TEO LORINI, Donne che non

Un’educazione sentimentale composta solo da fallimenti. Ho trovato molto divertente la trovata di Teo Lorini di dedicare un racconto alle figure femminili che avrebbe voluto a suo fianco nella giovinezza ma che non è riuscito a conquistare (“Donne che non”, appunto). Un’estenuante epopea del corteggiamento, che parte dalle elementari e che arriva sino all’università, all’insegna del rifiuto. Come il negativo di una fotografia, dedicato con tenerezza e ironia all’ingenuità dei primi innamoramenti. 

DONNE CHE NON

1. Barbara
È il primo giorno di scuola sto spiegando a mia mamma che non trovo giusto essere lasciato in mezzo a estranei che non ho nessuna voglia di conoscere mentre mio fratello è libero di tornarsene a casa a manina e avercela una mattinata intera tutta per sé. L’interessato ha una faccia tristissima e chiede a mia mamma se è proprio necessario lasciarmi qui, ma tanto io lo so che è tutta una finta e che se la sta godendo: io, al posto suo, farei lo stesso.
La cancellata della scuola si avvicina ma mia mamma continua a non capire il mio punto di vista. Forse parlo troppo forte perché lei mi dice di non alzar la voce e cosa penseranno gli altri bambini. Vedi che non mi ascolta? È due ore che le sto dicendo che non me ne frega niente degli altri bambini…
D’improvviso vedo Barbara, mano nella mano ai suoi genitori davanti ai cancelli ancora chiusi. Ha un grembiulino bianco con un fiocchetto appuntato davanti, i capelli carrè e il nasino a punta. Ciao, mamma, ci vediamo a mezzogiorno.

Con Barbara divido la classe per due anni filati. Unici intervalli, il morbillo (prima lei e poi io), gli orecchioni (prima io e poi lei), le ore di castigo fuori della porta (solo io).
La guardo in continuazione ma non le parlo mai, però una volta la incontro ai giardinetti di Ponte Catena. Mi arriva addosso ai piedi dello scivolo: Scusa! Ti ho fatto male?, mi chiede. No, no, la rassicuro, e filo dritto alle altalene.
Mentre mi dondolo però penso che non c’è mio fratello a prendermi per il culo, e Roby, il Mio Migliore Amico, se n’è già andato. Se voglio farmi avanti, quella è la mia occasione. Torno deciso verso lo scivolo, ma Barbara non c’è più. Mi guardo attorno perplesso, finché la vedo seduta nella buca della sabbia. Allora, facendomi largo un dito dopo l’altro fra le cartine appiccicose di Rossana, caccio le mani fino in fondo alle tasche e mi avvicino. Non so cosa dire, mi verrà in mente. Barbara alza la testa, mi guarda, poi mi mostra una formina: Vuoi giocare? La sabbia fa grattare le mani, le spiego. Ah, mi fa lei. Intuisco di aver detto una cagata e mi sforzo di trovare qualcosa per riparare. Barbara mi guarda dubbiosa. Non mi viene niente… Ecco. Ci sono!
Hai fatto i pensierini per domani?
Non ancora. Adesso vado, dice svuotando le formine.

2. Marica
In terza cambio scuola. Ho solo tre compagne, ma Marica è la più bella. Ha il nasino piccolo, gli occhi “orientali” e due trecce molto invidiate dalle altre femmine (le taglierà in quarta, dopo la visita dei pidocchi). È parecchio più alta, ma questo non mi scoraggia perché da un po’ di tempo, tolto mio fratello, tutti sono più alti di me.
Ma nella nuova scuola non si può andar da una a dirle: Tu mi piaci, perché viene considerata (inspiegabilmente) “roba da femminucce”. Così faccio a Marica un casino di dispetti. Per ora, mi basta. Tirarle le trecce e slacciarle il fiocchetto del grembiulino sono quelli che preferisco. Un giorno però lei si gira e mi centra con uno schiaffo che mi fa fischiare tutto l’orecchio. Non mi ero mai accorto che aveva le mani così grandi.

