La GIADA La circostanza più imbarazzante per chi fa una rivista è sempre la stessa: prima o poi spunta l'amico che ti dice: "Ho scritto un racconto, lo leggi?" (e, sottinteso, "Me lo pubblichi?"). Quasi sempre il brano che vi consegna è orribile, ed è così difficile dirglielo, specie se è davvero un amico. Col tempo si impara a trovare parole gentili, eleganti perifrasi, menzogne, che salvano la faccia e l'amicizia. Per fortuna ogni tanto ci sono le eccezioni che ripagano di tutti gli sforzi diplomatici precedenti. E' il caso della mia amica Giada, già piccola star radiofonica e televisivo-satellitare, che un giorno mi ha dato il seguente racconto piena di incertezze e timori. "Secondo me non va bene" ha detto consegnandomelo. Forse aveva ragione: ci sono sbavature, salti imprevisti nella narrazione, troppo coinvolgimento emotivo personale. Non va bene, ma a me è sembrato assolutamente bellissimo.
AVVERTENZA:
COINCIDENZE: "CERCO TE MA TU CHI SEI, TU CHI SEI?" Mi sentivo
una di quelle ortensie settembrine color occhiaia, appassita nel verde
del mio divano. Alla tele c'era Red Ronnie, un tale che si è aggiudicato
la chitarra di Jimi Hendrix per 400 milioni, tanto per dire una cosa.
Una cifra elitaria per un sogno comune, tanto per dirne un'altra. Ma se
un cavolo non fa merenda, una fender stratocaster non fa un chitarrista,
tanto per dire la mia, che di musica non ne so nulla. Alle volte lo guardo,
Red, perché è lento ed indeciso, mica come quando ha firmato
il famoso assegno. Quel giorno presentava un cantante che conoscevo di
nome e di una bella canzone: Vinicio Capossela. Tutto veloce
poi. Arrivava Andre, con in dono le canzoni a manovella di Vinicio. Ti
piacerà. Mi piacerà. Usciamo a respirare. PIOVEVA LA PRIMA VOLTA: POLTRONA INCERTA. Pioveva sugli astanti infagottati, campanelli suonavano elemosine, sigarette e parole bagnate sotto un tetto di Smeraldo, dentro poltrone rosse di solitudine aspettavano in file ordinate che la musica facesse la respirazione bocca a bocca alla sala. Si trattava di un Teatro democratico: se entravi dall'uscita di emergenza, quella alla sinistra del palco e alla destra del padre, disonestamente perbene e col passo spedito, nessuno ardiva chiederti il biglietto. Elegantissime e farlocche, così eravamo noi. Io e le mie amiche: la Coquelicot, che oggi vive a Parigi ma ieri è tornata, e la Carla, una cantante jazz che non esce di casa prima di essersi disegnata due baffi importanti, e io mi guardo bene dal chiedergliene il motivo. C'è sempre un motivo. Io seguivo una schiena e non altre. C'è sempre un motivo. Quando la schiena si è voltata aveva la tua faccia. Ti ho visto qui, la prima volta, tu con la tuba in mano e il pastrano, io verde di paillettes. Volevo sorriderti senza disturbare. Volevo disturbarti seriamente. Per motivi famigliari, ti avrei spiegato poi, di quelli inconfutabili, che al liceo ti fanno saltare le ore di ginnastica. Avresti potuto mettermi una nota, se ti fosse parso il caso, se ti fosse apparso il fato. Non mi notavi, ti sedevi, e noi lontane. Era il concerto di Paolo Conte. Aspettavo trepidante, come ogni volta, l'attimo in cui avrebbe detto "Marisa svegliati, abbracciami". È il mio momento, perché chiamandomi Marisa mi sembra che il pubblico si annulli e lui si rivolga a me soltanto, mentre un sorriso scacciato dai baffi gli nasce negli occhi. Il rituale si ripeteva, mi chiedeva ancora di abbracciarlo, quel vecchio cuore di bonnet. Mi sporgevo per vedere se te ne fossi accorto. Non mi stavi guardando. Sorridevi tu, a una ragazza col cappello che mi faceva ombra. Io ero livida di verdi paillettes. PER DIRTI UNA PAROLA BELLISSIMA: FORSE IPOTENUSA. Da grande
vorrei lavorare in una radio. Il fatto è che alla radio ci lavoro
già, alla Rai, ma mi piacerebbe farlo per bene, conoscere una per
una le persone che mi ascoltano e dedicargli parole più giuste.
L'anno scorso mi ha scritto un ragazzo dal carcere per ringraziarmi di
essere la tipica ragazza della porta accanto. Soddisfazioni di buon vicinato.
Non ricordo nemmeno il suo nome, ma ogni volta in onda cerco di non deluderlo,
anche se mi auguro che ora abbia di meglio da fare. Quel giorno in ufficio
c'era una riunione importante, ne andava del mio futuro, ovviamente. Era
tutto un virgolettare le idee per renderle più belle, appetibili
e incomprensibili. Adoro la mia redazione. Sono tutti così brillanti
e intelligenti e psicotici che vivo di luce riflessa. Va detto che io
sono una specie di Wanda Osiris che ruzzola dalle scale, perde la parrucca
e si strappa il volant, se chiunque le parla seriamente del suo lavoro.
