NUMERO 4
OTTOBRE 1997
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MATTEO
B. BIANCHI
Non
sono un tipo che ama molto partecipare ai concorsi letterari, e
le poche volte che lho fatto non ho ottenuto comunque alcun
risultato. Tuttavia capita, ogni tanto, che lipotesi di scrivere
un testo a tema ed entro una scadenza precisa mi faccia scattare
ispirazioni improvvise e irrefrenabili.
Questo comunque non spiega come mi sia venuta lidea assurda
di partecipare al Concorso Nazionale per il Racconto Sportivo organizzato
dal C.O.N.I. e sponsorizzato dal Totocalcio. Io, che di sport non
ne ho assolutamente mai praticati e che del calcio conosco giusto
le coscie di qualche giocatore. Eppure, forse proprio per questa
totale inadeguatezza al ruolo, mi sono messo al computer e ho scritto,
praticamente di getto, queste quattro pagine (peraltro di pura fantasia).
Della serie "opere non rappresentative dellautore".
Un
gol ogni cinque anni
Tranquillo
lo sono sempre stato, fin da piccolo.
A sei anni ero uno di quei bambini che stava in casa a fare i compiti
e a disegnare. Una gioia per le madri, un mistero per i padri, una
sega per i compagni di classe.
Beh, non è che fossi proprio una mummia completa. Cerano alcune
cose che mi piaceva fare allaria aperta. Però ce nera
una che assolutamente non mi andava, ed era quella che segnava irrimediabilmente
la differenza fra me e i miei coetanei: mi piaceva andare in bicicletta,
mi piaceva giocare a nascondino o ai quattro angoli, ma a calcio
proprio no. Lo detestavo io, il pallone. Che poi non ho neanche
mai capito perché lo chiamassero così, dal momento che la palla,
a ben vedere, era sempre piuttosto piccola.
Inutile dire che per i miei compagni valesse esattamente il contrario:
biciclette, rincorse, nascondigli erano alternative da prendere
in considerazione solo in casi estremi, indegne supplenti dellunica
attività possibile, il Gioco dei Giochi, quello che li vedeva schierarsi
ogni pomeriggio sul misero campetto (di cemento!) del quartiere,
in due squadre improvvisate ma agguerritissime, gli uni di fronte
agli altri, la palla al centro, e io immancabilmente in disparte,
testimone inutilissimo di vittorie e sconfitte del tutto loro. Se
restavo lì era solo perché contavo sullo sfinimento, sul desiderio
imprevedibile di cambiare (per un giorno, per unora, per una
svista) passatempo, sullipotesi che qualche ardito outsider
proponesse di andare a prendere un gelato tutti insieme.
Succedeva rarissimamente.
Mai, forse.
E poi c'era
il problema mamma.
Perché se è vero che tutte le madri del mondo sono felici di vedere
il proprio bambino seduto tranquillo a scarabocchiare quaderni,
è anche vero che quando la regolarità è troppa cominciano a preoccuparsi.
Se la creatura ogni pomeriggio siede beata alla scrivania e non
mostra mai il desiderio di uscire a rotolarsi nellerba, a
sporcarsi i jeansini, a fare a pugni con gli altri bambini, le mamme
cominciano a dubitare. Temono che il loro piccolino possa crescere
smidollato, rachitico, amebico, frocio, inappetente, impotente,
sfigato, insomma non-normale. E allora corrono ai ripari,
agli inviti, se necessario alle minacce, pur di spingerlo fuori
a prendere una boccata daria, come tutti gli altri.
Mia madre non faceva eccezione. Sopportava finché c'era la brutta
stagione, ma appena un pallido sole sintravedeva fra le nuvole
subito si metteva dimpegno perché io mi precipitassi fuori
ad eseguire il mio ruolo di bravo bambino sano.
Ed era in quelle circostanze di forza materna maggiore che io mi
trascinavo al campetto del quartiere, immaginando giochi di gruppo
che avrei finito per svolgere solo una volta su millenni.
Ma ormai sapevo come stavano le cose ed ero stoicamente rassegnato
al mio destino.
Eppure un giorno avvenne limpensabile.
Ero sullorlo di una panchina a vederli dannare, arrancanti
e furiosi verso quella sferetta di gomma, un occhio al loro gioco,
un occhio al di là del campo, verso il cielo stinto, inseguendo
qualche fantasia di futuro, immagini precoci e irrealistiche di
me stesso intellettuale di successo, medico affermato, regista famoso,
supereroe marveliano, e via di vertigine.
