MIO CUGINO FORSE NON SCENDE DALLA MACCHINA
Io sono una bambina semi-ragazza molto intelligente, tanto che nei temi prendevo sempre bravissima col punto esclamativo. Per questo apro gli occhi piano: per non svegliare nessuno, neanche me. In camera mia si fa la gara e il primo che si sveglia mentre gli altri dormono ancora ha perso. Se non si è svegliata nemmeno la mamma, che alla mattina è un grillo, hai perso anche la gara di domani. Si dice a tavolino. Da quest’anno, perde anche l’ultimo che rimane nel letto. Ieri mia sorella ha perso anche per oggi e se mi fermo a pensare a quanto soffice è il cuscino, quanto lisce sono le lenzuola, quanto morbido è il mio vecchio pigiama blu, che ho avuto in eredità, e visto che i miei piedi non si sono accorti di niente e stanno ancora dormendo, potrei, tranquilla, girarmi dall’altra parte. Ma il parchè scricchiola dei passi di mia sorella e qualcuno in giardino, secondo me uno dei maschi, ha già azionato la canna. Dalla scala sale il rumore delle stoviglie che mia madre suona insieme alla banda della cucina, quando all’appello della colazione manca qualcuno dei suoi. In questo caso io che, se non era per l’Alberto, sarei anche la piccola di casa. Ho un naso gigante solo perché l’ho rotto la settimana scorsa e tutti mi prendono in giro. L’Alberto è convinto che io abbia anche un pisello piccolissimo, e allora lo prendo in giro io, perché di bambine non ne sa niente. Qualcuno giù ride col nonno, è mio il nonno, avendo io più conchiglie dei mari del sud di tutti gli altri nipoti messi insieme. Quasi mi alzo. Il nonno nasconde le conchiglie negli scogli e io le trovo subito e le metto su una mensola., ne ho una ventina (18). I suoi amici dicevano che a Sanremo non si potevano trovare quelle conchiglie, ovvero grandi così e soprattutto rosa così, che assolutamente non potevano arrivare a nuoto dai mari del sud come sapevo invece io. Fatto sta che il babbo mi ha spiegato che il nonno le compra e le nasconde per me. La faccenda non si è ancora chiarita ad alta voce, ma io continuo a trovarne. Quando sono l’ultima a svegliarsi, mi piace sedermi in un angolo della scala, all’altezza dell’aquilone e del lampadario di cristallo, e guardarli da qui. Quella dell’aquilone appeso è una battaglia contro il lampadario di cristallo della nonna che abbiamo vinto noi. Il nonno invece non ha ancora del tutto vinto la battaglia del suo albero nel camino. Gli piace prendere un tronco intero di un albero e infilarlo nella bocca del camino, poi mette certi seggiolini, i nostri, a sostenerlo. Il fatto è che, a metà del tronco, c’è il divano di velluto bordò, e siccome il tronco non si può mica deviare, devia il divano. A poco a poco il tronco brucia , i seggiolini diminuiscono, il divano ritrova la sua posizione, e a tavola le mamme ricominciano a parlare col nonno come se non è successo niente. Fino al prossimo tronco.
