MICHELE ROSSINI
Un villaggio di pescatori, coi suoi ritmi e i suoi rituali. Un uomo di città che torna a trascorrervi l’estate, alla ricerca di tranquillità. E’ un racconto fatto di piccole cose, questo di Michele Rossini. Di cene fra vecchi amici, di pomeriggi passati a leggere, di riti quotidiani ripetuti. Eppure, in questo scenario di calma apparente, si profila l’ombra di un criminale. E il fascino del pericolo, in certe circostanze, sembra davvero andare oltre ogni capacità di resistenza.
Dentro una batana bianc’azzurra
E’ arrivato solo stamattina e si è messo a pulire. La casa è vuota dall’ultima volta che c’è stato, lo scorso anno. Ha riattaccato il frigorifero e la lavatrice, provato il gas. Da terra ha raccolto chili di polvere e lanugine saldati assieme tanto da rassomigliare a una palla. Dalla finestre aperte gli arrivano i rumori del porto. I pescatori stanno tornando e sembra che là fuori ci sia la fiera. Si affaccia su quel mezzo metro quadrato di cemento che gli fa da balcone e si accende una sigaretta. I pescatori li conosce ancora tutti, sono gli stessi di quando era ragazzo, a volte i loro figli. Sono ancora quasi tutti magri e bruniti dal sole, mentre lui è ingrassato e ogni anno è costretto ad aggiungere un nuovo buco alla cintura dei pantaloni. Si passano l’un l’altro le casse di pesce appena pescato e sfottono quelle barche che hanno raccolto meno. Puliscono le reti, le lavano con acqua dolce e poi le adagiano sul fondo delle barche, che tanto qua nessuno ha mai rubato nulla e se anche fosse, un pescatore la propria rete la riconosce sempre, e quindi non ha senso portargliela via. Usano ancora le batane per andare in mare, come quando era ragazzo e passava le sue giornate sulla banchina del porto aspettando di vederli tornare. Quando a dorso nudo e con la pelle indorata dal sole e dal sudore pesavano il pesce e riordinavano le barche, per poi dirigersi chiacchierando verso il bar del padre di Renzo. Se ne rimaneva incantato a guardarli, e almeno questo non è cambiato con il tempo, pensa, mentre la sigaretta si va consumando tra le dita della sua mano destra. Scende le scale e inizia a scaricare la macchina. Alza un braccio e ricambia il saluto dei pescatori che gli vociano qualcosa contro. E’ il momento giusto per scaricare la macchina. Se ne sta parcheggiata proprio davanti a casa, a neanche dieci metri dal porto. Gli sembra quasi di stare in compagnia, i pescatori lavorano proprio là davanti e mentre scarica borse e valige li vede parlottare e ridere.
Rimarrà l’intera stagione, tre mesi, come sempre.
Ma facendo le scale in salita, con addosso il peso dei bagagli, si dice che il prossimo anno porterà meno roba. In realtà se lo dice tutti gli anni, ma evidentemente se lo dimentica. Posa le valige in camera e se ne va in cucina. Il caffè è ancora quello dell’anno scorso, si chiede se sia ancora buono mentre riempie la caffettiera. Aspetta che venga su, poi lo versa nel lavabo e lo fa di nuovo. Torna sul terrazzo e si accende un’altra sigaretta. I pescatori si sono buttati addosso qualcosa e ora se ne vanno in processione verso il bar, a mangiare o bere. Ne rimane ancora qualcuno in ritardo, o qualcuno che pesca solo. Ci sono Timo e Freghin che ancora sulla propria barca stanno lavando le reti; e poco distante da loro c’è un uomo che non ha mai visto. Ha una batana piuttosto malmessa e se ne sta attraccato in disparte, al limite del porticciolo. Si chiede chi sia mentre sente il secondo caffè borbottare nella moka e rientra in casa. Stavolta non lo butta, lo versa in fretta dentro una vecchia tazza dal bordo scheggiato e torna fuori. Era convinto di conoscere