NUMERO 6
GIUGNO 98
 
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  SILVIA MAGI

Credo che sia un nome da tenere d'occhio quello di Silvia Magi. Personalmente avevo trovato molto bello il suo racconto d'esordio, quel "Nuore" apparso nell'antologia "Fifth" curata da Andrea Demarchi: così giovanile nella lingua e così maturo, quasi cinico, nello spirito. E il divertente racconto pubblicato in seguito in un libro-split con Massimo Angiolani aveva confermato le doti di Silvia come narratrice. 
Ora, in attesa di una personale raccolta di racconti, 'tina pubblica un racconto breve sul tema dell'infanzia, che lascia intuire come Silvia si stia già spingendo verso territori più aspri, verso temi più spigolosi; in questo caso, il sospetto di una morbosità sfiorata, e mai rimossa, subita da una bambina. 

La terra sulle ginocchia

Quando ero ancora nell’età che trattiene pochi ricordi, avevo uno zio nano che si chiamava Vincenzo ma che aveva piacere lo si chiamasse Vittorio. Non era più alto di mio fratello, che avrà avuto undici anni, e quindi fate un po’ voi. 
Questo zio nano mi molestava dentro la mia stessa casa, quando veniva in visita ai miei genitori e portava anche delle caramelle — francamente buonissime — in scatole cilindriche di latta, ogni volta con un gusto diverso, fragola, limone, ananas, mirtillo, arancio. Adesso mia madre usa quelle scatole per tenere aghi spille e bottoni. 
I compleanni, però, quelli non capivo perché non li suggellava con regali, e anzi forse addirittura non ne conosceva la data, e allora forse la mancanza era dei miei genitori che non lo avevano informato, mi dicevo. Però quando veniva in visita, non veniva mai a mani vuote, mai. 
Dicevo che mi molestava, e spesso a pochi passi dai miei genitori. Loro stavano, mettiamo, in cucina, e io in sala, che mio zio nano mi veniva dietro e strusciava la patta dei suoi calzoni senape a campana — tra l’altro bruttissimi e che lo facevano sembrare ancora più nano — al mio sedere. Per quanto possa sembrare pazzesco, io sono tuttora convinta che invece di qualcos’altro, lui, , ci avesse dei piombini. Perché quel che sentivo io quando lui strusciava erano tanti piccoli, piccolissimi granelli. Proprio, appunto, come dei piombini, un sacchetto di piombini. Però sentivo anche del caldo, come potevano essere calde le viscere di un animale. 
Non saprò mai cosa accadde davvero, io ero talmente piccola che se in seguito non fosse successo quel che poi successe, potrei pensare di aver solo immaginato tutto. 
Non so nemmeno quanti anni avesse mio zio allora. Non so, io adesso direi che era un uomo abbastanza anziano, ma non saprei con certezza. Per me, a quell’epoca, mia cugina di dieci anni era una donna, e sua sorella, di quindici, addirittura una vecchia che non avrebbe avuto ragione di sorridere tanto come invece faceva. Succede proprio così, no, lo sappiamo. 
Ma l’età che aveva mio zio non era importante, quel che importa è che lui si presentava a casa mia con queste scatole cilindriche di caramelle e mentre i miei non vedevano, strusciava i suoi piombini caldi come viscere sul mio sedere. Ricordo la sua mano che mi premeva sulla pancia per mantenermi attaccata a lui. Io fino a un certo momento non capivo ancora, ma il giorno in cui iniziai a capire che qualcosa non stava andando bene, appena lui s’avvicinò e mi prese per le braccia come faceva di solito, io mi divincolai. L’impressione che resta è quella della mia maglia di lana impigliata alle sue dita. 
Poi mi pare non abbia provato più a far niente. 
Mia madre va fiera del fatto di avermi messa in guardia in tempo, dice che non si era mai fidata di questo suo cugino troppo gentile, quindi non possiamo sapere se a casa sua, potendo, avrebbe portato anche me. 
Invece portò Giacomo. Aveva detto che gli avrebbe mostrato qualcosa, forse un trenino elettrico o forse qualcosa di anche più fiabesco, tipo uno gnomo o un cane parlante. Giacomo era il genere di bambino incline alla fiducia. Quando insieme alla mia amica Sonia gli avevamo fatto credere di avere una foto, scattata di nostra mano, di un fantasma, lui non aveva esitato a crederci. In realtà era solo il negativo di una foto tessera di mia nonna Wanda, che appena scoperta dentro il cassetto del suo comò aveva impressionato anche me. Insomma, mia nonna Wanda era davvero irriconoscibile e spaventosa, ma lui non dubitò per un attimo che fosse un fantasma e da quel momento in poi trattò Sonia e me con gran rispetto. 
Giacomo si allontanò con mio zio in uno dei primi giorni in cui si iniziava a giocar fuori, nella piazzetta tra i palazzi antichi in cui abitavamo. Mio zio era appena uscito dal portone e si stava avviando verso la sua mini minor vinaccia, poi fu come distratto e venne a farci visita tra le aiole. Venne a salutarmi e se volevo, disse, mi avrebbe portato a fare un giro, potevamo andare a vedere i cavalli al galoppatoio. Io avevo da fare con le mie amiche, con le pentoline e col fango, gli rispondevo distrattamente e seccata, con gli stessi modi che mi riconosco anche oggi quando voglio evitare situazioni che non so gestire. Però lui era cordiale, non era nervoso o impaziente come uno se lo potrebbe immaginare. 
Nessuno mi ha mai raccontato cosa sia successo a casa di mio zio, ma io so che lui era un uomo che si accontentava di poco, della sua mini minor vinaccia, per esempio, o di ascoltare i nastri del Guardiano del faro. Avrà mostrato a Giacomo il baracchino, la tv a colori che a quei tempi era ancora una rarità. 
Io lavavo le pentoline alla fontanella, prima di riporle a posto. Era la mia amica Sonia, che ci teneva, diceva che quando il fango si asciugava poi diventava schifoso. 
Nella piazzetta apparvero all’improvviso come nubi, non appena io uscii dai miei giochi. Apparvero il trambusto, la confusione che sapevano fare gli adulti. Facevano quasi tremare le panchine e rabbuiare tutto, alzai la testa ed era già notte. Mia madre mi venne incontro e prendendoci per mano tirò via me e Sonia, che era già più grande e provò a resisterle. Avevano ammazzato mio zio, mi parve di capire, e adesso c’era gente sotto la finestra di casa sua, intorno alla sua mini minor. Quando mia madre venne a prendermi mi sembrò che fossero tutti voltati a guardare me, come se adesso tutti sapessero. 
Io finsi una faccia stravolta, sentivo le occhiaie che avevo sempre avuto solcarmi ancora di più il viso, le ginocchia grigie di terra. Quel che mi veniva in mente era di fare una faccia frastornata perché mi guardassero, come se la gente mi stesse attorno a cilindro, perché quello che era morto era proprio mio zio, non quello di Sonia o di qualcun altro. 

 
 
Dicembre 2006

 

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