TREBOR HEALEY, “L’albero della conoscenza”

TREBOR HEALEY

L’anno scorso mi e’ capitata fra le mani una bellissima antologia di racconti gay americani intitolata “beyond definition”, pubblicata da una casa editrice indipendente. Sull’onda dell’emozione ho scritto all’editore per avere informazioni e, con mia enorme sorpresa, mi ha risposto il curatore in persona. Ne e’ nata una splendida amicizia epistolare, arricchita da uno scambio continuo di informazioni, libretti, riviste.
Trebor e’ principalmente un poeta, e lo si nota anche nelle prove narrative.
Questo racconto, complicatissimo da tradurre, e’ la sua prima opera in assoluto ad essere pubblicata in un’altra lingua.
Lui e’ entusiasta all’idea e io onorato della coincidenza.

L’albero della conoscenza

Perduto, perduto e afflitto dal vento,
fantasma torni ancora.

Thomas Wolfe

Telefonai a mio padre per chiedergli di cenare insieme. Avevo bisogno di parlargli di una cosa importante. Mi propose uno dei suoi locali preferiti, carino e molto frequentato, con cucina a base di pesce. Gli spiegai che doveva essere un posto piuttosto riservato. Non volevo dirgli che ero gay e ricevere come risposta “Come? Non ti sento!”, con gente intorno che faceva casino e gli uomini che cercavano di importunare le signore. Conoscevo quel genere di locale.
“Un posto tranquillo, papà, OK?”
“Certo”, disse. “Conosco un posto a Chinatown con i tavoli con i séparé. Va bene alle sei?”
“OK, dov’è?”
“All’angolo tra Sacramento e Grant Street. Si chiama il Giardino dell’Eden”.
Non sapevo se ridere o piangere per questo scherzo del destino. Dirò a mio padre che sono gay nel Giardino dell’Eden. La cacciata dal paradiso. Esitai.
“Sei ancora lì?” mi chiese.
“Si, si … va bene. Al Giardino dell’Eden alle sei. Ci vediamo là”.

Passai una giornata molto tranquilla; forse mi stavo preparando a qualcosa di definitivo con lui. Temevo sarebbe stata la nostra ultima conversazione. Passai il tempo a contemplare il suono vuoto e triste della fotocopiatrice, riproducendo malintesi all’infinito.

Come mio solito, lavoravo in un ufficio anonimo, non ricordo nemmeno di quale ditta. Da qualche anno accettavo solo lavori a tempo determinato. Questo mi permetteva di trascorrere la primavera e l’estate sulla Sierra, cercando posti dove nessuna società aveva ancora messo le sue radici complicate e ristrette. Mio padre ovviamente disapprovava questa idea, senza contributi, senza futuro, senza sicurezze. Dovresti iniziare a costruirti il tuo patrimonio, mi diceva, prima o poi avrai una famiglia.

Ma io sapevo che non avrei mai avuto una famiglia. E che avrei deluso lui esattamente come avevo deluso me stesso per non avere le palle per dirgli la verità. Invece vagavo per la città e le montagne, con una lacrima nel fondo degli occhi, disperandomi per il mio destino.

Tacitamente, mio padre ed io avevamo stabilito una tregua dall’estate in cui l’avevo confidato in segreto agli altri. Era facile. Lo facevo da quasi venti anni. Dai tempi del succo di mela e della fermata dell’autobus.
Eravamo molto diversi, adesso. Una volta, quando avevo sei o sette anni, mio padre mi diede da bere un bicchiere di succo di mela, color oro. Eravamo nella stanza di un motel nell’Oregon. Come ogni anno stavamo viaggiando da Seattle a San Francisco per andare a trovare dei parenti. Dato che avevo vomitato quasi per tutto il viaggio, decisero che non sarei andato da Sambo’s con mia madre e i miei tre fratelli. Mi misi a piangere e a fare i capricci; per la prima volta mia madre, che di solito si occupava di noi, non riuscì a calmarmi. Chiese a mio padre di stare con me mentre lei portava gli altri a cenare. Non ero mai stato solo con mio padre. Le lacrime cessarono, un po’ per curiosità e trepidazione e un po’ per autentica paura.

