Dubito che conosciate il paesino di Cirimido, dalle parti di Como. E’ uno di quei piccoli nuclei urbani di cui è disseminata la provincia italiana, un posto dove vai solo se conosci qualcuno. Una volta avevo un caro amico che viveva là, quindi il paese mi è familiare. Sarà per questa curiosa coincidenza che ho apprezzato così tanto il ritratto che ne ha dato Silvia Figini. O forse perché nella sua semplicità, questo racconto divertente e assurdo riesce a cogliere bene il profondo senso di ambivalenza che caratterizza tutti noi che veniamo da un paese: il sentirsi allo stesso tempo parte di quella comunità e irrimediabilmente alieni e distanti. Io ho sorriso molto leggendolo, soprattutto per l’intuizione che in una piccola società ognuno di noi è “quasi una star”.
TUTTO QUESTO E’ CIRIMIDO
-Tu non sei felice di vivere a Cirimido –
Questa cosa me l’ha detta una delle due persone del cui giudizio mi fido quindi potrei anche crederle. E’ che nemmeno io so se sono felice di vivere in un posto che ha come nome uno scioglilingua, l’estensione di 2,60 Km e 2000 abitanti scarsi. Certo è che qui sono quasi una star, lo dimostra il fatto che quando mi sono schiantata in motorino, sul territorio del comune vicino, a pochi metri dal confine, tutto il paese è stato in apprensione per me, il parroco è venuto a trovarmi in ospedale, il sindaco mi ha telefonato e qualcuno ha anche acceso delle candele a Santa Cristina per la mia guarigione.
Cirimido è un paese di provincia, carino nel suo genere, il più bello della zona, uno dei pochi in cui ci sono ancora negozi aperti. Sulla strada principale, via Vittorio Veneto, si affacciano, procedendo da est verso ovest, sul lato destro: una videoteca sorprendentemente fornita, una banca, un’edicola, un bar tavola fredda, un parrucchiere per donne, un centro estetico, l’ingresso del giardino del parroco, il santuario della Madonna delle Grazie detta comunemente Chiesina. Sul lato sinistro si affacciano invece: l’officina di mio zio Giovanni, la cooperativa, una pizzeria d’asporto di recentissima apertura, un bar in cui solo l’entrarci indica l’inizio del processo di corruzione morale, il pub, la sede di una società di cui nessuno sa di cosa si occupi, una cartolibreria che vende anche giocattoli, scarpe e abbigliamento per signore, un’altra banca, la posta, la farmacia, il centro pensionati e l’asilo.
Una parte di via Vittorio Veneto è alberata, per indicarla si dice – Il viale delle piante- , inutile tentare di spiegare che la parola viale significa già strada alberata. Anche frequentare con una certa assiduità le panchine del viale è segno di decadimento etico.
La gente quando esce per andare a fare la spesa o per comprare le sigarette dice – Vado in paese -anche se la strada più lontana dal centro dista 300 metri.
Alla Messa delle 10.30 della domenica ci si veste della festa e i bambini si siedono davanti ben divisi, le femmine a sinistra e i maschi a destra.
Sulle strade passano poche macchine e i ragazzini possono giocare a pallone e scorazzare in bicicletta stando anche in due o tre sullo stesso mezzo, più difficile muoversi con i pattini, l’asfalto presenta continui rattoppi poco pratici.
Folcloristiche e interminabili partite a nascondino si svolgono al Monumento degli Alpini, luogo che di sera si trasforma in ritrovo per adolescenti chiassosi.
D’estate se si hanno meno di diciassette anni si va all’oratorio feriale dove ci si sfinisce con masochistici giochi sul campo da calcio sotto il sole del mese di luglio, si mangiano ghiaccioli alla coca-cola e si sperimentano i primi innamoramenti. Da bambina penso di essermi innamorata di tutti gli animatori maschi.
La festa di Santa Cristina, la terza domenica di luglio, permette di rivedere persone introvabili durante il resto dell’anno. Il corpo della santa, martire proveniente dalle catacombe di Santa Priscilla, esce dalla sua cappella laterale e viene posto al centro della chiesa, mentre tutto il paese è addobbato con nastri bianchi e rossi in attesa della processione del lunedì sera.
Gli indigeni portano uno dei due cognomi più diffusi, i casi di omonimia si sprecano, controllate sulla guida del telefono quanti Giovanni Galli ci sono.
Chi ha più di quarant’anni fatica a parlare in italiano e anche la mia mamma, che pure è maestra, si rivolge a me rigorosamente in dialetto. Si può così assistere a interessanti discussioni bilingui tra nonni e nipoti, uno chiede in dialetto, l’altro risponde in italiano.
Tutto questo è Cirimido. Le strade sgombre non permettono di evitare chi non si vuole incontrare, parentele chilometriche e intricate regolano un sistema di litigi e confidenze. Prima di fidanzarsi occorre controllare che l’oggetto d’amore non sia un cugino.
I cirimidesi sono ovunque, subdolamente infiltrati tra i colleghi, gli spettatori al cinema, i clienti dei ristoranti cinesi, i passeggeri della metropolitana. Fate attenzione, accanto a voi potrebbe essercene uno.
Piero, l’altra persona del cui giudizio mi fido, che vive a Milano, periferia sud, quasi all’aeroporto, tra la nebbia e la tangenziale mi dice – Abiti così lontano – però per arrivare in piazza del duomo dalle rispettive case impieghiamo lo stesso tempo, lui pure qualche minuto in più. Mi dice anche -Abiti in quel posto terribile – ma nel mio posto terribile c’è più vita e varietà che nel suo quartiere che sembra la città dei playmobile.
Vivere a Cirimido permette di sviluppare una doppia vita: cittadina per quanto riguarda lo studio e, spesso, il lavoro, e di provincia per tutto il resto. Questo in una società complessa come quella attuale che richiede una grande capacità di adattamento alle situazioni nuove è solo un vantaggio.
Un treno mi collega a Milano in trentacinque minuti, se apro la finestra vedo i campi, in primavera nei giardini fioriscono le magnolie, non rischio la vita quando vado in bicicletta. Ecco se mi sforzo riesco anche a trovare delle ragioni per cui poter dire che sono felice di vivere a Cirimido.