La GIADA

La circostanza più imbarazzante per chi fa una rivista è sempre la stessa: prima o poi spunta l'amico che ti dice: "Ho scritto un racconto, lo leggi?" (e, sottinteso, "Me lo pubblichi?"). Quasi sempre il brano che vi consegna è orribile, ed è così difficile dirglielo, specie se è davvero un amico. Col tempo si impara a trovare parole gentili, eleganti perifrasi, menzogne, che salvano la faccia e l'amicizia. Per fortuna ogni tanto ci sono le eccezioni che ripagano di tutti gli sforzi diplomatici precedenti. E' il caso della mia amica Giada, già piccola star radiofonica e televisivo-satellitare, che un giorno mi ha dato il seguente racconto piena di incertezze e timori. "Secondo me non va bene" ha detto consegnandomelo. Forse aveva ragione: ci sono sbavature, salti imprevisti nella narrazione, troppo coinvolgimento emotivo personale. Non va bene, ma a me è sembrato assolutamente bellissimo.


Per 4 volte ti ho veduto
(pioveva tre su quattro)


PREMESSA.
Questo racconto è scritto per un unico motivo: vorrei che Vinicio Capossela mi amasse, tutta e a lungo. Nel caso decidesse di amarmi, almeno sappia come sono andate le cose. E, visto come sono andate, meglio che lo sappia da me.
Il racconto si intitola "Per 4 volte ti ho veduto: pioveva tre su quattro".
Inizia con una serie di coincidenze, finisce in un tripudio di partigiani in fuga. Mi piace l'imperfetto e lo userò, è il tempo dei bambini, che dicono giochiamo che eravamo gli indiani. Adesso giochiamo che io ero la ballerina e lui il soldatino di stagno. Dopo giochiamo a quello che volete voi.

AVVERTENZA:
Finzione letteraria vuole che le parole scritte tra parentesi non vadano lette: sono a beneficio di Vinicio, che imparerà così a conoscermi meglio. Siate gentili, saltatele, e io vi preferirò.

COINCIDENZE: "CERCO TE MA TU CHI SEI, TU CHI SEI?"

Mi sentivo una di quelle ortensie settembrine color occhiaia, appassita nel verde del mio divano. Alla tele c'era Red Ronnie, un tale che si è aggiudicato la chitarra di Jimi Hendrix per 400 milioni, tanto per dire una cosa. Una cifra elitaria per un sogno comune, tanto per dirne un'altra. Ma se un cavolo non fa merenda, una fender stratocaster non fa un chitarrista, tanto per dire la mia, che di musica non ne so nulla. Alle volte lo guardo, Red, perché è lento ed indeciso, mica come quando ha firmato il famoso assegno. Quel giorno presentava un cantante che conoscevo di nome e di una bella canzone: Vinicio Capossela.
Ti ho visto lì, la prima volta, tu col pastrano e la tuba, io in mutande rosa. Non ricordo cosa suonassi, ma era così abissalmente aereo che sono andata a rivestirmi, per rispetto. C'era in te qualcosa di bellissimo e sfiorito, come un antico palazzo siciliano, vestito di gelsomino fragrante ma sgretolato dai passi dei suoi abitanti. Pareva che te ne volessi andare via in lambretta dagli studi del centergross, magari avresti imboccato una di quelle vie di Bologna che partono porticate e cittadine e terminano in un picnic. Sorridevi tu, sorridevo io allo schermo, impastando mentalmente impiastri di ricotta e canditi da mangiare sull'erba, mentre il citofono lentamente suonava.

Tutto veloce poi. Arrivava Andre, con in dono le canzoni a manovella di Vinicio. Ti piacerà. Mi piacerà. Usciamo a respirare.
Più veloce. Cercavo le chiavi, squillava il telefono, era il mio capo: cosa mi dici di Capossela? Mi dice bene uscire.
Velocissimo. Correndo fuori dal cortile, una faccia da un oblò diceva: Vinicio Capossela, 12 dicembre, Teatro Smeraldo.
Velocità di crociera. Il cerchio quadrava, ma troppo presto per incontrarti.
A mezzanotte in punto, passava un aeroplano, e sotto c'era scritto: Vinicio statti zitto.

PIOVEVA LA PRIMA VOLTA: POLTRONA INCERTA.

