NUMERO 6
GIUGNO 98
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ALESSANDRA
BUSCHI
C'è
qualcosa nei racconti di Alessandra Buschi che è difficile da definire,
ma è che è inequivocabilmente suo: forse la capacità di essere semplice
e diretta nella narrazione, senza il timore di affrontare le banalità
del quotidiano, sforzandosi però di rintracciare quegli aspetti
imprevedibili e nascosti che rendono uniche le storie comuni.
Il nome della Buschi non è molto noto, malgrado un esordio importante
come quello nel primo Under 25 curato da Tondelli e un libro di
racconti che conteneva l'inarrivabile "Mario il Bini",
secondo me uno dei più bei racconti italiani degli anni '80. Poi,
più o meno, il silenzio.
Oggi Alessandra si prepara a ritornare, con la partecipazione ad
alcune antologie, l'ipotesi di un nuovo libro e, ovviamente, la
pubblicazione su 'tina!
Lo
Scamorza
Era la fine
di maggio, di sabato. Lo Scamorza, che all'inizio della settimana
era partito per Amburgo con il camion vuoto, era tornato il venerdì
mattina con un carico di cartoni da imballaggio. Aveva scaricato,
regolato i documenti di trasporto e, una volta a casa, dormito fino
alla mattina successiva, sabato per l'appunto.
Quando lui e Anna s'erano incontrati era quasi mezzogiorno. Lo Scamorza
aveva consegnato giusto cinque minuti prima la sua denuncia dei
redditi. Anna, invece, stava tornando a casa a piedi dopo aver fatto
qualche compera in centro.
Ognuno andava nella direzione opposta a quella dell'altro, così,
al semaforo, s'erano trovati faccia a faccia in attesa che scattasse
il verde.
S'erano guardati. Lo Scamorza, senza un motivo preciso, aveva iniziato
a fissare la sconosciuta. Poi, sostenuto dallo sguardo di lei che
per tutto il tempo era rimasto fisso nel suo, aveva continuato a
guardarla a bella posta. Anna, d'altro canto, non s'era avveduta
dell'uomo che le stava di fronte, e tantomeno aveva fatto caso ai
loro occhi che si erano incontrati e fermati gli uni negli altri
per un tempo che a lei sembrò volare, ma che a lui sembrò interminabile.
Scattò l'avanti. Attraversarono. Anna, le mani affondate nel cardigan,
e lo Scamorza, lo sguardo perplesso e ancora su di lei, si erano
sfiorati. Poi, ognuno dall'altra parte della via, avevano continuato
per la loro strada.
A casa, lo Scamorza fece la doccia che il giorno avanti aveva rimandato
al giorno successivo. Anna invece, anticipandola d'un giorno, si
fece la settimanale pulizia del viso e, preparando il pranzo, si
sforzò a non atteggiarsi in espressioni scorrette che avrebbero
potuto rovinare l'effetto della maschera rendendone vani tutti i
benefici.
Anna mangiò un piatto d'insalata di riso e un secondo di fegato
con cipolle; finì il pasto con uno yogurt alla frutta. Lo Scamorza
aprì una lattina di birra, poi rovesciò il contenuto di un sacchetto
in mezzo litro di latte e sorbì la sua zuppa di funghi precotta
seduto sul divano, tra una pila di panni da lavare e un'altra di
già lavati.
Sul secondo c'era il telegiornale. Dopo il notiziario fu annunciata
una sesta lezione di lingua spagnola. Lo Scamorza cambiò programma,
poi cambiò di nuovo, a ritroso ripassò i canali col telecomando,
quindi spense il televisore. Anna, il viso ormai pulito, raccogliendo
i piatti sporchi dopo il pranzo, alzò il volume e, seguitando a
fare le sue faccende, seguì passo passo la lezione, soffermandosi
ogni tanto a ripetere il più correttamente possibile le frasi proposte
dal programma.
Sia per Anna sia per lo Scamorza, quello era giorno di riposo. Entrambi,
nel pomeriggio, avrebbero schiacciato un pisolino.
Di quand'era
bambina, Anna ricordava il settimanale taglio delle unghie, di quando
aveva otto anni il taglio delle trecce, e, a dieci appena compiuti,
l'asportazione delle tonsille.