Oggi è, mi sembra, il 12 di agosto, e del tronco non c’è traccia. Davanti al divano vedo il tavolino di ciliegio per appoggiarci i piedi, ma al momento no: mio cugino Giò ci ha piantato dentro un centinaio di chiodi, e il nonno non è ancora passato a toglierli con la pinza. Questo era nei patti. Giò ha il permesso di girare con martello e chiodi e conficcarli dove meglio crede solo se il nonno li andrà poi a strappare: sono ammessi solo i buchi. E’ assolutamente vietato piantare chiodi sulle persone, specie se piccole e femmine, cioè specie su di me, e sugli animali. Nessuno ha ancora scoperto le lucertole inchiodate nel bosco. Perché nessuno, a parte uno col martello appeso alla cintura, va mai nel bosco, da quando le erbacce hanno deciso di ritrovarsi al campo di bocce, quindi da quando il campo da bocce non c’è più e abbiamo ripiegato sul ping pong. Io gioco poco, primo perché mio fratello è più forte, secondo perché si inventa le regole, terzo perché non mi vogliono. Ma adesso aspettano solo me. Le decorazioni sono il mio mondo. Primo perché sono l’artista numero tre di casa, secondo perché non mi va mai bene niente e poi le cose vanno per le lunghe, anche se veramente non mi è mai piaciuto andare per le lunghe. A me piace discutere. La mamma dice che sono precipitosa, ovvero una che decide di disegnare foglie e fiori e ricciolini verdi quando invece dovrebbe andare a prendere l’acqua alla fontana. E io sono molto orgogliosa di essere una precipitosa, nessuna mia amica lo è, precipitosa come nella canzone precipitevolissimevolmente, è questa la canzone della luna, che gira gira gira e chi lo sa, per il primo che l’acchiapperà. Ti immagini, acchiappare la luna come una lucciola, metterla in un bicchiere sul comodino per non avere mai paura. Da grande voglio scrivere canzoni, perché cantarle è molto più difficile. Le mie canzoni preferite in italiano sono “io domando dove porta l’altalena della vita” e ” vorrei offrirti una bambola rosa”, poi tutto Frenk Sinatra e un po’ Edit Piaf . Mio padre canta benissimo delle canzoni in tedesco che non si capisce mai di cosa parlano. E’ bravissimo mio padre, ha i baffi e le gelatine al lampone nelle tasche. Ride, quando canta e noi lo ascoltiamo, allarga le braccia e piega un po’ la testa. L’artista numero uno di casa mi ha appena vista seduta sulla scala e con gli occhi mi consiglia di scendere prima che la mamma diventa rossa e enorme. Prima che si arrabbia. Mia zia, seduta per terra, è intenta, cioè occupata, a ritagliare nel cartoncino formine di piedi. So già cosa farà poi: le riempirà di farina, uno strato sottilissimo che si chiama impalpabile, e poi farà passeggiare questi piedini bianchi per la casa. A prima vista, e fino a prova contraria, sono le orme di Gesù Bambino . Quasi tutte le notti viene a farsi un giretto a casa nostra, rovescia il latte sul tavolo, mangia qualche biscotto di quelli a righine, Gesù Bambino mangia dopo cena!, e mette sempre i piedi sui cuscini della sala, cosa che invece è vietatissima a noi soprattutto quando piove. A volte, come in questo caso, Gesù capita anche di giorno, lontano da occhi indiscreti, cioè se i bambini sono giù al pullman a giocare ai viaggi. Perché noi abbiamo un pullman, precisamente l’autobus numero 56, carrozzeria varesine, motore alfa romeo 800, in fondo al giardino, e c’è anche un cartello dipinto sempre dall’artista numero uno di casa che il nonno suo padre ha impiantato nel prato, con scritto: avanti c’è posto. Per forza, siamo neanche dieci. Uno, il conducente, si mette alla guida, gira il volante e parla con gli altri. In certi casi può anche sparare alle femmine sedute dietro, che sono a quel punto autorizzate a sganciare le bombe che tengono nella borsetta, vicino ai fazzoletti ricamati. Io ho una emme con una coroncina di fiori gialli. I pedali si schiacciavano all’inizio, ora ogni tanto, se magari sul sedile sono in due e mentre uno tiene la strada, l’altro, chiamato il secondo pilota, si abbassa. Non mi ricordo di aver mai visto Giò alla guida, e spesso scende prima di essere partiti. La mamma dice che Giò bisogna distrarlo. Nel pullman, di fianco all’autista, c’è un microfono ma da anni è vietato per me cantarci dentro e non ci provo più, Giò invece continua a dire: ed ecco a voi Claudio Cicchetto e poi se ne va.