Pioveva sugli astanti infagottati, campanelli suonavano elemosine, sigarette e parole bagnate sotto un tetto di Smeraldo, dentro poltrone rosse di solitudine aspettavano in file ordinate che la musica facesse la respirazione bocca a bocca alla sala. Si trattava di un Teatro democratico: se entravi dall'uscita di emergenza, quella alla sinistra del palco e alla destra del padre, disonestamente perbene e col passo spedito, nessuno ardiva chiederti il biglietto. Elegantissime e farlocche, così eravamo noi. Io e le mie amiche: la Coquelicot, che oggi vive a Parigi ma ieri è tornata, e la Carla, una cantante jazz che non esce di casa prima di essersi disegnata due baffi importanti, e io mi guardo bene dal chiedergliene il motivo. C'è sempre un motivo. Io seguivo una schiena e non altre. C'è sempre un motivo. Quando la schiena si è voltata aveva la tua faccia. Ti ho visto qui, la prima volta, tu con la tuba in mano e il pastrano, io verde di paillettes. Volevo sorriderti senza disturbare. Volevo disturbarti seriamente. Per motivi famigliari, ti avrei spiegato poi, di quelli inconfutabili, che al liceo ti fanno saltare le ore di ginnastica. Avresti potuto mettermi una nota, se ti fosse parso il caso, se ti fosse apparso il fato. Non mi notavi, ti sedevi, e noi lontane. Era il concerto di Paolo Conte. Aspettavo trepidante, come ogni volta, l'attimo in cui avrebbe detto "Marisa svegliati, abbracciami". È il mio momento, perché chiamandomi Marisa mi sembra che il pubblico si annulli e lui si rivolga a me soltanto, mentre un sorriso scacciato dai baffi gli nasce negli occhi. Il rituale si ripeteva, mi chiedeva ancora di abbracciarlo, quel vecchio cuore di bonnet. Mi sporgevo per vedere se te ne fossi accorto. Non mi stavi guardando. Sorridevi tu, a una ragazza col cappello che mi faceva ombra. Io ero livida di verdi paillettes.

PER DIRTI UNA PAROLA BELLISSIMA: FORSE IPOTENUSA.

Da grande vorrei lavorare in una radio. Il fatto è che alla radio ci lavoro già, alla Rai, ma mi piacerebbe farlo per bene, conoscere una per una le persone che mi ascoltano e dedicargli parole più giuste. L'anno scorso mi ha scritto un ragazzo dal carcere per ringraziarmi di essere la tipica ragazza della porta accanto. Soddisfazioni di buon vicinato. Non ricordo nemmeno il suo nome, ma ogni volta in onda cerco di non deluderlo, anche se mi auguro che ora abbia di meglio da fare. Quel giorno in ufficio c'era una riunione importante, ne andava del mio futuro, ovviamente. Era tutto un virgolettare le idee per renderle più belle, appetibili e incomprensibili. Adoro la mia redazione. Sono tutti così brillanti e intelligenti e psicotici che vivo di luce riflessa. Va detto che io sono una specie di Wanda Osiris che ruzzola dalle scale, perde la parrucca e si strappa il volant, se chiunque le parla seriamente del suo lavoro. Mi vien l'ansia da prestazione e divento un battitore in allenamento oppure mi ammutolisco guardinga come un alano di ceramica, se mi presentano come l'amica guarda, ti giuro, troppo simpatica, la devi conoscere, è una vera matta.
Dicevo, quel martedì era giorno di grandi decisioni da prendere, e come al solito le avrei ingoiate insieme al dolce ungherese della pasticceria sull'angolo. Sono fatalista, odio la competizione, trovo già abbastanza stancante stimarmi da sola. Il mio amico Ferrato dice che ho lo stesso senso della realtà di un afide che ha passato tutta la vita su un bocciolo di rosa. E' che mi piace, guardarvi tutti da qui: sembrate sinceri.
Sbocconcellavo giusto una fetta di sacher quando Ferrato, impallidendo, iniziava a gesticolare senza senso. Cosa? Chi? Dove? Sbuffando mi voltavo: sotto a un cappello da gavroche c'era Vinicio Capossela, live. Ma come si permetteva, lì, nel bel mezzo di una riunione, senza preavviso, nella mia vita reale, un posto dove se ti arriva una lettera è un cordiale ma deciso invito a provare il nuovo lines seta ultra. Non importa se da anni sei in menopausa o se adesso ti chiami Rocky, questa è la vita reale, mi risulta dai tabulati, benvenuta. Svegliati e indossa e, in quei giorni, fai il favore di garantirci un flusso abbondante.
Quando Vinicio viene a trovarmi la notte, è tutta un'altra musica, io dico meraviglie, lui non sa resistermi mai e ci baciamo lenti come il Tejo. Oggi ero sovrappensiero, non stavo neanche salvando il mondo, né mi prendevo cura di un cane maltrattato, non raccoglievo lillà nella luce del mattino: ingoiavo cioccolato al 3° piano di un anonimo palazzo in via Lecco 12. I grandi amori dovrebbero avere la decenza di annunciarsi qualche minuto prima di arrivare, come le crisi epilettiche. Uno lo sa, si sdraia sul divano, beve un bicchier d'acqua, si da una pettinata, se vuole dice una frase a effetto, o scrive due righe di commiato agli amici, per farsi ricordare con affetto, prima di spedire definitivamente il senno sulla luna. A Vinicio era bastato citofonare, per farsi aprire una porta. Che fosse poi quella scassinata del mio cuore pareva non interessargli affatto.