tutti i pescatori della zona, o comunque tutti quelli che attraccavano nel porto davanti a casa di sua nonna, ma evidentemente si sbaglia. Sarà alto un metro e ottanta, forse qualche centimetro di più. Ha i capelli mossi, disordinati; un filo di barba e la pelle scura. Timo e Freghin hanno appena finito di mettere a posto le reti e camminando uno accanto all’altro, vanno anche loro verso il bar di Renzo a mangiare qualcosa o prendersi un caffè corretto. Anche lui inizia ad aver fame e presto andrà al bar, ma non adesso, perché sarà ancora pieno di pescatori e non si arriverebbe nemmeno a sentire la propria voce. Preferisce aspettare e allora rimane sul terrazzo incuriosito da quell’uomo che, rimasto anche lui solo, lava le sue reti senza fretta e appena finito se ne va a piedi, nell’altra direzione e senza passare per il bar. Chiederà chi sia a Renzo, pensa mentre torna dentro e inizia a svuotare le valigie. Dopo una buona mezz’ora esce di casa e percorre le poche centinaia di metri che lo separano dal bar. Renzo ci abita proprio sopra, nella casa che era stata dei genitori. Si conoscono da più di quarant’anni ed è il solo vero amico che abbia là. A dire il vero conosce un sacco di gente, ma nessuno di loro gli è davvero amico, tranne Renzo, con cui ha giocato da ragazzo e che ha una mentalità un po’ più aperta degli altri.
Il bar è sempre uguale. Tavolacci di legno e sedie di metallo e plastica, sulle pareti bianche qualche quadro di pittori locali con nature morte o paesaggi. Entrando nota che ci sono ancora alcuni pescatori seduti ai tavoli, li guarda. Loro, vedendolo, se ne rimangono un attimo in silenzio e poi riprendono a parlare, qualcuno lo saluta con un cenno del capo.
-Oh, ma tu guarda chi è rispuntato anche quest’anno, – dice Renzo non appena lo vede.- Quando sei arrivato?
-Stamattina, saranno state le sei.- Risponde, mentre si danno la mano.
-Come stai? Ti fermi molto?- Chiede Renzo, tenendo ancora la sua mano nella sua e dandogli grandi pacche sulle spalle.
-Bene, sto bene. Qualche acciacco, ma niente di grave. Credo che starò qua tutta l’estate, dove vuoi che vada…
-Io non arriverò mai a capire perché tutti gli anni vieni a rintanarti in questo buco.- Dice Renzo, mentre se ne torna dall’altra parte del bancone e inizia a preparargli un cappuccino.
-Per me un posto vale l’altro, voglio solo riposarmi. E poi qua si sta bene.
-Ma…-Dice scuotendo le spalle,- la gente di qui pagherebbe per potersene andare almeno qualche volta, e tu invece ti fai seicento chilometri ogni anno per venirci. Di’ la verità, c’avrai mica delle storie qua?- Continua, mentre il suo corpo massiccio viene scosso da una risata che sembra un po’ forzata.
-Sì, storie. Come no. Me ne faccio di continuo -. Anche lui ride e i due uomini rimangono a guardarsi dalle parti opposte del bancone. Dà piccoli sorsi al cappuccino, poi chiede:
– Tu invece? Tutto bene? Come sta tua moglie?
-Ma sì, ma sì… tutto bene. A lamentarsi si fa peccato. Quest’inverno Mirella è scivolata e si è rotta una gamba, ha dovuto fare fisioterapia ma ora sta bene. Senti,- dice, – perché non vieni a cena?
– Quando?
– Quando vuoi, anche stasera.
– No, stasera non posso.- Risponde. – Sono appena arrivato e devo ancora sistemar tutto.
-Su, non far storie.- Fa Renzo, passandosi una mano sui capelli ormai radi e facendoglisi appresso.
-Magari un’altra volta,- risponde, -ora vado, si sta facendo tardi. Ero passato solo per un saluto.
-Ah, va bene.- Dice Renzo. –Allora ci vediamo domani, come sempre…
-Sì, a domani. Saluta tua moglie.
-Sarai servito, ma ricordati di venire a cena. Anche lei vorrà salutarti. – Aggiunge, dopo un attimo.