Il momento più divertente e’ quando si sale e si saluta l’autista, buongiorno signora, buongiorno signor, si chiede la rotta del viaggio e poi si sceglie il proprio posto. Il viaggio è abbastanza noioso. Quindi è tutto un saliescendi e un arrivederciegrazie, e non andiamo mai da nessuna parte, tranne quando il nonno ci porta in Svizzera, che è un paese neutrale in cui si arriva a piedi da casa mia al lago. Neutrale significa che durante la guerra molte famiglie di ebrei perseguitati scappavano in Svizzera attraverso il bosco e, se arrivavano ancora con la luce del giorno, il nonno li nascondeva prima nel pollaio. Mio padre si ricorda di una signora grassa con il cappello con la veletta, una bambina con le trecce tipo Mercoledì e un marito con gli occhiali di Camillo Benso, il conte di Cavour, che aspettavano nel pollaio e sono arrivati i tedeschi ma non li hanno visti. Altrimenti oggi non saremmo qui. Da grande voglio fare la missionaria, perché fare la suora è molto più difficile, primo perché non si viaggia mai, a parte i santuari e le gite. Quanto a Gesù, non riesco mai a capire come può essere la stessa persona Gesù Bambino, Gesù semplice senza cognome, il Signore Gesù, e anche Cristo quando la mamma grida. Il nonno dice che la mamma è contenta, ma come una farfalla. Se guardi bene le farfalle, e io lo faccio sempre perché dopo i koala sono il mio animale raro preferito, ti accorgi che sono completamente pazze. Volano in alto e in basso, ma anche da destra a sinistra, e quando si posano sembra sempre che non sanno dove andare dopo o che non sono contente di dove sono state. Ma sono felici del cielo.
A casa certe volte, invece, viene a trovarci Babbo Natale, che ha i piedi più grossi del Bambino Gesù, perde una specie di paglia, dicono che sia il cibo che mangiano le renne, e porta degli scarponi con la suola divisa in due pezzi. Due cartoncini, io ora lo so. Che non esistono, intendo. Giò non lo ammette mai.
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Il dottore dice proviamo ad assecondarlo ed eccoci qua. Il babbo dice Giò ha bisogno di figure positive. Gli piacciono primo i pagliacci, secondo i Rokets, terzo il Natale con i suoi personaggi. Per un po’ siamo andati al circo: ho la foto di me insieme a una scimmia con le scarpe uguali alle mie, cioè rosse col laccetto, e la foto di me sull’elefantessa del circo Medrano, che è più piccolo dell’Orfei ma ha la segatura uguale spiaccicata. Sono stata anche truccata da Jack La Cayen, quello che mangia le tazzine. Se le mette tutte nella bocca, giuro. Giò una volta ha scavalcato il bordo ed è corso a braccia apertissime in mezzo alla pista gridando Pagliaccio! al pagliaccio che non sapeva cosa fare o dire e si dimenticava di fare il pagliaccio, soprattutto quando lui gli si è appeso seriamente a una gamba. Abbiamo smesso col circo.
I Rokets non so se sono proprio una figura positiva, c’è di buono che sono d’argento. Giò ha la maschera dei Rokets, la tiene sotto al cuscino e quando se la mette e poi si vede in uno specchio del corridoio si spaventa. Mio fratello è Zorro, ha lo spadino per farci dei lividi, mia sorella è un coniglio bellissimo e io Anna Bolena, perché il babbo è appassionato di storia e quindi io purtroppo nella vita non sono mai stata una Colombina.
Sul Natale invece siamo tutti d’accordo, ci piace molto. La mamma dice che abbiamo una casa piena di ciaffi, che sono oggetti tipo una sega, uno zoccolo olandese, un portacenere a forma di testa di diavolo, quindi l’albero sul terrazzo con gli angiolini di legno è il meno. Così questa mattina, come ogni giorno, per noi è Natale e per me è ora di scendere dalla scala. Il babbo ha già colto le ortensie per il centrotavola, che devo fare io che mi ero presa l’impegno, e qualche rosa, e le ha appoggiate sul tavolo fuori. Questo perché vicine al lago le ortensie pullulano, mentre le rose sono più proibite, così come fare mazzi di fiori sul tavolo della sala.
