Devo confessarvi una cosa: l’idea di fare un numero di ‘tina composto di brevi saggi mi è venuta da un articolo che mi aveva inviato Ivan Carozzi, un giornalista di provincia che non conoscevo (né conosco tuttora). Il pezzo era un reportage di un suo viaggio all’interno della comunità raeliana, culminato con un’intervista al capo della setta, Rael, in persona. Quell’articolo è stato poi ampliato ed è diventato un libro vero e proprio, intitolato “Figli delle stelle”. Per un po’ io e Ivan abbiamo discusso via mail se pubblicare un frammento di quel volume in questo numero, ma poiché nel frattempo il libro è stato pubblicato, abbiamo scartato l’ipotesi e lui ha scritto (in esclusiva!) per ‘tina un altro breve e divertente resoconto: l’incontro con un onorevole del Parlamento italiano che si diletta di poesia.
LA NUOVA POESIA ITALIANA
Un minuto con Sandro Bondi
‘Pronto?’,
‘Si, sono io…’
‘Ah, dimmi…’
‘A proposito di Sandro Bondi…’
‘Eh…’
‘Vado io?’
‘No, penso proprio di no. Abbiamo già assegnato il servizio…’
‘A chi?’
‘Adesso non mi ricordo, ma è già stato assegnato’
‘Allora niente da fare…’
‘Esatto. Niente da fare…’
‘Capisco. Altro?’
‘No, oggi mi pare di no. C’è Rutelli al Teatro Guglielmi, ma credo che il servizio sia già stato assegnato…’
‘Anche quello. Quindi?’
‘Quindi adesso sono in audioconferenza con Firenze, quindi ti mollo, ciao’
‘Va bene, ciao. Magari…’
Mi occupo delle notizie più lievi e sottili, impalpabili, notizie che fluttuano nello spazio breve della mattina, sorseggiate nei bar, prestissimo dimenticate, senza alcuna significativa importanza, scintille che risplendono un solo istante nell’incendio permanente dell’informazione. Brevi di cronaca, notizie leggere, fatterelli. Niente Rutelli, niente Bondi. Di rado mi occupo di cronaca politica: non è esattamente nelle mie corde. Vengo pagato sei euro lordi per un pezzo sopra le duemilacinquecento battute, quattro euro lordi per un pezzo sotto le duemilacinquecento battute, come questo…
‘Massa- Un’ombra ha attraversato il sole, ieri mattina alle 11 e 31 esatte. Si è trattato del noto fenomeno astronomico secondo il quale la luna viene a interporsi fra il nostro pianeta ed il sole, oscurandolo parzialmente. Ad osservarlo il ‘Gruppo Astrofili’ che ha piazzato un telescopio ‘Celestron C8′ su di uno dei bastioni del Castello Malaspina. Presenti anche i bambini di quarta e quinta delle scuole elementari ‘Villette B’. Prima dell’eclissi è stata tenuta una lezione che ha ripercorso la storia dell’osservazione scientifica degli astri, dalle teorie di Platone fino ad Albert Einstein, di cui uno dei bambini ha sostenuto di essere il cugino. Intorno alle undici e mezza le due classi hanno raggiunto il telescopio e hanno indossato degli occhiali realizzati con pellicola di Mylar. Purtroppo, il fitto addensamento di formazioni nuvolose ha impedito di godere a pieno dello spettacolo. Il punto di massima estensione dell’ombra si è toccato intorno alle dodici e trenta, e allora i bambini hanno fatto ‘…Ohhh, che meraviglia!’. Trattandosi di una eclissi soltanto parziale, l’ombra proiettata ha coperto il sole per una superficie pari al 52% di quella complessiva. Gli appuntamenti degli astrofili riprenderanno nel mese di maggio, quando ci si dedicherà alla serena contemplazione dei formidabili anelli di Saturno. La prossima eclissi totale, visibile dall’Italia, è invece prevista per il 3 dicembre 2719’.