Ad un certo punto ecco che lAlessandro Rizzi, mio compagno
di classe e quasi-vicino di casa (duecento metri, nella stessa via),
appoggia male un piede e cade lungo disteso. Un urlooooo, un abbraccio
frenetico al ginocchio sanguinante. - Mi sono tagliato! - grida,
barcollando in direzione di casa. Gli amici sospendono momentaneamente
il gioco e lo guardando sgomenti sparire dal campetto e dalla vista.
Tacciono qualche secondo, poi cominciano a sbraitare. Il fatto è
che la partita ormai stava giungendo al termine, e sono in condizione
di parità, ma con un giocatore in meno è impossibile concluderla.
Sbuffano, imprecano, e, sospettosamente, cominciano a lanciarmi
strane occhiate. Alla fine, la decisione è presa. Mi chiedono di
sostituirlo.
Lo chiedono a me. Vogliono me.
La cosa non mi appare impossibile, quanto insensata. Avermi in squadra
o non avere nessuno è lo stesso. Non sono neanche capace di raggiungerla,
la palla. Che entro a fare?
Ma loro insistono. Fa persino piacere. E li accontento.
Qualcuno fischia e il gioco riprende. Io non ne capisco niente neanche
di regole, mi sembra che lunica cosa sensata sia precipitarsi
verso il punto su cui convergono tutti gli altri, imitandone i movimenti
e lentusiasmo.
Sarà perché sono fresco, a differenza di loro che giocano già da
unora, sarà perché sono semplicemente il più vicino, comunque
stavolta il pallone lo tocco subito, lo spedisco con piccoli calcetti
verso la porta avversaria e tutto sembra funzionare stranamente
bene. Poi, non so. Qualcuno degli avversari mi spinge, io cado,
i miei compagni sindignano, reclamano vendetta. In un attimo
è tutto un caos, gestacci, accuse, grida, pugni. E lattimo
dopo è un ordine nuovo, tesissimo, critico.
Rigore, dicono si chiami.
In altri termini, io sono solo di fronte alla rete del nemico. La
palla ai miei piedi, il portiere pronto a pararla. E una sfida
tra me e lui, e tutto il mondo ci guarda.
Abbiamo già perso, penso.
Abbiamo già perso, pensano i miei.
Hanno già perso, pensa chiunque.
Ed è davvero un caso se io, che fisso insistentemente lo spazio
vuoto alla destra del portiere, al momento di toccare la palla ho
un improvviso scarto di decisione e sferro il colpo tutto a sinistra.
Mi è venuto così. Altro che strategia, che tattica. Fortuna del
principiante. Semplice culo.
Il portiere si lancia da un lato, la palla si proietta verso il
lato opposto, e trac, con un movimento accidentale che pare evocare
la perfezione delle traiettorie cosmiche, è gol.
In quel preciso momento capisco tutto. Fra le urla di gioia e le
pacche sulle spalle e gli abbracci e le tirate di capelli dei miei
compagni, le braccia lanciate in aria e le bestemmie e la rabbia
degli avversari, capisco perché val la pena di dannarsi tanto, perché
si corre, si suda, si lotta, si ama, si odia, si impreca, si vive
per quella stupida palla.
Perché la felicità è un concetto astratto, che non sai spiegare,
eppure quando accade la riconosci, la senti in tutto il corpo che
ti attraversa come una rivelazione.
Ed era felicità vera quella che stavo provando io, quella che avevo
regalato ai miei compagni che mi esultavano intorno.
La vedevo distintamente nei loro occhi. Brillava, come un diamante.
I giorni seguenti
furono del tutto diversi dai precedenti. Ogni volta che arrivavo
al campetto tutti mi salutavano con entusiasmo, correvano a parlare
con me, ad invitarmi subito ad unirmi alla loro squadra. Ma io rifiutavo,
sempre.
Il fatto è che sei quello che sei, e non puoi cambiarlo, anche se
ti è andata bene una volta. Io e il pallone non eravamo fatti luno
per laltro e lo sapevo bene, me lo sentivo fin nelle viscere.
Preferivo conservare il ricordo della mia unica vittoria che assistere
al mio inesorabile e immediato declino in ambito calcistico.
Per cinque
anni ho vissuto della gloria di aver giocato una sola partita e
di aver sferrato il gol decisivo.
Poi le elementari finirono, cominciarono le medie, cambiarono i
compagni di classe, la leggenda cominciò a sbiadire...
Ma questa è tutt'altra storia.
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