Mi chiese di sedermi a un tavolino. Poi si avvicinò a una borsa che era per terra e tirò fuori un grande contenitore di succo di mela. Era tutto così nuovo e strano. Mio padre non si occupava mai delle incombenze di casa. Non l’avevo mai visto lavare i piatti o medicare una ferita. Neppure aprire una bottiglia come questa. Era tutto così strano che mi disorientava; tutto questo lo rendeva più uomo, lo cambiava ai miei occhi in una persona mai vista prima.
“Adesso ci beviamo un po’ di succo di mela”, disse. Lo guardavo come un cane affamato che ne aveva combinata una delle sue. Svitò il tappo e versò il liquido dorato in due bicchieri del motel. A parte il fatto che era ovvio, come poteva sapere che era lo adoravo? Non disse nulla, si sedette vicino a me, sorseggiando il succo e mi sorrise. Non ricordo mi che mi avesse mai dato nulla prima di allora. Sapevo che lavorava e che, grazie a questo, la mamma poteva comprarci i biscotti e il gelato, e prepararci la cena. Ma era un segreto. Mamma ce lo disse al supermercato quando lui non c’era; ci disse che si sarebbe arrabbiato molto se avessimo speso troppo per le caramelle e i dolci.

“Buono, eh?”, disse ingollando il suo succo come se fosse uno scotch. Io riuscivo solo a guardarlo imbambolato e in silenzio, domandandomi che cosa stesse succedendo. Come se stesse confessando che era lui a mantenerci. Poi iniziò a raccontarmi la favola di quella ragazza che avevamo incontrato all’entrata. Era pura fantasia, i suoi ventitré figli e la sua casa sbilenca nel mezzo di un frutteto di meli. “Là c’è tanto succo di mela,” disse ridendo.

Mi gustai quel bicchiere di succo di mela con lui; mi gustai la favola. Da quel giorno mio padre divenne un uomo in carne ed ossa. No, non un uomo, ma una persona concreta. Che poteva comportarsi da uomo o donna, indipendentemente dal suo sesso. Un fugace momento che mi aveva dato speranza e fiducia, anche se non me ne resi conto; un seme piantato che avrebbe impiegato vent’anni per germogliare e mostrarsi. Dopo che l’avevo dimenticato per così tanto tampo e abbandonato.

Allora ricordo che desiderai diventare suo amico più di ogni altra cosa, per cui, dopo quel viaggio, feci quello che pensavo servisse per diventare suo amico. Andavo sempre alla fermata dell’autobus in cima alla collina, al pomeriggio, e lo aspettavo al ritorno dal lavoro. Prendevo una scorciatoia nel bosco dietro casa. Il bosco era scuro e silenzioso e gigantesco, con abeti e aceri. Avevo paura ad attraversarlo da solo; ero abituato ad andarci solamente con i miei fratelli. Ma pensavo a mio padre oltre il bosco e sentivo di non essere solo. Che potevo farcela. E così iniziai fantasticare su mio padre.

Seguendo il sentiero mi addentravo nel bosco pensando a lui, in giacca e cravatta, mentre scendeva dall’autobus. Attraverso la luce verdognola del fitto degli aceri, le ombre scure dei pini, il ronzio delle api e il cinguettare degli uccelli, il vento tra i rami più grossi e gli aghi di pino sotto i piedi. Verso la luce dall’altra parte da dove veniva il rumore del traffico. La terra degli uomini e della confusione. Un posto di cui diffidare, secondo la mamma.

Mi accucciavo alla fermata e aspettavo. E poi arrivava l’autobus, come un grande sogno, verde e bianco, del PADRE.Quando mi vide, mentre scendeva dall’autobus, mi sorrise con un sorriso forzato, di sorpresa, un po’ scocciato il secondo o il terzo giorno. Fingeva di essere contento, ma non mi convinceva. Era chiaro che volesse tornare a casa da solo. Che non gli interessasse molto essere mio amico. Pensai che avesse altre faccende per la testa. Quel tratto di strada sulla collina, vicino al bosco, era probabilmente l’unico momento che aveva per sé.

