Marco Rossari è uno di quegli autori che vale la pena ascoltare,oltre che leggere. Una volta ho assistito a un suo reading per le vie di Verona e posso testimoniare che conquistava anche i passanti casuali, che si fermavano divertiti ad ascoltarlo. I testi di Marco sono infatti spesso molto ironici e paradossali, di forte impatto. Anche questo nuovo racconto inedito è di grande impatto, ma di stampo molto differente dal suo ambito consueto. Si tratta di un testo doloroso e intenso, sulle vittime del nazismo, sull’insopprimibile vuoto che i sopravvissuti si tengono dentro. Un cambio di direzione narrativa, o forse semplicemente una bella prova, che ‘tina è felice di ospitare.
LA COLPA, LONTANA
“Lei ha scritto un articolo. E io sono qua.”
Il treno fa schifo. È un vecchio deposito di pendolari che ancora puzza di fumo per tutte le cicche che ci hanno succhiato in quei momenti orfani di vita, quando andavano e venivano tra la casa e l’ufficio, nel grigio plumbeo della pianura padana, nel buio pesto della pianura padana. Quel fumo doveva essere come i loro pensieri: vano, effimero, inquieto, volubile, nauseabondo. I pensieri dei pendolari che si strusciano e che osservano, che immaginano e che desiderano.
Adesso è vuoto. Non è l’ora del bestiame operoso. È l’ora di chi viaggia per motivi che non si spiegano. Liberi professionisti. Pensionati. Studenti. Sfaccendati. Io.
Penso ai treni per Auschwitz. Il mio paradigma. La pietra di paragone. La condanna. I corpi di Auschwitz, l’ossessione del giornalismo, dell’approfondimento televisivo, della morte di Dio. L’orchestrina che suona, l’indicibilità, l’orrore. Una volta ho visto un documentario con filmati dell’epoca, le bestie dalle orbite svuotate che contemplano l’obiettivo per lo speciale dopo il tg, c’era un’immagine in cui correvano, dovevano superare la selezione, una corsetta nudi, dentro o fuori. Mio fratello è entrato in camera, anche se non l’ho sentito. E ha acceso la radio. Alla radio passavano una musica allegra, da vaudeville, un fox trot, qualcosa di simile. Accostata a quella scena, tutto mi sembrava tragico. Ho pianto senza sapere il perché. Anzi no: ho pianto perché il mondo ha bisogno di una colonna sonora. E magari di un commento.
Quell’articolo lo conosco a memoria. Posso mettermi in piedi davanti a te, davanti a una lapide, davanti a un professore, perfino davanti a lui. E dirlo dalla prima all’ultima parola. Recitare non so farlo. Non mi interessa, forse non me lo sono nemmeno mai chiesta. Recitare, no. Ma posso dirlo. Lo conosco a memoria. È un mantra che scongiura la mia salvezza, anche se parla proprio di quello. È un comunicato dal fronte, una lettera burocratica, un avviso sul muro di un supermercato. Te lo posso dire tutto con la mia voce sempre uguale, che non cambia se dico orrore, che non cambia se dico amore. Una parola dopo l’altra, come gli uomini nei forni, come i pendolari nei treni, come i giorni. Mi metto anche sull’attenti, come fanno negli ambienti militari. Tu puoi stare seduto a una scrivania, con l’aria di chi ha da fare cose più importanti, scrivere a un colonnello, rispondere a un dispaccio, ordinare una fucilazione. E magari invece stai solo scrivendo una lettera a tua madre e deciderai di fucilare me. Io sto in piedi e non ti guardo. Non è che non ne ho il coraggio, è che non devo. E quindi non posso. Guardo il muro. E dico l’articolo. Per filo e per segno. E tu fai finta di non ascoltare. Non ascoltare non è sempre una cosa sbagliata.
“Come, scusi?”
“Lei ha scritto un articolo. E io sono qua.”
Conosco anche la data di uscita del giornale. La mia seconda data di nascita. Anzi, l’unica, perché la prima non la conosco. L’articolo, in fondo, è anche un certificato di nascita. L’anagrafe dello scandalo pubblico. Il resto del giornale però non l’ho guardato. Non conosco il titolo di apertura, l’argomento del fondo, la situazione del pianeta. Era un lunedì. Forse c’erano le partite. I risultati. Chissà com’era andata la domenica a tutti gli altri italiani. A me era andata bene. Di domenica succedono queste cose. Durante la settimana, tutti quanti, anche la polizia, hanno troppo da fare. La domenica invece l’aria è ferma. Si aspetta che passi. E allora, come l’asino intorno a un palo, la gente decide di fare qualcosa. Poi tornerà sui treni, a leggere il giornale o a chiedere l’elemosina. La gente cammina per il quartiere, anche se il quartiere è un immondezzaio. La gente mi trova.