All’inizio inizio dell’assecondamento, erano proprio Natali natali: i piatti di oro zecchino, le posate pesanti, i bicchieri sottili, i ravioli e l’arrosto. Oggi, che è uno di quei natali normali, senza regali, con le orme del Bambino, ma non si dice mai buon natale, in cucina hanno preparato le polpette per me e le patate di sogno secondo me per mio fratello. Voglio chiarire che le patate fritte a casa mia sono di tre tipi: a fiammifero, a dadini, e di sogno, cioè tagliate quasi come le patatine dei pacchetti. La mamma dice patate di sogno per il quieto vivere.
Non bisogna dire troppo in giro che oggi e domani e magari dopo è Natale, sono questioni di famiglia, e se lo diciamo in giro, sono questioni di bambini. Al Natale di gala del 25 dicembre, invece, c’erano centinaia di invitati, ma neanche un fata e neanche un gigante. Giò ha ricevuto una moto verde, l’ha guidata in mutande su per la scala dell’orto e si è molto sbucciato senza piangere. Quel giorno le orme delle renne arrivavano fino al ciliegio e poi sparivano, primo perché si perdevano nella neve, secondo perché le renne sanno volare. Io ho la moto bianca da competizione cross e ho bruciato l’Alberto con la marmitta, perché la ghiaia è scivolosa di sassi e sono scivolata davanti al cancello ma anche davanti a mio papà (ex pilota). L’Alberto ha tagliato la testa alle mie barbie solo perché il nonno gli aveva insegnato come fare con i polli, e il bollo che gli ho fatto sulla gamba, dice, non c’entrava niente.
Oggi dopo pranzo andiamo tutti a festeggiare il Natale dei giorni qualsiasi all’Alpe Tedesco, che è la nostra gita preferita, anche se Giò forse non scende dalla macchina. Qualche volta scende, e striscia i piedi per non staccarli da terra e si appoggia alla portiera. Dice che nella montagna vive un diavolo zoppico ma, veramente per essere sinceri, non l’abbiamo visto mai. Da piccola credevo che nella casa verde abitava un mostro di nome Catagno, e mio fratello una volta l’ha visto e me l’ha anche detto. Si è preso due dita dal papà. Adesso lì ci abita il figlio di una signora, quello che ha appiccato il fuoco nel bosco. I cerini ce li aveva Giò nella tasca. Un vicino è andato arrabbiato dal nonno che stava parlando con Giò, e gli ha detto telchì lo scemo della Vignazza, che è il nome della collina di casa nostra dove una volta erano tutte vigne. Il nonno gli ha spaccato la bocca con uno schiaffo, perché è forte anche se è molto magro. Da giovane era commendatore medaglia d’oro, adesso è solo il nostro nonno e io so che ha una malattia. Porta gli occhiali con i luccichini neri, che erano della zia e funzionano ancora, e gli dispiace quando ci laviamo. Dice che puliti puzziamo di droghiere, soprattutto io. Allora non mi sono lavata da giovedì e profumo solo di cloro. Noi in famiglia non siamo gente che fa i tuffi a bomba, perché abbiamo il trampolino a ala di gabbiano. In più, in piscina non possiamo fare la pipì, perché un liquido chimico la trasforma in un serpente blu sotto gli occhi specialmente degli ospiti.