3. Le femmine della IA alla scuola media “Caliari” di Grezzana (VR)
Prima o dopo, mi piacciono tutte. Magari anche solo per quindici giorni. Basta una festa di compleanno, una gita o una ricerca da fare assieme. In un tema scrivo: Sono un ragazzo volubile.
Forse troppo: in tutto questo turbine di passioni, il risultato è sempre zero. Però una volta a casa di Andrea, un mio compagno che ha i genitori separati, facciamo una festina “proibita”. Approfittando della mancanza di adulti, facciamo una variante del gioco della bottiglia in cui i sorteggiati devono stare in un’altra stanza per un massimo di 10 minuti. Tutti si danno un bacio (senza lingua) e poi escono quasi subito. Io finisco con Elisa, la mia fiamma del momento. Ha la carnagione scura e un profumo buonissimo. Lei mi guarda dritto negli occhi e mi bisbiglia all’orecchio: Restiamo dentro finché ci devono chiamare loro? A me non sembra molto onesto, ma non si sa mai cosa può capitare in dieci minuti. Pausa di silenzio incerto, poi un altro sussurro: Ma adesso… dobbiam proprio baciarci? Preso in contrattempo, faccio la faccia da uomo di mondo. Ma vaaa, la rassicuro: figurati.

4. Natascia Cian
Ha un anno più di me, ma sembrano dieci. Abita in un paese che si chiama Lugo e io me lo immagino sempre buio. Il suo pulmino arriva molto presto. Io invece, siccome mi porta mio papà, sono sempre al pelo della campanella. Così faccio tutta una tirata a casa per poter prendere la corriera. Quando alla fine ottengo il permesso, a me sembra una conquista enorme, ma in realtà chi è davvero contento è mio papà, che al mattino può dormire mezz’ora in più.
Adesso ho molto più tempo per guardare Natascia. Mi piace tutto di lei, anche il suo cognome (che però io trasformo nella mia testa in Chan, Natasha Chan, e me la immagino super spia di origini russo-giapponesi) È proprio osservando lei che mi accorgo per la prima volta di dettagli importanti come le fossette all’angolo del sorriso, i denti bianchissimi, o le tette grosse. Non le noto solo io (le tette, intendo): gira voce che una volta la suora di mate l’abbia mandata a casa con la nota perché non aveva il reggiseno.
Quel giorno ero malato.
Natasha torna a casa con un ragazzo grandissimo, che viene a prenderla addirittura in moto. Capisco di non avere molte possibilità. Però una mattina di febbraio che siamo solo in due ad aspettare davanti alla porta, lei mi saluta. Son così sorpreso di essere stato notato che non so bene come rilanciare il discorso. Per fortuna ci pensa lei. Si soffia sulle mani, storce le labbra verso il basso e proclama: Diàolo càn, che sbòro! G’ho le mane ingiassàe1 . Il dialetto è un colpo troppo duro per le mie fantasticherie. Però le sue tette continuano piacermi.

