fare le
stesse cose e pensavo: ecco, loro lo stanno facendo realmente,
io faccio solo il gesto. Mi sentivo inadeguato, c'era in loro
qualcosa che in me mancava, forse quel senso di realtà che io
non avevo nel fare le cose. Così come io prendevo il pupazzo e
gli facevo fare interpretare un ruolo, allo stesso modo mi sentivo
preso da un'entità superiore e obbligato a interpretare tanti
piccoli ruoli quotidiani (chi è questa entità superiore? Il puffo
dio? O il bambino antipatico che ero e che tuttora mi governa?)
E allora io diventavo il puffo che studiava, il puffo che diventava
grande, il puffo che aveva delle amicizie importanti, il puffo
che amava, il puffo deluso. Badate bene, non è un banale senso
di inferiorità, non c'entra niente, non mi sento né inferiore,
né superiore, né uguale: è il fare le cose contro il fare la parte
di chi fa le cose.
Non vorrei intristirvi con questi discorsi, voi che siete sempre
così allegri, però mi permetto di insistere con altri esempi.
Quando vado, che ne so, in un aeroporto, ho sempre la sgradevole
sensazione di essere l'unico a non essere a conoscenza di qualcosa
di fondamentale sul come si prende un aereo. Guardo gli altri
e sono tutti sicuri, decisi, sanno cosa devono fare e dove devono
andare. Allora è vero che sto facendo solo la parte di chi va
in aeroporto. Ecco, sono il puffo viaggiatore. Quando vado in
vacanza, gli altri turisti sembrano essere dei veri turisti: io
sono il puffo turista. Quando ho pubblicato il mio libro non ero
che un puffo scrittore (infatti il libro era di trenta pagine).
Una volta, non sapendo dove altro poter andare a farlo, sono andato
in un motel con Laura, la mia fidanzata: abbiamo fatto l'amore,
come si poteva prevedere. Dalle stanze vicine sentivo donne gridare
di piacere e ululare orgasmi incredibili. Laura no. Ovvio, ero
il puffo amatore. All'Università sono stato il puffo studente,
a casa il puffo figlio, con gli amici il puffo amico, in qualunque
cosa sono stato il puffo qualunque cosa. E già lo so, quando avrò
un figlio verrà il giorno in cui lo guarderò negli occhi e penserò:
ecco, ora sono diventato il puffo padre.
Mi separai dai vostri pupazzi al mio ingresso nelle scuole medie.
Foste stato per me vi avrei tenuti in camera, ma per pudore ritenni
che era giunto il momento di alloggiarvi nello sgabuzzino. Passarono
gli anni e puffai tutto quello che c'era da puffare. A un certo
punto diventai puffo zio. Mia sorella si ricordò dei vostri pupazzi
e mi chiese se poteva darli a Federico (mio nipote). Vacillai.
No che non volevo, ma che scusa poteva trovare? Mi aiutò mia madre
(non so come abbia fatto, ma secondo me lei sa qualcosa del mio
rapporto con voi: forse il fatto che in tutti i traslochi invece
di buttarvi via o di portarvi in qualche oratorio, vi ho sempre
infilati in uno scatolone, tutti stipati nel fungo come una nave
di profughi). Disse:
"No no, ci è affezionato." Mia sorella la guardò giustamente
allibita. "E poi sono nello sgabuzzino, nella mensola più
in alto, dietro a un altro scatolone, pesantissimo."
Riuscii a restare con i vostri pupazzi un altro anno, poi mi arresi
spontaneamente. Forse era giusto così, passavo il testimone. Era
tempo che altri bambini sapessero di voi. Federico però non si
è mai affezionato veramente. Quando andavo a trovarlo proponevo
sempre di giocare con il fungo, ma lui preferiva i power rangers
o le micro-machine. E forse è giusto pure questo.
Ecco, cari puffi, credo di avervi detto tutto. Mi ha fatto piacere
raccontarvi cosa avete significato per me, spero che abbia fatto
piacere anche a voi. Mi auguro che da voi vada tutto bene, che
Gargamella non rompa troppo i coglioni e che continuiate a mangiare
la vostra stupenda salsa pariglia. Non oso sperare che mi possiate
rispondere qui, sulle pagine di 'tina, ma in fondo perché no?
Tutto è possibile.
Con affetto,
Fabio Lubrano
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Dicembre 2006
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Intro
FRANCESCA RAMOS
Domenica
FEDERICO MIOZZI
TEMA : “Racconta la tua settimana bianca”
MICHELE ROSSINI
Dentro una batana bianc’azzurra
GIORGIO FONTANA
In tempo di pace
ALESSIO ARENA
Il Santo
NOTE
BIOGRAFICHE
SPECIALE
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