NUMERO 7
AGOSTO 98
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MAURIZIO MAROTTA
Quando 'tina è approdata su Internet ho temuto
che la casella di posta elettronica sarebbe stata invasa dalle consuete
tonnellate di racconti non richiesti. Fortunatamente (finora) non
è stato così. La posta arriva, ma sempre da lettori gentili e per
nulla invadenti, e i pochi testi di narrativa inviati sono tutti
di buona qualità. Speriamo che le cose continuino così. Devo confessare
però che il primissimo racconto che ho ricevuto via e-mail da un
lettore sconosciuto, che è quello che state per leggere, è stato
una vera rivelazione. Originale, scrittura perfetta, ha addiritura
l'ambizione di inventare un linguaggio celeste. Di più, davvero,
non credo si possa chiedere. E il bello è che, esaltato dalla lettura,
ho subito scritto all'autore per avere sue notizie, e lui mi ha
risposto con un nuovo raccontino autobiografico talmente curioso
che finirà dritto dritto nel numero speciale di 'tina stranezze
previsto per settembre.
Ho paura di aver scoperto un genio.
La rimessa
Ho visto per l'ultima volta le spalle di mio padre
in una sera di dicembre. E' stata quella volta lì che mi sono accorto
di quanto fossero belle, larghe e forti come le hanno certe volte
i ragazzi sugli scogli, un attimo prima di tuffarsi. Notai solo
allora quanto spazio prendessero nel vano delle nostre porte e nella
nostra vita.
Mio padre non ha mai amato uscire di casa la sera, né le combriccole
lavorative vere solo per cene e cenette qua e là, dicendo sempre
a tutti di no.
Ha avuto, all'opposto, una sorta di vocazione preistorica a starsene
a cuccia appena buio; un poco cercando riparo, un poco per fare
il guardiano e vegliare.
Veramente non ricordo bene come fu che cominciò ad andarsene, frettoloso
e avvolto dal segreto, quasi ad ogni dopocena. Le scuse cambiavano
alle domande di mia madre e una volta era la macchina da spostare,
una volta la rimessa da mettere in ordine, un'altra ancora la ricerca
di un arnese in giardino che avrebbe prestato, domani, a un amico.
In principio non ci facemmo caso perché queste uscite erano così
episodiche che non riuscivano a legarsi l'una all'altra per mettere
insieme la forma consistente di un sospetto.
Furono invece l'inclemenza del tempo e la neve straordinariamente
abbondante a far prendere corpo alla nostra preoccupazione. Per
quanto l'aria di dicembre fosse gelida e come abitata dalle spine,
mio padre senza timore si avventurava fuori ad ogni ora.
Io e mia madre restavamo a pulire i vetri della cucina e a spiare
fuori, mentre mio fratello che le stava tra le braccia teneva già
gli occhi chiusi nel sonno. Da lì vedevamo chiaramente che nessuno
era entrato dal cancello né che mio padre ne usciva. Lo scoprivamo
invece voltare a sinistra verso la rimessa e sparire dietro la fila
dei meli.
A mia madre bastava. Il fatto che suo marito fosse inequivocabilmente
solo, ancora nel territorio della casa, era per lei come una consolazione,
un parziale risarcimento a quell'angoscia di essere tradita che
di certo le aveva attraversato i pensieri.
Non era così, per me. Ho pensato più volte alle sere che avrei voluto
seguirlo, andare a spiare perché, tutto ad un tratto, mio padre
sentisse il bisogno di andarsene via da noi.
La rimessa, da sempre, è dove le macerie acquistano solidità e resistenza.
Lì dentro ho spiato mio padre. L'ho guardato stando chiuso nel mio
cappotto, nel gelo di un dicembre inclemente e sfrontato.
Li ho visti tutti e due, lui e quel suo amico, guardando dal finestrino
nella rimessa. Mio padre senza camicia, seduto, di spalle. L'altro,
invece, non si era tolto nemmeno la giacca. Gli vedevo la nuca spuntare
dal bavero e i capelli bianchissimi tirati all'indietro. Ma non
era un vecchio e questo mi sorprese. Era uno della mia stessa età,
più o meno venti, venticinque anni.
Così, ho poggiato l'orecchio sul vetro gelato e ho sentito la voce
paterna venire dal freddo.
Lui gli chiedeva:" Anche i miei figli, anche loro lo sai, pure
mia moglie... Credo di avergli dato quello che avevo, ma un po'
di allegria loro non me l'hanno mai data, non me l'hanno ancora
restituita... Se sono felici lo sono sempre da soli, per conto loro.
E poi, lo vedi anche tu, adesso ho i gerani tutti bruciati dal gelo.
Ma hanno stentato sin dal principio quest'anno. Eppure gli ho messo
tutto: la terra, la torba, il pietrisco. Neanche l'acqua gli è mai
mancata... Che dici, che cosa sarà?"
Parlava di noi con quel tipo in un modo che mi fece dispetto.
Ma il ragazzo non seppe che dire. Ed io ero contento che non gli
sapesse rispondere. In quel silenzio mio padre è rimasto sospeso
nel suo gesto di domanda, gli occhi puntati sul volto del tipo,
la bocca un po' aperta, la cenere sui pantaloni.
Ed è stato allora, proprio allora che mio padre ha levato la mano
di tasca, l'ha allungata sulla sua spalla e ha tirato giù.
Quello ha cacciato fuori una lingua rosa come ce l'hanno i gatti
e se l'è passata più volte sull'ala tenuta, fino a quel punto, coperta
sotto la giacca. Non era molto lunga. E il colore tra il bianco
e il beige, come la mollica del pane.
Gli era bastata un'ala fatta di pane per venire fin qui.
Per un poco sono rimasti a guardarsi senza espressione. Poi mio
padre ha cominciato, lentamente. Ne prendeva dei piccoli pezzi con
due dita, li portava alla bocca e ingoiava.
Non so quante sere mio padre abbia trascorso a piluccare l'angelo,
a sabotargli le ali.
Dopo si è alzato. E mio padre ha fatto in fretta a seguirlo come
per cortesia, quasi come in un atto di galanteria.
Se ne stavano andando.
Allora avrei voluto dirgli:" Papà, senza che te ne vai con
quello, non ti credo. E' uno scherzo che avete preparato insieme
per far ridere me che invece adesso ho solo un dolore, vedi, qui,
un dolore forte e vuoto che può far male come solo un dente tutto
scavato può farlo."
Ma l'angelo gli ha poggiato una mano sul braccio e lo ha fatto voltare.
Mio padre non ha saputo dirgli di no, gli ha ubbidito con gli occhi
per terra.
E dopo, l'angelo, incerto nella sua lingua celeste, gli ha detto:
"Vedresti, vedresti che ti ci troverai bene."
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