Di queste fasi salienti dell'infanzia aveva avuto modo più tardi,
tra i diciotto e i vent'anni, di analizzare con freudiana meticolosità
ogni particolare sotto la guida di un giovane e timido analista
dal quale sua madre l'aveva accompagnata dopo le avvisaglie anoressiche
dell'adolescenza.
Ora, a quarantadue anni, Anna non solo aveva difficoltà di rivivere
piacevolmente i ricordi, ma provava anche un vero fastidio nel ripensarsi
ventenne, nell'angusta posizione della paziente, affetta peraltro
da sindrome comune e sputtanata, ovverosia complesso di castrazione
e invidia del pene.
Aveva sempre sentito come qualcosa le mancasse, e siccome non passava
giorno avvertisse questa mancanza, era come se questo qualcosa realmente
ci fosse. Cosicché, a quarant'anni suonati, viveva quest'assenza
tale e quale una presenza, dandola per scontata.
Anna, in passato, avuto avuto qualche simpatia, di questo non c'erano
dubbi; ma, ritenendo la mancanza che le era stata diagnosticata
troppo gravosa per un rapporto a due, non se l'era mai sentita di
iniziare una storia seria. Per cui, a conti fatti, ormai non si
sognava più un fidanzamento o un matrimonio, ed era addirittura
arrivata al punto di non far neppure più caso ai suoi stessi sentimenti
e di non badare ai più o meno galanti approcci che comunque non
erano mancati.
Questa era Anna. Adesso invece lo Scamorza.
Giuseppe Fiorello, detto Scamorza per la sua poca scorza e per la
sua poca consistenza, aveva cinquant'anni. Vedovo, senza figli,
faceva il camionista.
Dello Scamorza non c'è molto da dire, sennonché avesse fatto dell'abitacolo
del suo camion dimora fissa, lasciando il bell'appartamento di quando
era sposato per le feste comandate e per le ferie che, suo malgrado,
annualmente aveva diritto a godere. Siccome poi aveva sempre avuto
la mania di raccattare tutto quello che trovava, il suo appartamento
era diventato una specie di ripostiglio, e quella che una volta
era stata la stanza buona di sua moglie buonanima era diventata
negli anni un vero e proprio magazzino di robe vecchie che lo Scamorza
andava trovando abbandonate agli autogrill o nelle piazzole di sosta
lungo l'autostrada.
Lo Scamorza era bianco di carnagione e stempiatello. Si curava poco
del suo aspetto fisico e l'unica cosa che potevi aver modo di vedergli
sempre lustra era il suo camion, che puliva ben benino a ogni partenza
e a ogni arrivo.
Anna aveva carnagione olivastra e portava i capelli biondi e ricci,
gonfiati da una permanente costante e da numerosi colpi di spazzola
quotidiani. Più di tutti gli altri colori amava il grigio, così
la vedevi vestita ogni giorno di quella tinta, fossero le sfumature
più chiare, fossero quelle più scure.
Anna abitava sola, ed essendo l'unica persona cui doveva badare,
credeva di badare a se stessa molto bene, concedendosi spesso lussi
che di certo sua madre, rimasta vedova quando Anna era poco più
che una ragazzina, non s'era mai potuta permettere. Così, Anna poteva
impiegare il suo denaro come meglio le pareva, avendo sempre contanti
disponibili, un buon conticino in banca e un'assicurazione che,
raggiunti i cinquant'anni, le avrebbe permesso di vivere bene anche
tutta la vecchiaia.
Di lavoro faceva la segretaria. Lavorava in un ambulatorio medico
dove prendeva e faceva telefonate, fissava o spostava appuntamenti,
riceveva e salutava pazienti, compilava e faceva firmare ricevute,
dava resti, ringraziava.
Anna non si lamentava del suo lavoro, e anzi per lei la sala d'aspetto
dell'ambulatorio era diventata come la sua seconda casa, dove trascorreva
volentieri sei ore al giorno fra gli acciacchi dei pazienti che,
vedendo forse in lei l'anticamera per la loro guarigione, la trattavano
con un gran rispetto. Spesso le lasciavano una mancia, e allora
Anna intascava, ringraziava, accompagnava il paziente fino alla
porta richiudendogliela pian piano alle spalle. Passava poi al paziente
successivo, dicendo le stesse parole e facendo gli stessi gesti
gentili che aveva usato con quello appena uscito.