Così risalivamo il pendio della collina quasi senza dire nulla, seguendo la strada, facendo il percorso più lungo, perché indossava giacca e cravatta ed era un adulto e capii che gli adulti non stanno molto nel bosco o in posti sporchi. Che quei posti erano adatti ai bambini.

A volte mi chiedeva cosa c’era per cena. Di solito lo sapevo ed ero orgoglioso di trasmettere le mie conoscenze: Pollo con riso. Costata e patate. Agnello. “Puoi aggiungerci la gelatina di menta!” esclamavo e lui sorrideva.
Il quarto giorno trovai un machete sul ciglio della strada. Gli operai avevano potato le sterpaglie e i cespugli e probabilmente l’avevano dimenticato nel fosso. Lo vidi luccicare e corsi a prenderlo, per mostrarlo a mio padre. Quando gli chiesi cos’era, mi disse che era un machete e mi raccontò dei soldati giapponesi che durante la seconda guerra mondiale l’avevano usato per tagliare la testa agli uomini. Disse che probabilmente lo avevano lasciato i giapponesi tempo fa quando avevano tentato di conquistare l’America. Le sue bugie mi affascinavano. Mi era chiaro che erano solo dei racconti di fantasia e non mi stupii mai, crescendo, di scoprire la verità. Eravamo compagni mentre mi raccontava le sue storie. C’era una luce grandiosa nelle sue storie, più grande a più luminosa dei fatti. Avrebbe potuto raccontarmi qualsiasi cosa. Se la nostra amicizia si fosse basata solo sulle bugie, mi sarebbe bastato.

Ma le sue storie erano troppo rare. Non si accorse che mi nutrivo di loro. C’era troppo spazio tra una storia e l’altra, tanto quanto tra la verità e la menzogna; tra la fermata dell’autobus e casa.

Mio padre abitava alla fine del bosco scuro. Forse non credevo neppure che avesse fine. Sembrava che con il passare del tempo la fermata diventasse sempre più inafferrabile, sempre più lontana, irraggiungibile come in un incubo.

Dopo due settimane smisi di andare alla fermata. Non stavamo diventando amici. O forse l’uomo che cercavo era quello che mi divertiva e mi raccontava di Sam Smeller che ci salvava dai mostri al momento di dormire; e che una volta aveva condiviso un bicchiere di succo di mela; quest’uomo non aveva nulla a che spartire con quello che scendeva dall’autobus. Non c’era quasi mai. Lo sostituiva qualcun altro. Forse non riuscii ad avere la pazienza di aspettare il lento percorso che cresceva sempre di più tra di noi. Quando mi accorsi di quanto tempo ci volesse per entrare in contatto con lui lo rimpiazzai con uno o più amici della mia età. Di sicuro un giorno ci rinunciai e riprendemmo ad essere estranei, senza neanche le bugie ad unirci.

E il bosco cominciò ad essere un labirinto infinito. Non mi ricordo quando, ma improvvisamente mi sentii come se tutto fosse stato eroso dal bosco al punto che l’intera città vi fosse immersa. Mio padre e l’autobus scomparvero nelle tenebre insieme a tutto il resto, inghiottiti da aceri verdognoli, persi nell’ombra degli abeti. Tutto e tutti tentavano di attraversare il bosco, fino alla fermata dell’autobus, da qualche padre che facesse la strada con loro. Ma Dio era morto.

Impaziente, mi ero allontanato dalla luce della strada ed ero tornato all’oscurità del bosco. Perché era più grande? Più drammatico? Perché il bosco e la sua oscurità desideravano la mia anima? Perché implorava: dammi da mangiare! e io volevo dare. E mio padre non mi avrebbe accettato.