-Verrò, stanne certo.- Gli risponde mentre si alza e si dirige verso l’uscita. Appena varcata la porta si sente sollevato. Vuol bene a Renzo, ma alle volte con lui gli sembra di dover stare in apnea, e allora è costretto ad andarsene.
Tornato in strada mette lentamente un piede davanti all’altro, non sa che ore siano. Più o meno mezzogiorno pensa, mentre attraversa la strada e cammina lungo la darsena, proprio accanto alle barche. Rientrato in casa mette una pentola sul fuoco. Si fa un piatto di pasta al sugo di pomodoro, vedere Renzo l’ha un poco scosso, come tutti gli anni. Anche lui non è più giovane, ha un grosso ventre da bevitore e ormai pochi capelli in testa. Esattamente come lui. Ci si specchia in Renzo, e allora questa volta ha veramente deciso di mettersi a dieta. Dopo pranzo dorme qualche ora, poi si sveglia e legge. Passa l’intero pomeriggio e la sera in camera, con un grosso libro sulle ginocchia. Non potrebbe veramente rilassarsi senza avere un libro vicino, ma non un libro qualsiasi, un libro grande, da almeno mille pagine. Un libro di cui possa sentire il peso, come se misurasse a quel modo la soddisfazione che otterrà nel leggerlo. Anche quest’anno ne ha portati più di uno. Quattro per essere precisi. E inizia a leggere nel primo pomeriggio, non appena si sveglia dal pisolino che ha seguito il suo pasto, e non smette fino a tarda sera, quando spegne le luci di camera certo che il mattino dopo si sarebbe svegliato presto.
E invece il mattino dopo si alza tardi. Apre gli occhi solo quando dalle finestre spalancate inizia ad arrivargli il rumore del porto; l’approdo delle barche, il vociare dei pescatori. A dire il vero si era svegliato qualche ora prima, ma solo per un attimo. Un gallo si era messo a cantare e lui aveva aperto gli occhi. Attraverso gli scuri filtrava una luce a metà e allora si era girato di lato e aveva ripreso a dormire. Il suo grosso libro se ne sta adagiato in terra, accanto al letto, e spalancato com’è alla pagina cui è arrivato, con la copertina in alto, sembra una bocca intenta a mordere il pavimento. Saranno le dieci e mezza, forse le undici. Se ne rimane ancora per una manciata di minuti adagiato sul letto, guardando il soffitto. Di tanto in tanto volge lo sguardo verso i suoi piedi di cui intravede solo le punte. A coprirglieli il suo ventre, grande e tondo, dall’aspetto solido come se dentro c’avessero nascosto un cocomero. Se ne rimane un attimo a pensare e poi si alza di scatto, prende le sigarette da sopra il comodino e se ne accende una. A piedi scalzi arriva fino in cucina e rimane per un attimo indeciso se farsi un caffè oppure uscire subito e andare al bar. Scosta una sedia da sotto il tavolo e ci si siede, poi le voci dei pescatori lo portano in terrazzo. Le batane se ne stanno tutte ormeggiate, cariche di pesce e di reti. Turisti e locali, per lo più albergatori, aspettano sulla banchina di vedere la merce. Si aprono le contrattazioni. I pescatori mostrano una cassetta di sgombri o una di sogliole e si fa il gioco dei numeri. Uno dice dieci e l’altro cinque finché non ci accorda per sette. Il pesce viene immediatamente pesato e passa di mano appena giunto a terra. Quello che non viene venduto subito lo si carica in macchina o in ape e lo si porta al mercato o in qualche pescheria. Subito dopo vengono lavate le reti. Giorgio e Marcello sono i primi a finire e con una sigaretta in bocca si dirigono verso il bar; Timo e Freghin sono invece gli ultimi. Come sempre.