5. Susanna
Al primo anno di ginnasio incontro Franz, il Mio Nuovo Migliore Amico. E praticamente questo è tutto: studiamo talmente tanto da non pensare altro che alle declinazioni. Ai primi di luglio, i nostri genitori ci spediscono a scuola d’inglese. Così cambiate aria, ci dicono.
A Bournemouth passiamo molto tempo al parco e realizzo con un certo stupore che si possono conoscere le persone anche senza trovarcisi in classe assieme. Le più simpatiche sono un gruppo di ragazze di Busto. Al principio sono molto turbato perché fra loro si insultano chiamandosi “Troia”, una parola che a Verona si può usare solo sul campo da calcio e fra ragazzi, vietatissima con le femmine. Loro invece se la buttano addosso a ripetizione e poi ridono tutte contente: che simpatiche.
Fra di loro ce n’è una che ride un po’ meno, parla poco e quasi sempre di cose strane. Ascoltandola mentre sproloquia di sedute spiritiche, voci dei morti e “viaggi” con sostanze ignote tipo le “micropunte”, comprendo il vero significato dell’aggettivo “intrigante”. Ha la frangetta che le cade sugli occhi semichiusi, le orecchie piccoline e la bocca molto carnosa. Un pomeriggio mi chiede di firmare il suo diario e noto contemporaneamente varie cose:
1) Ci sono dentro tantissime foto (da allora gonfio al limite della rottura tutti i miei diari di liceo).
2) Gli sconosciuti ritratti in quelle immagini mi suscitano curiosità e nervoso insieme, con un’intensità che non avevo mai provato.
3) Il suo nome per intero è Susanna Segreto.
Prendo questa rivelazione come una oscura conferma di qualcosa che non so bene neanche io, da quel momento non la mollo più e divento un esperto di riti misteriosi, giri di “roba” e soprannomi di persone mai viste.
È l’estate più calda del secolo e le ragazze propongono di andare in spiaggia. Io e Franz andiamo a pucciare i piedi nell’acqua glaciale. Torniamo rabbrividendo agli asciugamani e scopriamo che le nostre amiche si sono messe in topless e, ridendo come matte, fanno a gara a dar della “Bagascia” a chi ha i capezzoli più duri. Io e Franz ci sdraiamo vicini vicini, vorremmo fare i disinvolti ma ci escono solo delle battute penose. Susanna è alla mia sinistra; grazie ai Ray-Ban, posso osservarla con un certo agio. Ha tette piccole, appena sporgenti, che però tendono decise verso l’alto. La destra guarda me, ne sono sicuro. I capezzoli non sono molto rilevati, ma al centro hanno un forellino perfetto. Si spalma l’olio solare con gli occhi socchiusi, a ogni passaggio delle sue dita, il capezzolo che mi punta si fa sempre più ritto e teso. Mi giro verso Franz, ci capiamo senza parlare. Ridendo e spintonandoci, rinculiamo verso l’oceano senza mai alzarci in piedi. Quando l’acqua arriva all’inguine, ululiamo: Uuuhuuuhuuu! Qualche vecchia lady di passaggio alza le sopracciglia, ma almeno possiamo tornare all’asciugamano senza subbuglio nel costume. Due ragazze sono rosse dal ridere. Susanna, girata di schiena, sonnecchia piano.
Bacio Susanna una delle ultime sere, nel parco dove l’ho incontrata. Siamo fradici di birra e lo stesso le chiedo il permesso con la voce che si rompe. Lei mi guarda incerta. Non risponde. Mi do del cretino e avvicino il viso al suo. Ci spostiamo al riparo di una siepe, Susanna ha una salopette di jeans, infilo le mani e le sollevo la maglietta. Lei mi sussurra: No, dai.
Le accarezzo il viso: Sei sicura?
Lei aggiunge: Per favore.
Forse dovrei insistere, ma mi è passata tutta la sbornia. Mi sento ridicolo e squallido. E felice. Lei mi bacia ancora una volta, poi si gira e dà di stomaco. La porto alla fontanella per sciacquarle la bocca e resto lì per un’eternità, finché arriva la sua compagna di stanza e insieme la riportiamo a casa in taxi.
Sono ancora felice.

6. Milena
È una mia compagna con il naso all’insù e le camicette molto scollate. Le piace un sacco sedersi in braccio a me, in pullman, in gita anche nelle ore di assemblea. M’invita spesso a studiare a casa sua, in un piccolo paese vicino Lazise. Arrivo sempre con un mucchio di idee, ma ogni volta sua mamma ci fa stare in cucina. Così mi fate compagnia, dice. Quando sua mamma esce, Milena mi si avvicina, mette la mano sul mio ginocchio e mi aggiorna a voce bassa sulle sue storie con i ragazzi del posto. Saranno i racconti, saran le camicette, con Milena rompo il tabù delle pippe ed è pensando a lei che, in un pomeriggio di aprile, mi faccio la prima “dedicata”.

7. Cecilia
Stiamo insieme dieci mesi. A lei ne dedico parecchie.
La conosco lavorando in fiera. Una delle persone più timide che ho mai incontrato. Non parla quasi mai, ma ha due anni meno di me e due tette giganti. Le nostre uscite seguono un copione preciso. Ci troviamo alla fermata del bus, passeggiamo mano nella mano, in un silenzio pressoché totale, fino a raggiungere un posto tranquillo. I migliori sono vicino all’Adige. Col fiume che li chiude da un lato, pace e discrezione sono garantite. D’inverno, anche la sinusite.
Raggiunta la panchina o il parapetto di turno, ci baciamo e ci pastrugnamo per le tre ore successive. Le prime volte provavo anche a parlare ogni tanto. Cecilia non rispondeva mai e così ho smesso. Alle sei e un quarto ci ricomponiamo: massimo alle sette lei ha il rientro tassativo. Quando la riaccompagno alla fermata, è il male pulsante alle palle che mi fa restare zitto.
Quando uno di noi non ha genitori per casa, prendiamo meno freddo e pastrugnamo di più. Però non c’è verso di concludere. Mi consulto con Franz che mi suggerisce luoghi ancora più isolati: spiaggette in riva al lago, colline in Valpolicella. Con questa prospettiva davanti agli occhi, prendo la patente in due mesi. Cecilia mi lascia per uno con la macchina più grossa.