Il suo nome me lo sono sognato un sacco di volte. Non ho mai cercato un viso, non ho mai cercato una persona. Quel nome. E le sue parole. Ero piccola. Mi sono sentita come se mi avessero tolto qualcosa. Poi mi sono innamorata. Poi l’ho odiato. Poi è tornato a essere un nome. Ma è un nome che mi chiama. Nessuno scrive lettere per non ricevere una risposta.
Mio fratello non mi ama. Ha paura di me. Io sono per lui il mondo, la strada, il male. Ha ragione, lo capisco. Non è vero che la gente è così curiosa. Non è vero che le tragedie attirano lo sguardo morboso di chi passa. All’inizio, forse. Quando si nota una sirena, un capannello di persone, l’aria di sventura. Poi la gente non vuole più saperne. Qualche tempo fa, nel quartiere che è un immondezzaio, nel quartiere dove io ho gridato, una giovane zingara ha cercato di rubare dei vestiti in uno dei cassonetti con gli abiti che gestisce il Comune. La giovane zingara rubava vestiti destinati ai poveri, che vuol dire non rubare affatto. Il cassonetto ha un’apertura a scatto. Si è chiusa, con lei dentro. È morta. Una ragazza magra, di origine rumena. La gente adesso, che gira la domenica, non guarda il cassonetto. L’hanno portato via, ma non lo guarda lo stesso. Non guarda la sua assenza. Nessuno guarda nemmeno l’assenza della giovane zingara, perché non aveva niente. Questa volta l’articolo non l’ha scritto lui.
“Un articolo?”
“Quindici anni fa.”
“Non capisco.”
Il treno fa schifo. Io guardo fuori e anche fuori fa schifo. Ma dentro il treno non ho più voglia di guardare perché il mio sguardo deve avere spazio. E poi ho paura di incrociare lo sguardo di qualcuno. Ho paura che qualcuno mi parli. Che mi chieda dove vado, chi sono, come mi chiamo. Per molto tempo non sono nemmeno riuscita a pronunciare il mio nome. E mi dava anche fastidio che lo dicessero gli altri. Mio fratello, per esempio, che era il mio fratellastro. Ma anche la donna che mi ha preso con sé, che ha preso quel corpo che ero io. E con gli sconosciuti ogni tanto questa sensazione ritorna. Oggi, in particolare. Oggi che ho deciso di andare da lui. Se mi chiedono dove vado, rischio di dire la verità, perché dico sempre la verità. Vado a trovare un giornalista.
Trovare è la parola esatta. Voglio trovarlo, lui che oggi non ho bisogno di cercare, che è lì in università perché c’è un incontro sul disagio. Mi sembra giusto. Ho voglia di avere paura perché è quello che provo. Eppure sono cambiata. Non sono più una bambina di due anni, ho un vestito a posto, una storia mia abbastanza nuova. Studio, dicono che sono intelligente. Ho superato le cose, con la persona che mi ha aiutata. Ci provo, cambio ogni giorno. Anche la colpa è lontana. Anche il pensiero della colpa. Il fulcro che sono stata per pochi giorni sui giornali è lontano. Il mio corpicino. Loro. Tutto lontano.
“Scriveva per il Corriere. In prima pagina.”
“Sta parlando di un mio articolo scritto quindici anni fa?”
“Era giovane.”
Lui ha sorriso. “Ero un po’ più giovane.”
Spero che mia madre non si preoccupi. Ma no, ha smesso da un bel po’ di preoccuparsi. Vado a scuola. Oggi è giovedì pomeriggio. È diverso dalla domenica. Ma ho letto che lui era lì. Guardo il vetro che riflette anche il mio viso. Il viso della vergogna, per lungo tempo. Il viso che ora sono io, che devo essere io e che sarò io sempre di più. C’è stata anche l’assenza del viso, che è l’assenza dello sguardo sul viso, ma ora non c’è più nemmeno quell’assenza. Posso guardarmi negli occhi e pensare anche che non significhi niente. Sempre meglio di quello schifo che c’è fuori dal finestrino. Sempre meglio di quello schifo che c’è fuori.