Mi vien l'ansia da prestazione e divento un battitore in allenamento oppure
mi ammutolisco guardinga come un alano di ceramica, se mi presentano come
l'amica guarda, ti giuro, troppo simpatica, la devi conoscere, è
una vera matta. Corri via, pensavo, corri come se avessi un motivo per farlo. Partivo decisa a battere il record indoor, mentre entravi nell'ufficio del capo, lasciando la porta socchiusa. Ti spiavo la schiena, che peraltro conoscevo già, sempre correndo sul posto, per non perdere il ritmo: non ti voltavi, al solito. Giorgio mi diceva con gli occhi: vieni cucciola dai non fare la sciocca che te lo presento è una persona affabile vedi che stiamo ridendo adesso però se ne va è di fretta ecco è andato ti passa davanti, cretina. Ti rincorrevo sulle scale, fino al primo piano, per dirti una parola bellissima: forse ipotenusa, che mi sembra uno scivolo su cui rincorrere le idee perdute o le filastrocche dimenticate. Intanto parlavi con qualcuno al telefono, ecco perché non avevi preso l'ascensore, sbagliando. Avremmo potuto condividere l'aria per 30 secondi. Io l'avrei imbottigliata e custodita in segreto, per regalartene il ricordo tra anni, ad asciugare una giornata di pioggia. La porta a vetri dell'androne si chiudeva come un sipario alle tue spalle. Non bastava neanche il sole a farci scivolare insieme. Qualcuno ha visto la mia sacher? PIOVEVA LA SECONDA VOLTA: FILA 3, POSTO 16. Sembrava
primavera. Ieri. Stanotte pioveva ancora. Fuori dallo Smeraldo ci guardavamo
complici, persone speciali, specialisti nell'aver trovato il biglietto,
specializzati nell'ascoltare le tue canzoni. Avevo un fiore giallo nei
capelli, come una samoana della Martesana: progettavo di donartelo, al
momento opportuno, s'intende. Ero convinta che mi avresti guardato, questa
volta, che mi avresti posto una domanda precisa su quali tuoi testi suonassero
i miei tasti. Mi lambiccavo nell'indecisione: forse "e restiamo alla
frusta qui uguali, felici e incapaci di esser normali", ma anche
"savoiardi nella congrega inzuppati dentro alla Strega", chissà.
Ero così pronta che avrei sbagliato sicuramente. (Come quella volta
a Pompei, quando avevo 8 anni: documentata a un livello sospetto, cronaca
di Plinio il vecchio nello zainetto. Ho cercato la persona più
autorevole nell'aspetto di una divisa luccicante, il custode in quel caso,
e gli ho chiesto se gli steccati lignei fossero autentici. Mi ha guardato
con superiorità. Nella vita non ho più fatto l'archeologa,
quell'errore brucia ancora.) PIOVEVA LA QUARTA VOLTA: GUARDANDO IL PALCO, 2° ALBERO A DESTRA . Pioveva sugli
iris in boccio, sulle frittelle zuccherate, sull'erba appena tagliata,
mi pioveva nel vino caldo, sulle mani, sui cani, sui partigiani e sui
loro cappelli: si festeggiava la Liberazione, nel vecchio manicomio di
Milano. Solo, un violino suonava, incurante del pubblico in fuga libera.
Alcuni si assiepavano sotto improvvisati ombrelloni, concettuali cornicioni,
intrecci di rami gocciolanti. Altri abitavano incuranti le loro sedie,
riparati da una tetto di note. A ben guardarlo, il cielo, sembrava l'ingresso
dell' iperspazio, e sulle mie guance colavano lacrime altrui. Volevo andare
ad asciugarle in una casa al limitar del bosco, come nella favola portavo
mele nel paniere, ma l'orco diceva no al nostro scampanellare. Noi eravamo
belli e gentili e luccicanti di pioggia. Il proprietario del circolo arci
era arcigno e asciutto, verde di rabbia e di camicia. Per motivi di ordine
pubblico, continuava a ripetere, non potete entrare, anzi, solo se siete
soci, e in un altro momento. L'ordine non è mai un buon motivo,
ma un cattivo consigliere, ti spinge a mettere carte e persone dove non
le troverai più, e ti mancheranno sempre. Sono socia arci e lo
sono in questo preciso istante, mi autoconferisco la carica alla solenne
presenza dei miei amici, continuavo a ripetere io, mentre una macchia
di vino rosso mi decorava barocca una gamba. Non ero socia né socievole,
ero una simpatizzante: e avevo la ferma intenzione di far valere i miei
diritti inventati. Poi, poi ti voltavi. Mi mancavi tu. Per un attimo incrociavo
il tuo sguardo morbido e improvviso e l'avrei baciato, gli avrei raccontato
la verità. Invece uscivo a nascondermi e a spiarti dal vetro appannato.
Come un ammiraglio dietro al bancone, l'orco mi sbirciava di sottecchi,
gustando il suo trionfo mesto. Mi vergognavo e guardavo, sola con la pioggia:
parole in gola, mani sporche e pancia vuota. ALLA FINE. Ho raccontato
come sono andate le cose, sinceramente. Non so se si possa scomodare il
karma, ma qualche coincidenza, lo ammetterai anche tu, esiste. Potresti
obbiettare che sei un cantante famoso, che fai cose, vedi gente. Ma anche
io ne vedo, di gente, una volta ho incontrato perfino il capitano Kirk
in ascensore, per dire, e non mi ha fatto l'effetto che mi fai tu. |
Dicembre 2006
è
online FEDERICO MIOZZI MICHELE ROSSINI GIORGIO FONTANA
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