Si attardano a tornare nel tentativo di pescare qualcosa in più, e sono anche i più lenti a vendere la merce e a sistemare la barca, eppure lavorano con frenesia. Si muovono a scatti come fossero bambole dagli ingranaggi rotti e passano il tempo bestemmiando fuori dai denti contro chi ha pescato più di loro, e sono tanti. Quando anche loro se ne vanno, sulla banchina rimane solo il pescatore sconosciuto. Lui è ancora sul terrazzo, la tazza del caffé ormai vuota in mano. Lo guarda meglio. E’ difficile dargli un’età. E’ abbronzato e magro; sotto la pelle si intravedono tutti i nervi e i muscoli come se il suo intero corpo fosse un atlante illustrato di anatomia. Si muove lentamente, piega le reti senza fretta. Accanto alla sua barca, adagiate sulla banchina, se ne stanno sei o sette cassette di pesce che vengono vendute a un unico cliente che passa a prenderle e le carica su un camioncino con la scritta Pescheria Sette Mari. Lui prende in mano i soldi e li conta, poi li piega e con un gesto distratto li infila nella tasca posteriore dei pantaloni. Non riesce a vedergli il volto, è troppo distante. Eppure vede i suoi capelli castani cadergli sulle spalle, e intravede chiaramente che sul corpo ha diversi tatuaggi. Rimane a guardarlo per un po’, finché lui alza gli occhi e prende a fissarlo; a quel punto torna in casa. Gironzola per la cucina senza far nulla e poi si spoglia seminando i vestiti per tutta casa, prende una doccia veloce. Si passa una spugna ruvida su tutto il corpo e poi si fa la barba. Finito di asciugarsi si veste e va verso il bar, camminando.
-Buon giorno Renzo,- dice appena entrato.
-Ciao Massimo, ben tornato.
-Cosa mi dai da mangiare?- Chiede sedendosi.
-Non m’è rimasto quasi più niente.- Risponde, allargando le braccia e additando il vassoio delle paste ormai quasi vuoto.-Quando tornano dal mare sono peggio di lupi.
-Va benissimo quella lì.- Indicando una delle poche paste rimaste.
-Vuoi anche un cappuccio, vero?
-Sì, sì. Grazie.- Dice, senza guardarlo in faccia. Trova il giornale sopra il banco e lo apre distrattamente alle pagine di cronaca locale.
-Dì un po’, tutto bene?- Chiede Renzo.
-Sì, bene grazie. Solo un po’ stanco. Può darsi che stanotte non abbia dormito bene.
-Mm… Sarà…- Borbotta Renzo tra sé e sé, ma a voce abbastanza alta da farsi udire.
-Renzo, senti,- dice Massimo, mentre si sistema meglio sullo sgabello e da un sorso al cappuccino.
– Ti risulta che in paese sia arrivato qualcuno di nuovo?
-Di nuovo dici? Non mi sembra.- Gli risponde mentre passa un panno dentro un bicchiere.
-No perché c’è un tipo al porto che proprio non conosco. Sono sicuro che l’anno scorso non c’era. Ha una batana verniciata di bianco e azzurro, piuttosto mal messa, hai presente? Attracca a sud, proprio in fondo alla darsena.
Renzo smette di pulire, il suo corpo ondeggia avanti e indietro poi dice. -Ah, lui… – Sembra pensieroso, poi aggiunge: -Dammi retta, lascialo perdere.
-Ma chi è, lo conosci?- Chiede.
-No. Non viene mai qui. Se ne sta tutto il tempo per conto suo. E non è un gran danno per nessuno, credi. E’ un poco di buono quello.
-Non è di qua, vero? Sono sicuro di non averlo mai visto.
Renzo sbuffa. Muove una mano dentro all’altra e guarda in giro.
-Credo sia calabrese, o campano. Non lo so di preciso.
-Che t’ha fatto?
-A me niente, ma è un avanzo di galera. Appena arrivato il maresciallo dei carabinieri è venuto qua e ha messo tutti in guardia su quel bel tomo.
-Molto professionale da parte sua-. Fa Massimo, ironico.
-Lo sai come sono i paesi, e in ogni caso ha fatto bene. E’ un bastardo.
-Sì, ho capito. Ma che ha fatto?
-Che io sappia s’è fatto diec’anni di galera, e poi è uscito per buona condotta o indulto o un’altra cazzata di quelle.
-E per cosa era dentro?- Chiede, guardandolo di sbieco come a dargli l’idea che non fosse veramente interessato.