Abbiamo provato tante volte a far comparire questo particolare tipo di serpente, e ci siamo piano piano stufati prima tutti e poi io. Invece nella mia vita sono sempre rimasta appassionata di mazzi di fiori: colgo le margherite più rosa, gli taglio la testa e le infilo una per volta nel gambo della margherita più lunga che riesco a trovare. Senza gambo non possono bere l’acqua e muoiono subito, ma per un’ora sono bellissime, come le ortensie quando il mio cane ridendo le strappa e finiscono per caso a galleggiare in piscina. O come quelle anatre che una volta hanno fatto il bagno insieme alla mia mamma che nuotava a rana. Queste oggi sono le mie opzioni di bellezza, e ne devo scartare una per non confondermi. Scarto le anatre, e metto nel vaso i fiori blu e le rose bianche macchiate di verde chiaro, mancano solo le bacche rosse dell’aster per fare proprio natale, ma forse non se ne accorge nessuno tranne uno. Il nonno suona veloce la campana che vuol dire a tavola tutti e subito. Li sento arrivare, sono la mia famiglia proprio come nella canzone “io sono la vite e voi siete i tralci miei”, e li riconosco ognuno dai suoi passi: il papà con gli zoccoli era in terrazza, i miei cugini correvano a piedi nudi e silenziosi giù dalla scala dell’orto, mia sorella apriva lenta il cancello con in mano la brocca dipinta “bevi amore”, i grandi donne tintinnavano la tavola, mio fratello invece è ancora appeso al trapezio appeso al noce. Giò, in canottiera a righe bianche e blu, è già seduto a capotavola. Gli sorrido dalla finestra e penso, sottovoce, Buon Natale in agosto a te, scusami se non ho trovato quelle bacche.
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Cinque mesi dopo aver dato quello schiaffo in difesa del piromane di casa, e due giorni prima del mio decimo compleanno, il nonno è morto: ero dal dentista quando la mamma me l’ha detto così, senza giri di parole come fanno le mamme. L’apparecchio mobile è di nuovo rotto per colpa mia, il canino sinistro non vuole saperne di arretrare, né l’arcata superiore si decide a vestibolarizzare correttamente, che a tutt’oggi non so bene cosa significhi nonostante il mio sorriso sia impeccabile, e mio nonno è morto, bisogna partire subito. Se ci ripenso, al suo funerale eravamo tutti occupati a fare i grandi per far piacere ai grandi, tranne Giò che, come sempre, interpretava se stesso. L’ho visto allontanarsi dalle chiacchiere dei presenti, impegnati a ricordare quello che per noi era ancora ieri, era ancora maglioni a righe e pomodori da cogliere e pulire con la manica di una felpa, e prendere una scala di quelle alte per salire fino alla tomba del nonno, l’ultima della fila e la più vicina al cielo. Ha fissato a lungo la parete di mattoni appena posati e, a quel punto lo fissavamo tutti, ha bussato una, due, tre volte. Poi lo ha chiamato, ma piano. E anche noi, ma in silenzio. Quel giorno Giò ha fatto quello che noi avevamo deciso di non poter fare più: forse eravamo diventati grandi davvero, dentro ai nostri loden blu. Di fianco a Giò, ma non insieme a lui, come sarebbe stato per molti passi della nostra traballante vita a venire.