Da quel momento cominciai a trascorrere il tempo da solo nel bosco, senza cercare mio padre, evitandolo. Non lo volevo. Ero ossessionato dai mostri dell’adolescenza. Solo Sam Smeller avrebbe potuto salvarmi. Mio padre non era Sam Smeller. Mio padre si inventava storie che non poteva interpretare. Mio padre mi raccontava solo bugie. Avrei trovato altri padri. Nella musica o nei libri. A scuola. In ragazzi più vecchi. Perso nel bosco, nei momenti più strani, pensavo a mio padre e alla lunga strada che mi avrebbe riportato a lui. Ma non riuscivo a trovarla; credevo di averla persa; nascosta dalla vegetazione. Avevo bisogno di un machete per aprimi la strada nella giungla che l’aveva inghiottita. E cosa avrei trovato se l’avessi fatto? Una vecchia in una casa sbilenca con bambini e meli che danno succo di mela? Mi avrebbe promesso che lui sarebbe tornato presto, assicurandomi che era a caccia di mostri per difendere il frutteto?

Finivo sempre col ridere di me stesso.

Ma la strada mi si apriva innanzi nuovamente, anche se non me ne rendevo conto, mentre mi avviavo verso il nostro appuntamento, aprendomi a fatica un varco nelle vie piene di gente. Non pensavo più dall’adolescenza. Era la cosa più lontana a cui pensare. Questo dimostra che nulla è troppo lontano, benché allora non me ne rendessi conto.

Mi facevo forza. Non ci saranno bugie questa sera nel Giardino dell’Eden. Risi tra me e me. Racconterò la mia verità senza mezzi termini. Dio ci sarà e anche il serpente e quelli accusati del crimine. E il mondo sarà diverso alla fine di questo giorno.

Il Giardino dell’Eden. L’inizio di tutta la storia, o solo un aneddoto. Mio padre.

Mi racconti una storia, papà? E una lacrima nel fondo degli occhi.

Ma stasera ero io a dover raccontare una storia. Lui non aveva più nulla da raccontare. Forse era solo arrivato il mio turno.

Attraversando California Street, mi venne in mente che una volta avevo cercato di condividere le storie degli altri con lui. Avevo trovato in cantina una vecchia edizione di Look homeward, angel di Tom Wolfe. Quando mi aveva chiesto che cosa stessi leggendo, glielo avevo mostrato e gli avevo detto di averlo trovato in una sua vecchia scatola in cantina.

Fece una smorfia e si mise a sfogliarlo, facendo riaffiorare i ricordi. Mi sentivo spronato e eccitato, iniziai a parlarne, ma lui mi interruppe dicendo; “E’ così puerile.” Allora smisi di parlarne e me ne andai. Solo adesso, raccontandolo, mi accorgo di quale sia stato l’effettivo impatto di quel rifiuto, dal momento che il libro parlava proprio della perdita del padre.

Credo che quella fu l’ultima volta che ci provai. Da allora vidi mio padre per quello che dava a vedere: un conformista, al massimo un filisteo, una povera vittima di un lavoro monotono e di un sistema economico feudale, un padre assente. Lo allontanai sentendolo sempre più patetico. Viveva nella mia mente, ed era come se quell’oscuro bosco del mio cuore, dove lui era stato, fosse stato abbattuto e coperto di asfalto, una strada senza uscita.

Potete immaginare la mia soddisfazione quando tornai a Seattle durante il college e visitai la casa della mia infanzia; ed era vero: il bosco non c’era più, abbattuto, e al suo posto c’era un vicolo cieco. Potete immaginare come gongolai e poi l’improvviso terrore che sfociò in lacrime quando mi accorsi che la mia soddisfazione era davvero superficiale e crudele, se confrontata con ciò che era andato perduto. Un bosco. Un passato. Il mio cuore. Mio padre.

Provai a scrivergli una cartolina per dirgli che cosa era ne era stato del bosco, ma scoppiai a piangere e l’unica cosa che desideravo era scuoterlo. Finii per spedirgli la cartolina, ma senza indirizzo. Non riuscivo a togliermi dalla testa la nostra ultima conversazione. Se l’era presa con me per i miei studi e la specializzazione.

“Inglese? Non siamo mica benestanti, Tom, perché non provi con ingegneria o economia?”

“Mi annoiano” fu tutto quello che riuscii a dirgli, con l’unico risultato di convincerlo della mia poca volontà. Non riuscivo a spiegargli, o nemmeno a capirlo io stesso, che quello che stavo cercando era la nostra storia. Non volevo che fosse la centrale idroelettrica di un ingegnere, solida e impenetrabile; o la società a responsabilità limitata di un uomo d’affari, ridotta a una filiale biologicamente terminale, piccola, senza anima. Cosa ne era stato di Sam Smeller? Volevo scuoterlo per davvero.