8. Sara
Sto ancora con Cecilia quando incontro Sara al concerto di Sting. Lei è cugina di qualcuno che si è ammalato e non poteva venire. È una moretta magra magra con una maglietta bianca incollata di sudore. Sorride spesso e le labbra sottili fan vedere i canini. Quando attacca Fragile, tutti si danno la mano: noi dovremmo essere imbarazzati, ma non ci viene. Sara ha dita lunghissime e unghie smozzicate. Usciti dall’Arena, ci fermiamo a commentare. Salta fuori che lei abita vicino, così l’accompagno. Ci fermiamo sotto un portico, la stessa colonna come schienale. Chiacchieriamo senza guardarci e ci passiamo la stessa cicca allungando la mano dietro la schiena. Alle tre, prima di rientrare in casa, ingoia due fisherman e mi affida le sue camel da tenere. Suo padre gestisce uno sporting club, mi spiega. Se mi becca a fumare sono cazzi…
Sara fa lo scientifico, io il classico, ma in una città come Verona ci si incontra facile. La rivedo spesso, soprattutto la sera, quando Cecilia non può uscire. Finiamo sempre da qualche parte a fumarci l’ultima insieme. Una sera mi racconta di Max, un tennista che insegna al club: 32 anni, divorziato, suo padre le ha proibito di incontrarlo.
Però Sara mi cerca sempre, viene via dai posti assieme a me e si fa fare massaggi al collo. Non capisco bene. Dopo un po’ la porto anche nei luoghi dei miei appuntamenti silenziosi con Cecilia. Mi fa strano il modo in cui noi li riempiamo di parole. A Cecilia penso sempre meno. Considero l’idea di mollarla. E intanto vedo Sara quasi ogni giorno. Una sera le faccio una sorpresa all’allenamento di pallavolo. Ha un’euforia che non conosco, con le guance arrossate e un odore cattivo in bocca. Parla veloce, a frasi spezzate, mi racconta che suo padre ha trovato un biglietto del trentenne e le ha fatto una scenata. Lei è scappata in motorino, dritta al tennis club. L’abbiam fatto in spogliatoio, mi dice: Mi ha scopata dappertutto. Calca su quella parola e mi guarda fisso, ride a strappi. Un ghigno cattivo.
Io mi sento strano, non so che dire. A casa scuoto la testa per cacciare via le immagini, ma è troppo presto. Vedo quella risata ogni volta che le parlo. Smetto di cercarla. Mi tengo Cecilia finché non è lei ad andarsene.

9. Viviana
Poche settimane dopo, vado all’università. Ben presto mollo quasi tutti i veronesi e frequento il gruppo con cui preparo i primi esami. Ci sono due tipe che stanno sempre assieme. Federica è bassetta, si veste poco e dorme molto. Chiacchiera come una mitraglia e chiede a tutti: Chiamatemi Chicca. Preferiamo Ciàcola. Viviana invece è alta, ha sempre le occhiaie e non parla quasi mai.
Un giorno di novembre, in un vicoletto dietro Santa Tecla, Ciàcola mi prende da parte e mette in piedi un discorso confuso su noi due, poi avvicina il viso al mio e mi infila la lingua in bocca. Da un bar vicino esce la voce di Tenco.
Restiamo assieme per quasi due anni. Penso di essere innamorato.
Il nostro rapporto è l’opposto di quello con Cecilia: chiacchiere ininterrotte e rapporti sessuali completi. I secondi bilanciano le prime. Per il resto, quasi niente in comune. Ciàcola non legge, detesta il cinema e ascolta Baglioni. Passiamo tanto tempo insieme, perlopiù a letto. Ci regaliamo biancheria intima, maglioni dai colori sbagliati e lettere piene di soprannomi.
Viviana è la nostra ombra, ci segue sempre senza legare con nessun altro. Frequenta i nostri stessi corsi, prepara con noi gli esami, si ferma a dormire dall’una o dall’altro, si aggrega alle nostre vacanze. Ciàcola riempie di chiacchiericcio ogni silenzio, sento che mi sto annoiando, ma lasciarci mi sembra troppo complicato. Viviana compensa tutto, riempie i vuoti. Una sera in Grecia, mi accorgo che non vedo l’ora che Ciàcola se ne vada a letto perché ho una cosa da raccontare alla sua migliore amica. Al ritorno ci lasciamo.
Viviana scompare poco dopo. Parte per il Belgio con una borsa di studio, non risponde alle mie lettere. Quando passa da Milano, mi evita.
Con Ciàcola ci rivediamo a intermittenza. Lei inventa scuse per venire a casa mia, poi attacca lunghe tirate di recriminazione. Il sesso sembra l’unico modo per farla smettere. A volte si incazza e sparisce, più spesso ci sta. Subito dopo, salta su come un bersaglio al tirassegno. Ci rimettiamo assieme?, chiede. E perché?, la impallino io.
Un pomeriggio che le chiedo di Viviana, Ciàcola si incazza: Potevi metterti con lei, visto che ci stai così bene… Anzi no, fallo! Fallo adesso, che tanto son due anni che aspetta.
Mi sento come uno che chiede l’aperitivo mentre tutti stan prendendo il caffè.