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Avrebbe voluto il lago, per la sua festa di compleanno, i fuochi d’artificio, il falò, la grigliata e le sue ali da angelo. Mia sorella, l’artista numero due di casa, l’ha convinto, e lui si è trovato immediatamente d’accordo, come se si trattasse dell’unica spiegazione possibile alle sue perplessità, di essere un angelo. In incognito. Gli ha spiegato che la gente spesso lo tratta male, perché non può riconoscerlo né capirlo. E lui prosegue imperterrito nel tentativo di fare del bene, facendo attraversare la strada a presunte vecchiette di cinquant’anni o impossessandosi delle borse della spesa di ignari passanti o regalandomi tazze di Minnie o suonando le campane in chiesa e specialmente pregando per noi. I nonni lo hanno visto assumere posizioni da santo davanti allo specchio: erano prove casalinghe di benedizione. Del resto, porta con sé i segni di un passato ancora più sfolgorante, misticamente parlando. Nelle recite natalizie della sua scuola ha da sempre interpretato Gesù Bambino, per via degli occhi azzurri e dei riccioli biondi: un bimbo salvatore di 80 chili e con gli occhiali da miope per guardare da vicino chi avesse eventualmente bisogno di lui. Un giorno gli hanno trovato nella tasca del cappotto lo scontrino, sospetto, di una farmacia. Aveva incontrato una prostituta, ha chiarito poi, terrorizzandoci. Mentre lei cercava di adescarlo, Giò sapeva, le regole del cuor suo sono ferree, di non poterle assolutamente dare del denaro. Ma se quella signorina di paillettes chiedeva dei soldi proprio a lui, che ne aveva in tasca solo qualche pezzo, pezzi li chiama, perché non conosce i numeri, significava che ne aveva realmente bisogno. Così, dopo essersi fatto un’idea del problema, si è diretto sereno verso la farmacia e ne è uscito con in una mano lo scontrino dello scompiglio e nell’altra una scatola di tampax.
Quanto alla sua festa, ci siamo arenati a metà lista degli invitati. Alcune persone gli fanno paura, di altri ha un ricordo lontanissimo ma preciso. Non siamo ancora riusciti a capire chi fosse quel tale con la Ferrari che voleva assolutamente invitare. Ma da tempo abbiamo dato un nome al martello, ai silenzi, ai piedi trascinati, all’aggressività, ai cerini e alla calma ansiogena che ne è seguita: autismo, in una delle sue svariate forme, unito a ritardo mentale. E mentre scrivo questo di lui, ogni parola pesa e mi guarda. Allora lo abbraccio, e Giò si irrigidisce voltando la testa da un’altra parte. Lo chiamano, tecnicamente, lo sguardo del principe. Ma spesso ho visto il principe fissarmi le tette, ridere cercando di toccarmele e facendo finta che la mano non fosse assolutamente la sua, ma una mano scivolata lì per caso o per il frullar distratto delle ali di una farfalla nel Chaco. (Il Chaco è la regione della Patagonia in cui, secondo mio nonno, sua figlia è andata a vivere dopo la morte, quindi sappiamo tutti dove si trovi esattamente).
Mia madre che, curiosamente, per Giò rappresenta l’autorità, saranno i capelli biondo platino, saranno i mille gioielli, gli ha regalato un pappagallo di peluche che ripete le parole. E mi ricordo una notte di Natale, quello ufficiale, non uno dei nostri natali segreti, in cui nel silenzio della chiesa si è sentito distintamente cantare “amore fai presto, io non resisto”. Giò aveva istruito per bene il suo pappagallo parlante, gli è sempre piaciuta la Vanoni.
Un luminare della neuropsichiatria, a Parigi, ha cercato di riportare Giò a una condizione di coscienza prenatale, riproducendo i suoni della placenta materna dove, forse, era avvenuto il trauma. Suo fratello Alberto, che lo aveva accompagnato e partecipava anche lui all’esperimento, mi ha raccontato che quei suoni lo rendevano capace di creare strutture impensabili, come un enorme castello di carte che avrebbe potuto resistere a una tempesta. Giò invece ha fischiettato O sole mio, con le mani incrociate salde dietro alla schiena.