Il fatto è che, a essere osservata, Anna, dopo vent'anni di quel
lavoro, non faceva più caso. La scrivania dietro la quale sedeva
e sulla quale erano ordinatamente sistemati agenda, telefono, elenco
e sempre un mucchio di ricette pronte per esser ritirate, era, entrando,
sistemata sulla destra. Di fronte a lei, tre file di seggiole rosse
erano per i pazienti. Ogni fila era di sette sedie, una attaccata
all'altra da un tubo di metallo che le legava assieme rendendole
sempre ben allineate, mai in disordine. La prima fila era di faccia
alla scrivania; la seconda, spalle alla prima; la terza, fronte
alla seconda. Anna era quindi abituata, sei ore al giorno e ogni
giorno, ad avere molti occhi puntati su di lei, sguardi che, nell'attesa,
dalla marina stinta alla parete scendevano sul suo viso, dall'orlo
della tenda alle sue mani, dalla maniglia della porta alle sue scarpe.
Ogni parola che diceva era occasione d'interesse per i pazienti;
ogni suo gesto richiamava l'attenzione; ogni sua richiesta era come
un ordine. Lì, nella sala d'aspetto, sembrava che Anna fosse l'unica
persona ad avere il diritto di parlare con un normale tono di voce:
chi aspettava d'esser visitato era infatti solito bisbigliare, rispondendo
ad alta voce soltanto a lei, qualora gli fosse stato domandato qualcosa.
Di essere osservata, quindi, Anna non faceva più caso, e anche una
volta per strada, non s'accorgeva se qualcuno la stava guardando
per una qualche ragione.
Fu per questo che Anna, quel sabato mattina verso mezzogiorno, quando
incontrò al semaforo rosso Giuseppe Fiorello detto Scamorza, ricambiò
lungamente la sua occhiata senza comunque farci davvero caso.
Accadde poi,
sempre quel sabato di maggio, che la madre di Anna avesse un forte
raffreddore, mentre lo Scamorza decidesse, dopo la pennica pomeridiana,
di uscire per incontrarsi al caffè con qualche amico.
Lo Scamorza, rovistando tra i panni lavati, aveva scelto un jeans
che, la gamba larga e quindi adesso tornata di moda, era meno stinto
e rovinato di altri; quindi una camicia di terital che non aveva
bisogno d'essere stirata, e un giacchetto, sempre jeans, corto in
vita, di certo strausato ma comunque buono per ogni occasione. Prima
di uscire s'era pettinato e, per vezzo, aveva preso il borsello,
nel quale aveva infilato portamonete, chiavi, pettine e fazzoletto
e che lasciò pendere al braccio infilandosi comunque le mani in
tasca.
Anna era uscita in fretta dopo la telefonata di sua madre e, infilata
una scatola di aspirine in borsa, non aveva fatto altro che calzare
il primo paio di scarpe che le era capitato a tiro e indossare sopra
la blusa e i pantaloni di felpa il cardigan che portava quella mattina.
Arrivata in piazza avrebbe preso il trentadue.
Lo Scamorza aveva parcheggiato la centoventisette nel primo posto
libero che aveva trovato prima della zona pedonale. Anche se il
caffè distava ancora diversi isolati da lì, avrebbe proseguito a
piedi per non doversi trovare intrappolato nel traffico del centro.
Anna e lo Scamorza andavano ognuno nella direzione opposta a quella
dell'altro. Così, al semaforo, s'erano trovati, proprio come quella
mattina, faccia a faccia in attesa che scattasse il verde, stavolta
però ognuno al posto dell'altro.
Anna, sovrappensiero, guardava dritto davanti a sé, e come quella
mattina il suo sguardo era fisso proprio negli occhi dell'uomo che
le stava di fronte, appunto lo Scamorza. Stavolta, forse memore
di una figura già vista, le parve di riconoscere in quell'uomo uno
dei pazienti dell'ambulatorio. Lo Scamorza, dal canto suo, non ebbe
dubbi nel riconoscere in lei la donna che aveva incontrato quella
mattina proprio a quel semaforo. Così, attraversando, Anna aveva
accennato a un saluto, mentre lo Scamorza, a bocca aperta, non aveva
saputo far altro che emettere una specie di suono inarticolato che
non nascondeva un certo stupore.