Corri via, pensavo, corri come se avessi un motivo per farlo. Partivo decisa a battere il record indoor, mentre entravi nell'ufficio del capo, lasciando la porta socchiusa. Ti spiavo la schiena, che peraltro conoscevo già, sempre correndo sul posto, per non perdere il ritmo: non ti voltavi, al solito. Giorgio mi diceva con gli occhi: vieni cucciola dai non fare la sciocca che te lo presento è una persona affabile vedi che stiamo ridendo adesso però se ne va è di fretta ecco è andato ti passa davanti, cretina. Ti rincorrevo sulle scale, fino al primo piano, per dirti una parola bellissima: forse ipotenusa, che mi sembra uno scivolo su cui rincorrere le idee perdute o le filastrocche dimenticate. Intanto parlavi con qualcuno al telefono, ecco perché non avevi preso l'ascensore, sbagliando. Avremmo potuto condividere l'aria per 30 secondi. Io l'avrei imbottigliata e custodita in segreto, per regalartene il ricordo tra anni, ad asciugare una giornata di pioggia. La porta a vetri dell'androne si chiudeva come un sipario alle tue spalle. Non bastava neanche il sole a farci scivolare insieme.

Qualcuno ha visto la mia sacher?

PIOVEVA LA SECONDA VOLTA: FILA 3, POSTO 16.