-Che ha fatto chiedi? Guarda, te lo dico così te lo togli di testa. E’ un gran figlio di puttana. Un porco col vizietto. Ha rimediato un ragazzino che aveva bisogno di soldi per farsi e se l’è ripassato per bene. L’ha mandato in coma a furia di bastonate. Prima ha fatto i suoi comodi, e dopo, quand’era l’ora di pagare, l’ha massacrato e lasciato per strada. Il maresciallo dice che si è salvato per miracolo. Così gli hanno dato solo tentato omicidio e ora se ne sta fuori, libero. Sei contento ora?- Dice, in un tono quasi di sfida.
Massimo non risponde, manda giù l’ultimo sorso del suo cappuccino con uno sforzo, come se fosse amaro. Poi si alza dallo sgabello e tira fuori i soldi dal portafoglio. Mette una banconota proprio davanti alla cassa e mentre aspetta il resto guarda la specchiera dei liquori, che è esattamente uguale a come è sempre stata. Forse alcune di quelle bottiglie sono là da anni, nella stessa identica posizione dal giorno in cui sono state comperate.
-Stasera vieni a cena, dai -. Dice Renzo, dandogli il resto e guardandolo fisso in faccia. -Facciamo una cosa alla buona. Non farti pregare, su…-
Massimo non dice niente, allunga una mano e riceve le monete nel palmo. Le loro mani sfregano per un attimo l’una contro l’altra poi, con il corpo già proteso verso la porta chiede: -Verso che ora passo?
-Quanto ti pare: alle otto, alle nove, vedi tu…
Quando Massimo arriva non ha neppure bisogno di suonare il campanello, Renzo se ne sta sul balcone a prendere aria e non appena lo vede gli manda un urlo e corre ad aprirgli la porta. Nel pomeriggio è stato in paese, ha girato per negozi e fatto la prima spesa della stagione. Si è anche fermato a prendere una bottiglia di vino per Renzo e una pianta per sua moglie. Non ci capisce niente di piante e si è fatto consigliare dal fioraio finendo per comperare una pianta grassa che, casualmente, era la più cara del negozio.
Mirella, prendendo la pianta, ringrazia e si scusa della casa in disordine e del fatto che in così poco tempo non abbia proprio potuto mettere assieme una cena decente. Si lamenta che suo marito le dice tutto all’ultimo momento, e che se l’avesse saputo prima avrebbe preso del pesce fresco e fatto la brace. Sembra contenta di vederlo, gli dice che non è affatto cambiato dallo scorso anno, e Massimo ringrazia pur sapendo che non è vero. Ceneranno in terrazza, dove fa più fresco. Renzo ha già apparecchiato la tavola e mentre loro due si accomodano Mirella torna in cucina.
-Sono contento che tu sia venuto.- Dice Renzo, -Non ci speravo.
-E quando mai non sono venuto?- Gli risponde Massimo mentre sgranocchia uno dei grissini che stanno sopra al tavolo.
-A dire il vero vieni sempre, solo che mi tocca insistere per settimane, e di solito mi riesce di convincerti solo a fine stagione.
Massimo ride, poi porta alle labbra il bicchiere di vino che Renzo gli ha riempito.
-E’ per via di mia moglie?- Chiede, mentre tiene gli occhi fissi sul tavolo e giocherella con il bicchiere.
-Ma cosa vai a pensare,- dice Massimo, e fa segno con una mano di lasciar perdere.- Piuttosto chiamala, che se ne stia con noi invece di stare in cucina.
-Sta cucinando, lasciamola fare. Così ci facciamo due chiacchiere.- Dice Renzo, passandogli una mano sulla nuca mentre Massimo insiste: -Ma no, dai, chiamala. Non mi va che si dia tanto da fare per me.
-Mirella! Mirella, vieni!- Urla Renzo, mentre un po’ goffamente ritira la mano e accavalla le gambe in direzione della porta.
-Arrivo- fa Mirella, e compare subito dopo con una teglia di pasta fumante. -E’ solo pasta al pesto. Spero ti piaccia. L’ho fatto io, sai. Ho colto i pinoli, l’aglio e tutto il resto e l’ho pestato a mano, come si faceva una volta.
-Sono sicuro sarà buonissima,- dice Massimo, mentre mette una forchetta nel centro del piatto e inizia ad arrotolarsi gli spaghetti.