Che doveva pensare lo Scamorza a questo punto: che si trattasse
di un chiaro segno di interesse nei suoi confronti? un invito a
farsi avanti? un errore di persona? un semplice saluto di cortesia,
dal momento in cui si erano già incontrati quella mattina e lei,
la donna, lo aveva forse riconosciuto?
Lo Scamorza aveva continuato per la sua strada superando i tre palazzoni
che lo dividevano dal caffè. Si sarebbe incontrato con gli amici,
avrebbe fatto una partita a carte, bevuto un negroni discorrendo
appoggiato al bancone, raccontato del suo ultimo viaggio, di come
era stato il tempo, se c'era o non c'era nebbia, accennato a fatti
e persone. Succedeva sempre così, al caffè: lo incoraggiavano a
raccontare, lo punzecchiavano, e allora lui diceva sì, diceva no,
ridacchiava, faceva spallucce. Lasciatemi perdere, diceva, e poi,
ancora appoggiato al bancone, chiedeva un altro bicchiere, mentre
pian piano gli amici tornavano a occuparsi d'altro, un'altra partita
o qualcuno appena arrivato.
Ma stasera lo Scamorza era come distratto, sovrappensiero. Quando
uno dei compagni gli si era avvicinato e, salutandolo, gli aveva
dato una gran manata sulla spalla, lo Scamorza s'era allontanato
portandosi vicino a un tavolo dove si stava giocando. Seduto, sembrò
concentrarsi sulla partita.
Sua madre
non era poi così grave. Così, lasciate le aspirine, Anna non si
era trattenuta oltre e, benché non avesse nulla di veramente urgente
da fare, con una qualche scusa era riuscita a prendere la corsa
successiva e tornare a casa prima delle sette.
Allora lasci
le chiavi sotto lo zerbino, aveva detto alla fine.
Anna non credeva alla sua stessa voce: era stata davvero lei a parlare,
a dire a quell'uomo, conosciuto giusto un istante prima, Lasci le
chiavi sotto lo zerbino?
Senza dubbio quella era la sua voce, ma le sembrava che l'intonazione
che aveva dato alla frase non le appartenesse.
Si era poi avviata verso casa, agitata. L'appuntamento era per le
dieci di giovedì a casa sua.
Perché poi ci sarebbe dovuta andare?, si chiedeva. Era stata talmente
impulsiva: come le era venuta fuori quella frase? Chissà cosa lui
si aspettava, ora che lei aveva accettato di andare all'appuntamento.
Giuseppe così aveva detto di chiamarsi l'uomo che le si era
avvicinato alla cassa dei grandi magazzini offrendosi di spicciarle
le cinquantamila Giuseppe sarebbe stato fuori due giorni
per lavoro e sarebbe rincasato giovedì dopo cena, diciamo verso
le dieci. Se lei ne aveva voglia, avrebbe potuto aspettarlo a casa
sua, e le aveva dato il suo indirizzo.
Anna era come ipnotizzata: guardava allibita l'uomo che, con la
banale scusa degli spicci, era passato immediatamente all'azione:
una cosa del genere non le era mai capitata, e lei, indispettita,
gli aveva tirato via dalle mani quelle cinque carte da dieci e,
dopo avergli messo in mano la sua carta da cinquanta, si era voltata
verso la cassiera senza dire una parola.
Mi scusi signora, aveva detto raggiungendola già sulle scale, Ci
siamo incontrati diverse volte per strada, si ricorda? e mi piacerebbe
conoscerla meglio. Non potremmo vederci, che so, a casa mia fra
qualche giorno? Starò fuori fino a giovedì sera, ma verso le dieci
sarò di ritorno. Se crede, posso lasciarle le chiavi, così potrà
aspettarmi con comodo. Vedrà: non farò tardi.
Anna era come ipnotizzata: una cosa del genere non le era mai capitata.
Poi, quella frase le era uscita dalla bocca quasi senza se ne rendesse
conto: Allora lasci le chiavi sotto lo zerbino.