Sembrava primavera. Ieri. Stanotte pioveva ancora. Fuori dallo Smeraldo ci guardavamo complici, persone speciali, specialisti nell'aver trovato il biglietto, specializzati nell'ascoltare le tue canzoni. Avevo un fiore giallo nei capelli, come una samoana della Martesana: progettavo di donartelo, al momento opportuno, s'intende. Ero convinta che mi avresti guardato, questa volta, che mi avresti posto una domanda precisa su quali tuoi testi suonassero i miei tasti. Mi lambiccavo nell'indecisione: forse "e restiamo alla frusta qui uguali, felici e incapaci di esser normali", ma anche "savoiardi nella congrega inzuppati dentro alla Strega", chissà. Ero così pronta che avrei sbagliato sicuramente. (Come quella volta a Pompei, quando avevo 8 anni: documentata a un livello sospetto, cronaca di Plinio il vecchio nello zainetto. Ho cercato la persona più autorevole nell'aspetto di una divisa luccicante, il custode in quel caso, e gli ho chiesto se gli steccati lignei fossero autentici. Mi ha guardato con superiorità. Nella vita non ho più fatto l'archeologa, quell'errore brucia ancora.)
Bevevo un bicchiere di vino fermentato nell'attesa, un cameraman cercava di filmarmi per via di quella fresia gialla, un istante di vita indecifrata tra i miei capelli, mentre scivolavo incurante tra la gente, come una pattinatrice in lamè. La Fiore era la mia migliore amica anche quella sera, sempre bella e stanca e vestita da giudice onorario, dopo giornate avvolte nelle leggi come pesci nei fogli di giornale. Incontravamo un tale serbo con un nome da stazione orbitante russa che una volta venne a casa mia diciamo per un the. Questo Damir ti aveva aiutato a tradurre "Solo mia", dallo slavo.
(Io con la Jugoslavia ho un rapporto irrisolto. Mia madre è nata sotto il sole di Zara, e sotto le bombe del'43 l'ha abbandonata. Città intere cancellate da un trattato, profughi con la paglietta e borsette da sera, che la domenica cucinavano palacinche per i bambini e brindavano alla patria col Luxardo di amarena . Sui traghetti che li portavano vinti nelle Marche cantavano "addio Zara, o Zara mia, mi parto via, ma tornerò, e se ritorno ritorno col cuore, viva l'amore e la libertà". Non sono mai tornati a casa, troppo italiani per essere slavi, troppo slavi per essere italiani. Nelle vecchie foto il nonno insegna alle sue figlie a tuffarsi dal molo di Punta Amica. Oggi un cartello dice Punta Mika, e i bambini continuano a tuffarsi.)
Pensavo al mare, mentre le luci si abbassavano. Pensavo anche a cosa avrei provato baciandoti, l'avrei fatto piano e poi forte, ma con riguardo. Salivi sul palco e schiarivo la voce, per accompagnarti. Conosco quasi tutte le parole delle canzoni, anche quelle che non vorresti, e le canto pronunciandole come un incantesimo. Il canto si accendeva nella sala e spegneva l'affanno dell'attesa, accantonando sciarpe e parole e storie e concorsi da passare. Incantati di ascoltarti, Vinicio. Avrei voluto aspettarti all'uscita, come una fidanzata delle medie, quindi me ne andavo. Mangiavo con la Fiore: gamberi, storione e acqua gratis. Una banda di cortile suonava popolare e noi piano iniziavamo a litigare, sorridendoci. Litigavamo ancora, un'ora dopo in macchina, incagliate in un parcheggio vuoto, gridando sotto l'acqua ragioni che non ricordavamo più. Fuori dal finestrino c'eri tu. Da solo.
Eri davanti a me, le gocce di pioggia cadute sul tuo cappello erano parole che avrei voluto pronunciare. Ma non riuscivo a parlare. Riuscivo solo a far piovere.
( Io so fare per bene una cosa alla volta. Non appendo neanche quadri in camera, altrimenti sarei costretta a fissarli tutto il tempo e la mia vita sociale ne risentirebbe.)
Ti fissavo il naso con attenzione. Hai una cicatrice piccola sulla narice destra, un buffetto di capitan uncino, e io ne ero ipnotizzata. (Facciamo che ti avevo morsicato io da piccola.) Avrei voluto dirti l'essenziale: permetti sono Marisa intreccio ghirlande cucino poesie non ho pantaloni ma un camino francese mi tuffo all'indietro sposami al mattino. Mi hai chiesto una sigaretta. Ti ho fatto il nome di un amico comune, fingendo naturalezza da aeroporto, quando per passare il tempo parleresti di tutto, specialmente di quello che non sai. Nei luoghi di transito i pensieri sono passeggeri, se li concretizzi in parole finisce che qualcuno, ignaro delle conseguenze, se li porti fino in Madagascar, dove magari germogliano e addio ecosistema. In verità volevo darti una pista, piccole pietre da seguire per ritrovare la strada che portava a me. Non mi hai trovato, non mi hai cercato mai. Accettavi il fiore giallo e lo mettevi nel taschino. (Chissà se ora cominci a ricordare, sono il fiore giallo. L'hai buttato subito dopo, l'hai dimenticato, l'hai conservato, l'hai regalato) I miei pensieri sapevano di marsiglia ed erano stesi a bagnarsi sui fili della luce, ma non li raccoglievi. Con un sorriso mi invitavi a seguirti, su una macchina scintillante di verde e di epoca, che ti caricava e spariva nella strada. La Fiore accendeva il motore e in silenzio tornavamo a casa. Ora che la pioggia non cade più, avrai capito perché.

PIOVEVA LA QUARTA VOLTA: GUARDANDO IL PALCO, 2° ALBERO A DESTRA .