-Com’è, ti piace? – Chiede Renzo.
-Ma no che non gli piace,- fa Mirella, -è abituato ad andare al ristorante lui.
-Ma no, guarda, Mirella, è buonissima. Davvero.
Dopo la pasta al pesto Mirella porta in tavola un’insalata mista e del coniglio con patate arrostito nel forno di casa. Torna a scusarsi per aver avuto poco tempo e inizia a mangiare solo dopo aver visto Massimo portarsi la forchetta in bocca. Si parla del più e del meno, di come vada il lavoro e dell’idea che ha Renzo di rinnovare il bar. Per tutta la sera Mirella entra ed esce dalla cucina, porta via i piatti sporchi, prepara il caffè e serve l’amaro sempre continuando a scusarsi. Loro due se ne rimangono in terrazzo mentre lei va facendo i piatti in cucina, durante la cena Renzo non ha mai smesso di parlare, ma ora che sono soli se ne rimane in silenzio. Fumano guardando il mare che gli è proprio di fronte e che si è fatto scuro.
-Te ne vai di già?- Chiede Renzo, quando Massimo si alza.
-Sì, domani voglio svegliarmi presto e andare al mare -. Risponde.
-Aspetta un po’, dai…- Fa Renzo, rimanendo seduto e facendogli con la testa segno di sedersi.
-Un’altra volta, ora vado.- Dice Massimo mentre anche Mirella, che è appena rispuntata dalla cucina, gli chiede se se ne sta già andando, e i saluti si protraggono fin sulla porta. Mirella insiste che torni a trovarli, e che accetti almeno un altro invito a cena. Massimo è già sulle scale mentre Renzo, sul pianerottolo, cingendo le spalle della moglie ha ripreso a parlare. Sembra quasi non voglia lasciarlo andar via. Massimo risponde alle sue domande usando sempre meno parole, come se andasse seccandosi, e solo dopo molto tempo riesce a salutare. Se ne esce e solo arrivando in strada sembra riprendere a respirare. La serata è calda, e malgrado le luci del porto si vedono bene le stelle. Massimo attraversa la strada e si incammina verso casa sua passando sulla banchina. Le batane ormeggiate alla darsena oscillano leggermente e di tanto in tanto gli arriva l’odore acre del pesce andato a male. Passeggia lentamente e si accende una sigaretta, ora non sembra aver più nessuna fretta di tornare a casa. Per la strada non incontra quasi nessuno, solo alcuni turisti che non conosce e che pure saluta. E solo quand’è ormai di fronte a casa sua, vede che in fondo alla darsena, davanti alla batana bianca e azzurra dello sconosciuto, se ne sta seduto un uomo. Non sa dire se sia lui, è buio e i suoi occhi non sono più così buoni. Se ne rimane alcuni minuti a osservarlo finendo la sigaretta che ha in bocca. Anche l’uomo lo guarda, sembra che abbia in mano qualcosa e che stia mangiando. Se ne stanno immobili, l’uno rivolto verso l’altro, finché Massimo alza una mano e richiama la sua attenzione; poi attraversa la strada e rientra in casa lasciando la porta aperta. Sale le scale con un groppo in gola, come un ostacolo al deflusso dell’aria. Se ne va in cucina, si siede su una vecchia poltrona e si sfila le scarpe. A piedi nudi va verso il frigorifero, prende una bottiglia d’acqua e se ne versa un bicchiere. Dalla tromba della scale risale il rumore di una porta che si chiude, poi passi pesanti sugli scalini. Massimo appoggia sul tavolo il bicchiere che ha in mano e scivola verso la camera cercando di non far rumore. Si tira dietro la porta, la socchiude, attraversa la stanza e quando i suoi occhi incontrano lo specchio trova fastidio vedendo il proprio corpo. Dal corridoio gli arriva il cigolare di vecchie scarpe mentre si slaccia i primi bottoni della camicia e si toglie la cintura. Quando la porta si spalanca lui è di spalle, le mani appoggiate al muro, la schiena curva e le gambe larghe. L’uomo dietro a lui sorride, gli angoli delle sue labbra si tendono verso l’alto scoprendo una bocca priva di incisivi.