Giuseppe Fiorello, detto Scamorza, aveva avuto come un sussulto,
quindi aveva allungato la destra verso quella di Anna e, stringendogliela
forte anche con l'altra, aveva concluso dicendo Ci conto, e se ne
era andato, anticipandola velocemente giù per le scale che portavano
all'uscita del supermercato.
Anna s'era sentita come presa da un vortice: tutto le girava attorno
e per paura di perdere l'equilibrio s'era aggrappata allo scorrimano.
Poi, lentamente, era discesa. Fuori, in strada, la testa ancora
le girava. Sedette a un caffè e ordinò un gelato al limone. Ma lo
lasciò quasi intatto, giocherellando invece con lo scontrino che
il cameriere aveva fermato sotto la coppa quando gliel'aveva servita.
L'arrotolò, lo spiegò di nuovo, cercò di farci una cannuccetta più
sottile che poteva, l'arrotolò quindi nel senso contrario, di nuovo
lo dispiegò cercando di ridargli la forma originaria. Quindi lasciò
sul tavolo quel che doveva per la consumazione e accartocciò tra
le dita il pezzetto di carta: al primo cestino l'avrebbe buttato.
Ma, arrivata a casa, già in ascensore, s'accorse di stringerlo ancora
nel palmo della mano e di averlo tenuto ben stretto tutto il tempo.
Lo Scamorza
aveva avuto come un sussulto: chissà se la signora se n'era accorta.
Lasci le chiavi sotto lo zerbino, aveva detto lei: ma lui, lo zerbino,
di fronte alla porta, non l'aveva. Ce n'era stato uno, è vero, quando
Pia era ancora viva, ma chissà dov'era finito: proprio non aveva
mai pensato ci fosse bisogno di tenerne uno davanti alla porta,
e quello che aveva, forse lo avevano rubato senza se ne fosse accorto,
oppure era andato buttato, chissà. Mica poteva mandare tutto a puttane
per uno stupido zerbino. Così, appena uscito dal grande magazzino
dove aveva incontrato di nuovo quella signora, era andato dritto
dritto a comperarne uno, dilungandosi nella scelta, valutando cordame,
consistenza e grandezza come mai prima d'allora gli sarebbe venuto
in mente di fare per acquistare un oggetto del genere.
Prima di partire (ma aveva solo poche ore) lo Scamorza doveva fare
molte cose: riempire il frigo innanzitutto, poi fare in modo che
tutto quel lerciume in sala da pranzo sparisse. Non sarebbe poi
partito senza aver prima preso con sé un cambio pulito.
Tre ore dopo lo Scamorza partiva con un carico di latte condensato
alla volta di Atene. Era riuscito a sistemare più o meno tutto:
subito dopo aver risolto la questione dello zerbino aveva fatto
una bella spesa e, una volta a casa, aveva ben bene riempito frigo
e dispensa. Aveva quindi chiesto alla Cesarina, la portinaia, un
grosso piacere: andargli a sistemare l'appartamento durante quei
suoi due giorni d'assenza, e questa, sebbene un po' sorpresa per
l'insolita richiesta del Fiorello, aveva accettato. Prima di partire
prese un paio di jeans puliti, una camicia bianca e un gilet beige
di lanina e mise il tutto, piegato per benino, in una busta di carta
che, appena salito sul camion, sistemò sul sedile accanto a sé.
Lo Scamorza
portava un paio di jeans, una camicia bianca e un gilet beige di
lanina. Quando aveva suonato al campanello s'era ravviato i capelli
con le dita. Anna aveva timidamente socchiuso la porta, lui aveva
detto Salve, s'era pulito le scarpe strusciandole contro lo zerbino
ed era entrato.
Era un po' come non essere a casa sua, visto che qualcuno era venuto
ad aprirgli la porta e l'aveva fatto accomodare. Per Anna era invece
come non essere né qui né lì, ma altrove. Per farlo entrare, Anna
s'era fatta da parte, addossandosi alla mensola del telefono nell'ingresso.
Salve, aveva di nuovo detto lui calorosamente. Nessun problema con
le chiavi? aveva chiesto.
Nessuno, aveva detto Anna. Bene, aveva poi proseguito lui, S'è già
servita qualcosa? Anna aveva fatto cenno di no con la testa, quindi
lui s'era diretto in cucina dicendole di accomodarsi.