Il treno entra in stazione e viene ingoiato dalla volta. Entriamo nelle viscere della metropoli. Anche io, come tanti altri. La sensazione di essere come tutti gli altri. Smaltire piano tutta quell’energia, quella forza, quel dolore. Il paradigma di Auschwitz che mi sono portata dietro come una condanna. Come hanno fatto i cronisti subito dopo Auschwitz? Avevano un’altra equivalente pietra di paragone? Avevano il prontuario della similitudine storica? Ci deve essere stato un precedente. C’è sempre. Un soldato russo entra per primo nel campo di concentramento. Vede strisciare qualcosa, dal buio, nel puzzo di morte e di escrementi. Il soldato russo guarda. Allora non avevano né voglia né tempo di chiamare uno scrittore dalla penna e dalla commozione facili per commentare un orrore. Si guardava. E poi si andava avanti. Poi, magari, si pensava. Ma soprattutto bisognava andare avanti, con il sorriso sulle labbra, la musica del dopoguerra, la gioia incontenibile della liberazione. Adesso invece andiamo avanti piano, camminiamo con la testa rivolta indietro. Fissiamo ostinatamente quello che ci accade, inciampiamo, sbagliamo strada, siamo lenti. E le cose, a furia di guardarle, hanno perso senso. Come l’articolo che posso ripetere parola per parola. “Quel corpicino mi ha ricordato le foto di Auschwitz. Ecco cosa c’era in quello scantinato: l’orrore. Lo sterminio di uno. Anzi, di una. Una testimone. Una bambina. Che non aveva colpe, e che si è fatta carico di tutte quelle della nostra società.” Noi entriamo ad Auschwitz e pensiamo: Che cosa mi ricorda?
La metropolitana, verso il centro. Una ragazza passa per il vagone con un bicchiere di plastica. Sarei potuta diventare, pur essendo italiana, una di queste zingare che chiedono soldi? E che differenza avrebbe fatto? Avrei avuto la sensazione di essere come tutti gli altri, anche se incarnata nell’infelicità, allo sbando. Invece mi hanno presa e tirata fuori. Qualcuno quella domenica ha sentito dei rumori dallo scantinato. Tra i cartoni, leggera e pesante come un pianto, c’ero io. Loro non c’erano più. Avevano lasciato su quei cartoni la prova della loro esistenza. E la prova della loro esistenza voleva farsi vedere. E per lungo tempo ho pensato che esistere era anche affermare che esistevano loro. Per lungo, lunghissimo tempo.
Il centro, così pulito. Anche la casa dove abito è pulita. La zona è tranquilla. Fuori città. Una zona di quelle dove sembra sempre domenica. Ma so che esiste anche l’immondezzaio, un luogo che invece non copre e non scopre nessuno, per quanto strilli. L’ultimo grido dell’immondezzaio è stato quel cassonetto innocente, quella ragazza magra. Ma è cronaca, non salvezza. Infatti non ricordo il suo nome.
“Una bambina, ritrovata ‘come uno scheletrino’, sono parole sue. In periferia. Io… Lei parlava di Auschwitz. Un fatto di cronaca. Quel corpo le aveva ricordato i lager. Si ricorda?”
Nel treno della metropolitana una ragazza leggeva un thriller, uno di quei gialli ambientati in tribunale. Testimone dell’accusa. Una cosa simile. Aveva la fronte corrucciata, l’aria intenta. Testimoni. È proprio così che si dice. Testimonianze. Davanti al tribunare del giornalismo, della letteratura. Dachau, Cernobyl’, qualsiasi altra cosa. Il telegiornale in cui intervistavano un pompiere dopo un incendio: parlava di una vampata che gli era passata sopra la testa e poi era scoppiato a piangere. Come un bambino. Ogni persona è un libro, e ogni libro è un Orfeo condannato a voltarsi centinaia di migliaia di volte. E l’uomo, anche l’uomo migliore, è Euridice, Medusa, un abbaglio. È proprio vero: l’uomo è luce. Una luce forte, insostenibile.
L’università. Il dibattito, seguito da un posto defilato. Lui, con la barba, una voce calda, i gesti sicuri. Non portava nemmeno gli occhiali. Dopo che ha firmato qualche libro, stretto le mani, sorriso agli sconosciuti, mi sono avvicinata.
“Parlava di Auschwitz e parlava di me. Insomma sono io.”
Il sorriso si è spento. Lui si è come pietrificato. E in quello sguardo, finalmente, ho visto il vuoto che ero.