I genitori desiderano che i figli sopravvivano a loro. Si sentono responsabili di istruirli in materia. L’unica cosa che volevo sapere era come si fa ad essere gay, ma non potevo chiederlo. C’è più di un tipo di sopravvivenza a cui aspirare. Soffrivo per l’interruzione del mio rapporto con lui. Mi sembrava che tutto concorresse a uccidermi. Non ho mai desiderato essere il tuo bambino, desideravo essere tuo amico. Come potresti aspettarti qualcosa di diverso se mi hai deluso come padre? Perché non ti sei dato da fare per essere mio amico? Forse ce l’avresti fatta. Hai sbagliato due volte ed ora vuoi delle spiegazioni da me? Non volevo i suoi consigli su come sopravvivere; non era mio padre. Lui e quelli come lui, infatti, minacciavano la mia sopravvivenza. Così andai in montagna, e lui tornò alla sua scrivania in città.

Ed eccolo ora che entrava nel Giardino dell’Eden, sorridendo. Si tolse il cappotto e lo appese.
“Ciao, Tom,” disse, avvicinandosi per stringermi la mano.
“Ciao, Papà.” Tutto aveva il sapore di un addio.

Ci condussero al tavolo, in un posto con séparé alti di legno e una tendina tirata sulla porta. Mi venne quasi da ridere e pensai che era proprio un posto riservato, anche se non dissi che mi ricordava un confessionale, con lui nei panni del prete e tutto il resto. Lo ringraziai e basta, guardandolo negli occhi per trasmettergli il mio apprezzamento.

Parlammo del menu e facemmo le ordinazioni. Scambiammo quattro parole aspettando la cena. Non volevo che ci fosse il cameriere mentre mi lanciavo nelle mie rivelazioni.

Gli dissi che avevo problemi da tanto tempo. Anni.
Mi guardava interrogativo.

“Il motivo per cui ti ho fatto venire qui è per dirti che sono gay, papà. Era importante che tu lo sapessi.”

In un primo momento non disse niente, addentando un boccone mentre io inghiottivo il mio a fatica, con lo sguardo fisso nel piatto, aspettando che rompesse il silenzio.

“Pensi che sia capitato perché vivi a San Francisco?” fu la sua reazione. Adesso capisco da dove vengono quelle strane idee che gli integralisti sbandierano tanto. Come l’idea che l’epidemia sia colpa dell’acqua e gli ebrei fossero untori.
Continuò: “E’ strano: sei diventato ateo a U.C. Berkeley e adesso sei gay a San Francisco.”

Proprio nel Giardino dell’Eden, volevo rispondere sarcastico. Ma non era il momento di prenderlo in giro. E neppure dovevo colpirlo con la mia rabbia, sebbene lo desiderassi; un pensiero mi attraversò la mente: ehi, stiamo parlando di dolore, non di pseudo teorie; è la mia vita. Ma mi trattenni, come facevo di solito con lui. Sembrava che non ci fossero sentimenti tra noi. Ci trattavamo da uomini. Niente emozioni, tanta finzione e facce impenetrabili. Raccogliendo le forze, dissi che non dipendeva dal luogo, ma gli domandai se non pensava ero stato fortunato a diventare ateo in un posto all’avanguardia come Berkeley, e allo stesso modo se non era una benedizione essere gay in un posto come San Francisco?

Non rispose.

Poi mi chiese se ero sicuro. Gli dissi che non glielo avrei detto se non lo fossi stato.