Aveva preparato due bicchieri e li aveva posati sul tavolino di
fianco al divano. Poi le si era seduto accanto.
Fatto buon viaggio? aveva allora chiesto Anna portandosi il bicchiere
alle labbra. Così e così, aveva detto lui subito dopo aver vuotato
il bicchiere in un sol sorso.
È bello tornare a casa, aveva mentito lui. Sì, posso capire, aveva
detto lei, aggiungendo: Per chi viaggia dev'essere importante sapere
di avere un punto fisso, una casa accogliente pronta ad ospitarti.
Non è un granché d'appartamento, aveva osservato lo Scamorza facendo
un gesto circolare d'intorno. Non è niente male, aveva mentito lei.
Vive solo? aveva poi azzardato.
Seguì la storia di quell'appartamento: lui e Pia giovani sposini
in affitto, il loro matrimonio, i figli che non erano venuti e che
sua moglie aveva tanto desiderato, poi la morte improvvisa di lei.
Anna aveva sorseggiato pian piano quel liquido amarognolo dal suo
bicchiere, poi, una volta vuoto, l'aveva passato allo Scamorza perché
lo poggiasse sul tavolino.
E ora? cosa sarebbe successo ora? Doveva subito mettere le mani
avanti, far chiarezza, spiegare perché all'appuntamento infine era
davvero andata?
Fu lui, lo Scamorza, a introdurre il discorso: Ero sicuro sarebbe
venuta, disse.
Che cosa glielo ha fatto pensare? aveva chiesto Anna sulla difensiva.
Si capisce che lei è una donna moderna, spigliata, aveva allora
detto lui. Non c'è niente di male se un uomo e una donna s'incontrano
e decidono di passare un po' di tempo insieme.
Si figuri, aveva detto Anna. Ma, debbo confessarglielo, non creda
sia stato facile per me accettare quest'invito. Voglio dire: non
mi era mai capitato.
Forse lo Scamorza non aveva neppure ascoltato quello che lei aveva
detto. S'era sfilato il gilet, l'aveva appoggiato, ancora al rovescio,
sul bracciolo del divano e le si era fatto più vicino.
Com'ha detto che si chiama? aveva chiesto lui a lei. Veramente non
gliel'ho ancora detto. Comunque sia, mi chiamo Anna, aveva risposto
lei. Poi lo Scamorza aveva ripetuto a bassa voce: Anna e, avanzando
quel tanto che bastava, l'aveva baciata.
"Vado
all'autolavagio. faro presto", c'era scritto sul foglietto
che lo Scamorza aveva lasciato appoggiato sul comodino tra la sveglia
e un tubetto di pastiglie rosa.
Anna, nel leggerlo, aveva avuto una buffa sensazione, non sapeva
se di stupore se di tenerezza. Più sotto, a grandi caratteri, lo
Scarmorza si era firmato Giuseppe, marcando il nome con uno svolazzo
esagerato che dava tutta l'impressione di esser stato aggiunto a
bella posta all'ultimo momento.
Anna aveva sorriso. In bagno si era rivestita, data una botta ai
capelli, rinfrescata la faccia. Era uscita. Del resto pensò
già in fondo alle scale non sa nemmeno il mio cognome. Aveva
preso l'autobus. A casa si era fatta una doccia.
Era di questo
che aveva sempre avuto paura, che voleva, che credeva le mancasse?
pensava. Provava tenerezza nel ripensare a quell'uomo, figurandoselo
nel letto sopra di lei con quell'espressione incredula. Non è possibile,
aveva esclamato lui. Poi l'aveva abbracciata, quasi a toglierle
il respiro.
Adesso che aveva bagnato ben bene d'inchiostro blu il tampone, Anna
faceva scorrere con due dita i fogli del ricettario facendo attenzione
a poggiare il timbro proprio al centro del rettangolo in bianco.
Timbrato anche l'ultimo foglio, aveva quindi preso l'agenda. Facendo
scivolare di lato il nastrino dorato, l'aveva aperta a quel sedici
maggio.
Dello Scamorza Anna non seppe più nulla. Lui, di Anna, altrettanto.
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