In tasca gli trovo minuscole calze, le hanno perse i bambini, mi racconta beato. Quando è nata la sua sorellina più piccola mi ha assicurato che sarebbe rimasta in ospedale circa un anno perché, a guardarla da vicino, era troppo piccola per andarsene a casa. Credevo non si sarebbe mai più ripreso dalla crisi dei capelli. Se li era tagliati da solo, e ho fatto una puttanata, ripeteva, non si può più tornare indietro. Per mesi si è toccato la testa dondolandosi. Non riusciva a scusarsi. Poi, così come era venuta, la crisi è passata, anche se lui, forse per non cadere in tentazione, ma anche per un qualsiasi altro dei suoi validi motivi, tiene i ricci più corti. Fino a qualche tempo fa girava, forsennato, in bici per Milano. Ora viaggia in tram, assorto sulle panche di legno del numero tre, per via dei suoi problemi, dice, gli stessi che gli impediscono di avere amici. Una fidanzata, però, ce l’ha da anni. Si chiama Susanna e non l’abbiamo mai vista, ma so che le piace ballare e che il sabato vanno insieme a mangiare un hamburgher in piazza Duomo. Da grande Giò vorrebbe avere una famiglia e mantenerla lavorando come barista, specializzato nella preparazione del caffè. Tempo fa una cooperativa l’aveva assunto e non riesco a ricordarmelo più felice, col grembiule addosso e la bici appoggiata al muro d’ingresso. Preparava centinaia di caffè gratis e nel fondo della tazzina galleggiava il suo sorriso da stregatto. Quella è stata la sua età dell’oro, prima che davanti alla bocciofila venissero piantate palme in plastica e Giò fosse allontanato a passi di salsa dal suo agognato impiego di sposta-casse con abilitazione parziale alla macchinetta del caffè.
Alla fine, riguardo alla festa di compleanno, si è deciso per un pranzo in casa, 10 gli sceltissimi invitati, che hanno regalato uno zaino, un finto gatto accoccolato in pelliccia, una camicia di jeans e una fetta di mortadella gigante. Mio padre: mio padre ha ordinato una di quelle torte maestose di panna e meringa, gli zuccherini a fiori azzurri. Ha espressamente richiesto alla pasticcera di trovare un angelo, sempre in onore di chi esercita la professione in incognito, da posizionare in cima alla torta ma, perlomeno a casa mia, il destino è sempre in agguato. Scartate le immagini dei pokemon, del milan e, col senno di poi, non voglio sapere di che altro, mio padre ha convenuto che il soggetto a disposizione più simile ad un angelo fosse Martina Colombari, come in quei giochi di associazioni mentali che facevamo noi da piccoli. Si partiva da un melo e si arrivava saltellando su un piede solo a Okinawa: così abbiamo festeggiato i 30 anni di Giò tagliando le tette rifatte di un’ignara soubrette, adagiata tuttanuda tra le volute di panna, come un fuoco d’artificio sulla tovaglia in fiandra della mamma. Della Colombari ho scelto di mangiare il gomito, perché c’erano attaccate due meringhe. E non potrò mai più guardarla alla televisione intenta a rispondere alle domande dei cronisti del pomeriggio, quelli che ti chiedono cosa è per te lo charme, e se la bellezza all’inizio aiuta, senza pensare a quanto le vie dell’affetto siano, perlomeno a casa mia, insondabili.
Questi non sono i segreti di Giò, ma solo un quadretto, appeso storto, di quello che io so di lui. Alberto negherà quella faccenda del mio piccolissimo pisello, e chi vive quotidianamente con Giò sa che l’evolversi della malattia è stato molto più doloroso di quanto ho raccontato, così come le reazioni di ognuno di noi sono state più scomposte e devastanti. Insieme a lui, tutti i giorni sono da riempire e affrontare e spesso da ricostruire. Ma detesto la parola diverso, è come dire speciale tra virgolette. Giò per me è, né più né meno, un pric, per usare una parola che ricordo di aver visto scritta in conclusione ad una sua lettera a Babbo Natale. Stanco di non vederlo apparire di persona, nonostante le quotidiane orme di farina e i segni inequivocabili del suo passaggio notturno, Giò ha richiesto ufficialmente la sua presenza, insieme ad un galeone playmobil e ad una bacheca di legno di 4 metri per 44, firmandosi questa volta con nome e cognome, e aggiungendo in calce una formula precisa: Pric. Nessuno di noi ha mai saputo da Giò cosa significasse quel suono scritto, nè ha mai completamente decifrato il codice segreto che regolava i suoi rapporti con Babbo Natale e con la vita.
Pric.