Mi chiese da quanto tempo lo sapessi. Gli dissi da quando avevo undici anni. E poi mi ricordai delle sue parole proprio quel giorno in cui lo scoprii, quindici anni prima in una via di Vancouver in Canada. La nostra station wagon era piena come un uovo: ragazzi, mamma e papà e tutto il bagaglio. Il carnevale della mia infanzia. Eravamo tutti un po’ cotti dopo quattro ore di viaggio. Mi ricordo che lui si voltò dal volante con fare malizioso, verso i suoi ragazzi. Era quasi la faccia di quando raccontava le sue storie, più o meno la stessa che aveva alla fermata dell’autobus. Mi ricordo che dissi a me stesso di non crederci, e grazie a quello, penso di aver salvato quel poco che mi ero costruito della mia fragile identità. Disse: “Guardate là, c’è un frocio con un barboncino.” Per strada c’era un uomo con una salopette blu, pantaloni a zampa di elefante e scarpe basse bianche. Aveva una pettinatura strana e ancheggiava nel modo tipico di un certo tipo di uomini. Portava al guinzaglio un barboncino bianco.

Adesso ci rido. Oggi invece di provare terrore, rimpiango di non aver incontrato quel “frocio”. Una vera checca, forse una figura di padre più adatta a un ragazzo come me. Ma di quel giorno ricordo un lampo di terrore scorrere dagli occhi giù per la gola, fino a trafiggere il mio cuore, frantumandolo, per poi finire nelle mie viscere. In qualche modo sapevo, lo sapevo con sicurezza guardando quell’uomo, che eravamo uniti dallo stesso destino. Il mio volto di certo esprimeva tutto il dolore perché mia madre mi guardò preoccupata e disse: “E’ tutto a posto, piccolo, non c’è nulla da temere; non ti può fare male.” La fissai per un attimo e poi tornai a guardare l’uomo allontanarsi.

Lui è dentro di me, mamma. Mi può fare male. Ma non dissi niente.

E ora sono qua nel Giardino dell’Eden, a mangiare tofu e a raccontarlo a mio padre.

Forse ho un’altra possibilità.

Poi lo disse. Che aveva sempre saputo che io ero diverso. Gli chiesi perché allora non mi avesse mai trattato come tale. Disse che non lo credeva giusto. Non voleva che mi accorgessi che lui mi credeva diverso. E’ chiaro, diverso per lui significava strano, non anormale o malato, per cui capii cosa intendesse.

Gli dissi che mi faceva piacere che sapesse che ero diverso. E ora gli avrei detto il motivo.

Era tutto qui, papà. Tutto qui, sempre.

Mi guardava con una tristezza che non avevo mai visto prima. Credetti di vederci un ragazzo, e per un attimo pensai che mi dicesse che anche lui era gay, e chi lo sa, forse lo è davvero. Stavo per prendergli la mano e dire: ti ricordi, ti ricordi quel machete che avevamo trovato? Ti ricordi delle bugie che mi raccontavi? Ti prego, papà, ti aspetto da venti anni alla fermata dell’autobus per dirtelo. Ti prego non lasciarmi. Ma ci fu solo imbarazzo e mi accorsi di aver perso un’altra occasione.

Ma non per colpa sua. Fu come se mi prestasse attenzione dopo che l’avevo tirato per la manica per venticinque anni. E ora che si voltava, ero io a voler scappare.

“Mi spiace che tu abbia sofferto per così tanto tempo. Mi spiace di non aver fatto nulla per aiutarti. Aiutarti a non essere solo.” Ne rimasi sorpreso. Il mio imbarazzo non l’aveva fermato, anzi mi aveva preceduto in un punto dove non lo aspettavo. Improvvisamente sentii qualcosa che spingeva dentro di me. Non si trattava tanto dell’invasione di un suo sentimento, quanto dell’invasione del sentimento che c’è tra padre e figlio. Un’onda, una folata di vento, una fiamma crepitante, la terra spezzata da una vanga, una foglia, una pietra, una porta sconosciuta, l’arrivo dell’autobus. Sam Smeller in persona, e succo di mela. Una strada. Che cosa dovevo fare? Piangere? Respinsi l’idea. Ero pur sempre un uomo. Continuai a fingere. Le lacrime hanno i loro condotti. Che scorrano lì.

Sì papà, sono stato solo, pensai. Riuscii solo a dire che mi faceva piacere. Non mangiammo molto. Pagammo il conto e ci alzammo per andarcene. Nel tragitto fino alla metropolitana ricominciammo a parlare delle solite cose. Come andava il lavoro, e così via.

