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FERNANDO SORRENTINO
Misteri della comunicazione
globale: cosa può spingere uno scrittore argentino - autore di
un numero impressionante di romanzi, racconti, libri per l'infanzia
e persino due volumi di interviste letterarie con Adolfo Bioy Casares
(!) e Jorge Luis Borges (!!!) - a scrivere a me per chiedermi di essere
inserito in 'tina? Non solo, ma anche con un esilarante e geniale brano
di puro surrealismo sudamericano, peraltro con una versione firmata
da una affermata traduttrice come Amina Di Munno? Io resto basito e
onorato dalla richiesta signor Sorrentino, ma è proprio sicuro
che intendeva questa rivista e questa forma di pubblicazione? (Che idea
si saranno fatti di 'tina nel resto del mondo?!)
Gli artisti sono proprio strani. I sudamericani forse ancor di più.
Comunque grazie, Fernando (posso darti del tu?).
C'e' un uomo che
ha l'abitudine di picchiarmi con un ombrello sulla testa
C'è un uomo che ha l'abitudine di picchiarmi con
un ombrello sulla testa. Sono cinque anni proprio oggi dacché
ha cominciato a picchiarmi con l'ombrello sulla testa. I primi tempi
non riuscivo a sopportarlo, ora mi ci sono abituato.
Non so come si chiama. So che è un uomo comune, veste di grigio,
alquanto brizzolato, ha un viso vago. L'ho conosciuto cinque anni fa,
in una mattinata afosa. Leggevo il giornale, all'ombra di un albero,
seduto su una panchina del parco Palermo. All'improvviso sentii che
qualcosa mi toccava la testa. Era quello stesso uomo che ora, mentre
scrivo, continua automaticamente e con indifferenza a darmi ombrellate.
In quell'occasione mi voltai indignato: lui continuò a colpirmi.
Gli domandai se fosse impazzito: non sembrò nemmeno udirmi. Minacciai
allora di chiamare un guardiano: imperturbabile e tranquillo continuò
il suo lavoro. Dopo qualche attimo di esitazione e vedendo che non desisteva
dal suo intento, mi misi in piedi e gli sferrai un pugno in faccia.
L'uomo, emettendo un flebile gemito, cadde a terra. Dopo, e apparentemente
facendo un grande sforzo, si alzò e riprese in silenzio a picchiarmi
con l'ombrello sulla testa. Gli sanguinava il naso e, in quell'istante,
sentii pena per quell'uomo e mi pentii di averlo colpito a quel modo.
Perché, in realtà, l'uomo non mi percuoteva con quel che
si dice ombrellate; mi dava piuttosto leggeri colpi, del tutto indolori.
Certo che quei colpi sono estremamente fastidiosi. Tutti sappiamo che
quando una mosca ci si posa sulla fronte, non sentiamo alcun dolore:
ci irrita. Ebbene, quell'ombrello era una gigantesca mosca che, a intervalli
regolari, si posava, qua e là, sulla mia testa.
Convinto di trovarmi di fronte a un pazzo, cercai di allontanarmi. Ma
l'uomo mi seguì in silenzio, senza smettere di picchiarmi. Allora
cominciai a correre (qui devo puntualizzare che ci sono poche persone
veloci come me). Lui si mise a inseguirmi, cercando invano di assestarmi
qualche colpo. E l'uomo ansimava, ansimava, ansimava e sbuffava tanto
che pensai che, se avessi continuato a costringerlo a correre così,
il mio torturatore sarebbe morto proprio lì.
Perciò rallentai la corsa e ripresi il passo. Lo guardai. Non
c'era nel suo volto né gratitudine né biasimo. Solo mi
picchiava con l'ombrello sulla testa. Pensai di presentarmi in commissariato
e di dire: "Signor commissario, quest'uomo mi sta picchiando con
un ombrello sulla testa". Sarebbe stato un caso senza precedenti.
Il commissario mi avrebbe guardato con sospetto, mi avrebbe chiesto
i documenti, avrebbe cominciato a farmi domande imbarazzanti, forse
avrebbe finito per arrestarmi.
La miglior cosa mi sembrò tornare a casa. Presi l'autobus 67.
Lui, senza smettere di colpirmi, salì dietro di me. Presi posto
nel primo sedile. Lui restò in piedi, al mio fianco: con la mano
sinistra si reggeva al sostegno; con la destra brandiva implacabilmente
l'ombrello. I passeggeri iniziarono a scambiarsi timidi sorrisi. L'autista
dell'autobus si mise a osservarci dallo specchietto. A poco a poco tutti
i passeggeri furono presi da una gran risata, una risata fragorosa,
interminabile. Io, dalla vergogna, ero paonazzo. Il mio inseguitore,
al di là delle risate, continuò con i suoi colpi.
Scesi - scendemmo - sul ponte del Pacífico. Andavamo per il viale
Santa Fe. Tutti si giravano stupidamente a guardarci. Pensai di dire
loro: "Cosa guardate, imbecilli ? Non avete mai visto un uomo picchiare
un altro con un ombrello sulla testa?" Ma pensai anche che molto
probabilmente non avevano mai visto un simile spettacolo. Cinque o sei
ragazzi cominciarono a seguirci, urlando come ossessi.
Ma io avevo un piano. Una volta a casa mia, cercai di chiudergli la
porta sul naso. Non ci riuscii: lui, con mano ferma, mi precedette,
afferrò la serratura a scatto, si divincolò in un istante
ed entrò con me.
Da allora, continua a picchiarmi con l'ombrello sulla testa. Che io
sappia, non ha mai dormito né mangiato nulla. Solo si limita
a picchiarmi. Mi accompagna in tutti i miei gesti, persino nei più
intimi. Ricordo che, all'inizio, i colpi mi impedivano di addormentarmi;
adesso credo che, senza di essi, mi sarebbe impossibile dormire.
Tuttavia, i nostri rapporti non sempre sono stati buoni. Spesso gli
ho chiesto, in tutte le maniere possibili, di spiegarmi il suo modo
di procedere. Inutilmente: in silenzio continuava a colpirmi con l'ombrello
sulla testa. In molte circostanze gli ho sferrato pugni, calci e - Dio
mi perdoni - persino ombrellate. Lui accettava i colpi con mansuetudine,
li accettava come un'ulteriore parte del suo compito. Ed è proprio
questo il lato più allucinante della sua personalità:
questa sorta di tranquilla convinzione del suo lavoro, quest'assenza
di odio. Infine, questa certezza di compiere una missione segreta e
superiore.
Malgrado la sua mancanza di necessità fisiologiche, so che, quando
lo percuoto, sente dolore, so che è debole, so che è mortale.
So anche che una sola fucilata mi libererebbe di lui. Ciò che
ignoro è se lo sparo ucciderebbe lui o me. Non so nemmeno se,
quando saremo entrambi morti, continuerà a colpirmi con l'ombrello
sulla testa. In ogni caso, questo ragionamento è inutile: riconosco
che non oserei uccidere né lui né me.
Del resto, ultimamente ho capito che non potrei vivere senza i suoi
colpi. Ora, sempre più spesso, mi assilla un presentimento. Una
nuova angoscia mi corrode il petto: l'angoscia di pensare che, forse
quando maggiormente ne avrò bisogno, quest'uomo se ne andrà
e non sentirò più quelle delicate ombrellate che mi facevano
dormire così profondamente.
Traduzione di Amina Di Munno
[Tratto da: Imperios y servidumbres, Editorial Seix Barral, 1972.]