Quando vengo a sapere che Viviana è tornata per farsi prolungare la borsa di studio, l’aspetto in segreteria. Mi sembra stupita, ma accetta di fare una passeggiata. Lei non nomina Ciàcola, io nemmeno. Lei si scusa di non aver risposto alle mie lettere, io le chiedo del Belgio. Lei mi parla di niente per due ore, io penso: Cosa ci è successo?
Al metrò di Cadorna la passeggiata finisce. Non ci siamo detti niente.
Insensatamente le propongo di uscire. Dice che non le pare giusto. Chiedo perché. Risponde: Ho conosciuto una persona. Chiedo: E allora? S’incazza, sbuffa, gira lontano gli occhi lucidi e mi pianta lì. Dopo un mese mi arriva una busta con le mie lettere, quattro cd e un peluche che le avevo regalato.

Oltre
Da quel punto in avanti, è come se tutto si mettesse a correre. Facce, nomi, incontri, litigi non mi dicono niente, non mi restano impressi. Ho una teoria: forse la curiosità, l’interesse, lo stupore e la voglia di capire sono limitati. I miei si sono consumati piano piano, penso, un pezzettino qua, uno là, tra le giostre di Barbara e la passeggiata con Viviana (a dirla proprio tutta, più al mezzanino di Cadorna che non tra gli scivoli e le formine di Ponte Catena).
Passo i mesi senza accorgermene, le sessioni senza andare agli appelli. D’improvviso Franz si laurea e alla sera festeggiamo a casa sua. Alle otto sono brillo, alle nove mi trovo a un bivio: da un lato la graduale discesa verso la sobrietà, dall’altro il decollo verticale verso la ciucca molesta. Vado in cerca della prossima birra, ma c’è una ragazza alta con i capelli castani che blocca lo sportello del frigo. Ti spiacerebbe…, le chiedo. Lei si gira. Ha gli occhi grandi e la bocca fatta a cuore. Tu non ti ricordi di me, vero? Ha una bellissima voce, ma il tono non è quello di una domanda. Il silenzio mi sembra l’unica replica dignitosa. Franz ci ha presentato prima della discussione di tesi, mi dice appoggiandosi di spalla allo sportello: e poi di nuovo stasera, quando sono arrivata qui.
Mi sento una merda, una sensazione che mi sta diventando familiare. Di solito bere qualcosa aiuta, ma Boccadicuore non accenna a spostarsi. Borbotto: Scusami. Lei mi guarda dritta e non risponde. Non pensare che sia maleducazione, continuo: È una cosa che mi capita spesso, è difficile da spiegare…
Perché non provi?, propone lei.
Non so perché comincio a raccontarle l’ultimo anno e mezzo della mia vita. A un certo punto ci spostiamo sul terrazzino. È una sera di primavera, abbastanza avanti per non aver bisogno dei maglioni, ma ancora troppo presto per l’autan e le punture. Parliamo per due ore, poi guardiamo le sagome dietro le finestre e giochiamo a indovinare cosa fanno. Mi piace il modo in cui mi risponde. Come trova sempre la cosa più giusta da dire. E per la prima volta da un sacco di tempo i miei sbagli non mi sembrano così brutti.
Una sua amica mette fuori la testa. Boccadicuore le fa un cenno, poi mi spiega che deve andarsene. Mi accorgo che non mi ha ancora ripetuto il suo nome. Tanto non te lo ricordi, mi sorride.
Stavolta però si sbaglia lei.

1 In veronese: “Diamine, che freddo! Ho le mani congelate” [nda] (torna su)