Pioveva sugli iris in boccio, sulle frittelle zuccherate, sull'erba appena tagliata, mi pioveva nel vino caldo, sulle mani, sui cani, sui partigiani e sui loro cappelli: si festeggiava la Liberazione, nel vecchio manicomio di Milano. Solo, un violino suonava, incurante del pubblico in fuga libera. Alcuni si assiepavano sotto improvvisati ombrelloni, concettuali cornicioni, intrecci di rami gocciolanti. Altri abitavano incuranti le loro sedie, riparati da una tetto di note. A ben guardarlo, il cielo, sembrava l'ingresso dell' iperspazio, e sulle mie guance colavano lacrime altrui. Volevo andare ad asciugarle in una casa al limitar del bosco, come nella favola portavo mele nel paniere, ma l'orco diceva no al nostro scampanellare. Noi eravamo belli e gentili e luccicanti di pioggia. Il proprietario del circolo arci era arcigno e asciutto, verde di rabbia e di camicia. Per motivi di ordine pubblico, continuava a ripetere, non potete entrare, anzi, solo se siete soci, e in un altro momento. L'ordine non è mai un buon motivo, ma un cattivo consigliere, ti spinge a mettere carte e persone dove non le troverai più, e ti mancheranno sempre. Sono socia arci e lo sono in questo preciso istante, mi autoconferisco la carica alla solenne presenza dei miei amici, continuavo a ripetere io, mentre una macchia di vino rosso mi decorava barocca una gamba. Non ero socia né socievole, ero una simpatizzante: e avevo la ferma intenzione di far valere i miei diritti inventati. Poi, poi ti voltavi. Mi mancavi tu. Per un attimo incrociavo il tuo sguardo morbido e improvviso e l'avrei baciato, gli avrei raccontato la verità. Invece uscivo a nascondermi e a spiarti dal vetro appannato. Come un ammiraglio dietro al bancone, l'orco mi sbirciava di sottecchi, gustando il suo trionfo mesto. Mi vergognavo e guardavo, sola con la pioggia: parole in gola, mani sporche e pancia vuota.
( A pranzo avevo mangiato biscotti e zabaione, mentre mio padre raccontava la storia del nonno che il 25 aprile aveva portato in salvo, a Milano, un certo qual generale, su un taxi con attaccata una mitragliatrice, accompagnato dall'oste di via Orti, che era il tale più grosso che conoscesse al tempo. E quelli non erano tempi facili. Ma mio nonno era armato di umorismo e sfumature. Non aveva gli alluci perché, diceva, glieli avevano mangiati gli squali. E io non ho motivo di dubitarne.)
Sfumava ancora l'occasione di parlarti, mentre fumavo l'ultima sigaretta della notte, quella che sa di troppo poco. Correvo veloce alla macchina, giocando al mondo con le pozzanghere, e ridevo di me sotto a un cappello imprestato. A conti fatti, mi sembrava il momento giusto per fischiettare un motivetto. Ma io non so fischiettare. Sapevo che mi avresti riconosciuto. Prima o poi, Vinicio.
Prima o poi.

ALLA FINE.

Ho raccontato come sono andate le cose, sinceramente. Non so se si possa scomodare il karma, ma qualche coincidenza, lo ammetterai anche tu, esiste. Potresti obbiettare che sei un cantante famoso, che fai cose, vedi gente. Ma anche io ne vedo, di gente, una volta ho incontrato perfino il capitano Kirk in ascensore, per dire, e non mi ha fatto l'effetto che mi fai tu.
E alla fine devi ammettere che, a parte quella volta in ufficio, ci siamo incontrati in posti belli da ricordare, né in tangenziale, né al reparto surgelati.
Quasi sempre sotto la pioggia.
E alla fine ti ha sognato anche mia madre, sulle note di "Che cossè l'amor": eravate seduti allo stesso tavolo, tu coi capelli rossi e lunghi e il becco da gallo, dice lei. Chiacchieravate amabilmente dei miei sentimenti, così, in una qualsiasi pizzeria. Spudorati.
E alla fine ho fatto la tessera arci in un ristorante meticcio, che non si sa mai.
E alla fine scopro che ti conoscono tutti, tutti ti vedono, tutti sono prodighi di aneddoti su quella volta che….
E alla fine mi ha fecondato l'idea di te e, istericamente gravida, ti ricerco nelle pance degli altri. Conosco la tua mail, il tuo numero di telefono, il tuo indirizzo, ma cercherò di ingoiarli. Stamperò il racconto e lo porterò con me: forse la stagione delle piogge non è finita ancora, e farò in tempo a dartelo.
(Ma alla fine il 30 giugno, alle 4, sarò al Planetario di Milano. Se vieni, ci baciamo appena spengono le luci.)

SCRIVI ALL'AUTRICE

 
Dicembre 2006

 

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Intro

FRANCESCA RAMOS
Domenica

FEDERICO MIOZZI
TEMA : “Racconta la tua settimana bianca”

MICHELE ROSSINI
Dentro una batana bianc’azzurra

GIORGIO FONTANA
In tempo di pace

ALESSIO ARENA
Il Santo


NOTE BIOGRAFICHE

 

SPECIALE
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