Ma alla barriera, quando lo salutai, contento di avergli comunicato la notizia, mi guardò intensamente. Improvvisamente gli si riempirono gli occhi di lacrime, si avvicinò, mi abbracciò e mi diede un grosso bacio bagnato sulla bocca. E sentii il machete della purificazione staccarmi la testa. La stupida testa in cui vivo. Percepii il fruscio di lasciami, per favore non fermarti. Come sangue. Non fermarti, lasciami sanguinare. Quasi brancolai nel fumo del falò che cancellava venticinque anni di lontananza. La vecchia strada aperta, e lui là, con un machete a tagliare via le sterpaglie.

“Ti voglio bene” disse e se ne andò. E non si voltò perché lui è quel tipo di uomo che non può permettersi di piangere. Lo guardai allontanarsi, piccolo e spezzato, questo uomo che mi sembrava così grande, così freddo e grigio nei suoi abiti, così intoccabile. E che comunque aveva condotto un’esistenza mediocre che non sarebbe durata ancora a lungo. Aveva il suo orgoglio ed io vidi la sua modestia. Come era magro e debole mentre si dirigeva verso la scala mobile, nella fredda grandezza e sterilità della metropolitana, con la sua povera figura e i suoi capelli sottili, che stavano diventando grigi. E tuttavia, come era stato grande il suo gesto, il suo coraggio di alzarsi fin dove io gli avevo chiesto. Il coraggio che uno può capire solo quando vede come siamo tutti fragili, soli e senza speranza. Piccoli animali spazzati via dalle piene.

Con gli occhi della mia mente, ero caduto in ginocchio a piangere. Ma io ero la persona che lui mi aveva insegnato a essere e quindi rimasi dritto, pieno di orgoglio. E improvvisamente mi sentii triste per aver considerato i miei genitori degli dei e per essermi aspettato così tanto da loro, troppo. Avevo fatto la stessa cosa con me stesso, lo stavo facendo un’altra volta rimanendo impalato come uno stupido soldato o un poliziotto. Ma dentro di me mi sentivo sollevato da quelle aspettative, dalla prigione di quelle menzogne e dalla menzogna in cui che avevo vissuto. Mi sembrava quasi che ci fossimo liberati entrambi quella sera. Non solo riguardo a me. Le grandi questioni non riguardano nessuno in particolare. Sono come le montagne, e i boschi. Sono intorno a noi.

Mi voleva bene? mi sembrò improvvisamente uno scherzo, e mi sentii come un bimbo viziato. No, era sempre stato così. Ne ero sicuro adesso. Era entrato a far parte di lui. Mi aveva riconosciuto. Avevo guadagnato la sua amicizia. Eravamo due adulti, uguali di fronte alle montagne. Non padre o figlio, ma due anime che comunicavano.

Tuttavia, faccio fatica a piangere. Ma c’è un modo. Me lo ha dato lui. Il suo viso in metropolitana, il bacio e l’andatura del suo vecchio corpo; un machete che luccica al sole; quelle stupide bottiglie di succo di mela in cima ai ripiani del supermarket. Ho dovuto fermarmi e chinare il capo più volte di quante riuscissi a contarne, per ricordarmi che lui, più di tutti, ha riconosciuto e ammesso la mia lontananza. Lui che avevo considerato ormai senza speranza. Nessuno aveva reagito dicendo: “Avrei voluto che tu non soffrissi”. Nessuno. Tutti dicono solo: “OK, non è problema che tu sia gay.” Come se io avessi bisogno della loro accettazione o me ne importasse qualcosa. Accettavano il mio dono, che in fondo era la semplice verità, senza darmi nulla in cambio. Mentre il riconoscimento è un’azione reciproca. E così, una sera mio padre ed io ci siamo scambiati doni nel Giardino dell’Eden. Nessun paradiso è stato violato, nessuno è stato scacciato. La menzogna è caduta, trascinata dalle lacrime, e la verità si è elevata come una palla dorata, portandoci verso l’alto e in un nuovo giorno, dove una strada ci guida tra i meli. C’è tanto succo di mela e un ragazzino, mio padre, che vuole che io, adulto, sia suo amico.

Titolo originale: A tree of knowledge
Traduzione di Micaela Nobile
(Grazie infinite!)