Mancano diciotto giorni alle ELEZIONI POLITICHE 2006. Da una parte l’intero laboratorio politico italiano in fermento, risucchiato nel gorgo televisivo, fuori controllo, dall’altra la notizia di un bambino scomparso, Tommy, del padre che non si rade da settimane, che fuma migliaia di sigarette, che ostenta una piccola croce di legno al collo e che ha un hard disk saturato da un lubrico mistero. Qui, nella città dove abito, invece, da qualche giorno circola una notizia, una grande notizia orlata di luce. Oggi arriverà Sandro Bondi, l’ex portavoce di Silvio Berlusconi, il predecessore di Paolo Bonaiuti, adesso coordinatore dei parlamentari azzurri, per un appuntamento di campagna elettorale. Arriverà a bordo di un’auto blu, immagino, e arriverà verso le cinque pomeridiane, così dicevano i volantini piovuti per le strade del centro, appoggiati sulle mensole dei bar, accartocciati nei cestini, schiacciati fra la polvere dei tergicristalli1, arriverà nel cuore urbano della mia città, una grande piazza attorniata da alberi d’arancio, raggiungerà Palazzo Ducale, sede degli uffici della Provincia, della Prefettura, un edificio cinquecentesco tutto dipinto di rosso, in quanto il rosso era il colore araldico della famiglia che qui un tempo molto lontano regnava, i Cybo Malaspina. Telefono di nuovo, nel mattino accecato dal sole, la primavera ancora rappresa nei dettagli, al mio capo redattore. ‘Te l’ho già detto, il servizio l’abbiamo già passato a un altro‘.
A metà pomeriggio pedalo sulla mia bici per le strade del centro, lasciandomi alle spalle il monolite di granito del Comune, i palazzi anni ’60, un tempo orribili, adesso quasi gradevoli, le macchine in doppia fila, le donne di trent’anni davanti alle vetrine, col passeggino, gli occhi imbozzolati nel sogno appena dischiuso delle collezioni primavera-estate, e arrivo fra i marmi sconnessi e le piccole arance cadute a terra di Piazza Aranci. Anche se non sarò io a scrivere l’articolo, pazienza, non voglio perdermelo Bondi, sono libero, non ho impegni, ho già scritto il mio pezzo della giornata, una bombola di gas esplosa in una rosticceria, ho visto una vetrina in frantumi, i manicaretti carbonizzati, ho intervistato il titolare che mi ha detto, con le lacrime agli occhi, ‘Che disastro, dovrò rifare tutto da capo, accendere un mutuo che mi toglierà il sonno‘, e ora voglio guardare da vicino, molto vicino, quest’uomo laureato in filosofia, pacato, ben educato, distinto, voglio sperimentare un’autentica illusione di contatto con la sua aura rosata, e cardinalizia, com’è stato scritto e ripetuto più volte sui giornali.
Lascio la bici sul marciapiede, la lego al palo di un’insegna, cammino attraverso un passaggio coperto ed entro nella corte interna di Palazzo Ducale. Ci sono uomini appiccicati ai loro cellulari, che camminano in cerchio, tracciando delle ellissi sull’acciottolato in marmo della pavimentazione cinquecentesca. Ci sono i giornalisti, i cameraman di alcune tv locali, alcuni uomini di seconda fila di Forza Italia, qualche militante. Parlano a coppie, si scambiano informazioni, notizie di prima e di seconda mano, il mormorio eccitato che precede l’arrivo di un uomo molto potente e conosciuto. Dopo qualche minuto sbucano un paio di auto blu, le famose auto blu, con il filo d’acciaio delle antenne che oscilla sul cofano. Parcheggiano. Otto portiere che si aprono e richiudono nella preziosa bolla acustica del loggiato rinascimentale. Dalla macchina esce un uomo della scorta, basso, tarchiato, un paio di occhiali scuri rettangolari, un filo di basette. A ruota emerge il candidato Bondi, con un sorriso largo che mette in movimento i cameraman, i giornalisti. Mi avvicino, l’uomo della scorta mi punta e muove un passo nella mia direzione. Intorno a Bondi prendono forma un paio di registratori e di telecamere a spalla; ascoltiamo, come un segno d’interpunzione, il brusio elettrico degli obbiettivi che cercano il fuoco e aggiustano l’inquadratura. Uno dei giornalisti gli domanda che cosa ne pensi del caso Storace. Bondi, completo blu scuro, cravatta verde chiaro con fantasia di minuti disegni geometrici, tace, resta come appisolato in un silenzio dorato. Osservo la superficie rotonda del volto, liscia, burrosa. Una maschera di glicerina che potrebbe guastarsi con qualche colpo di cucchiaio. Chiede se il ragazzo possa spegnere il registratore e lasciargli un po’ di tempo per riflettere. Annusa l’aria, quest’aria fredda che adesso profuma di colonia, l’odore dell’onorevole, della sua pelle glabra, che anch’io posso inalare, in profondità, stretto fra il microfono e l’obbiettivo della telecamera. Sandro Bondi, laureato con una tesi su Leonardo Velazzana, predicatore agostiniano avversario di Savonarola, è stato Sindaco comunista di un paesino a pochi chilometri da qui, Fivizzano, ed è stato anche un agente mandatario Unipol. Nei primi anni ’90, attraverso lo scultore Pietro Cascella, conosce Silvio Berlusconi, di cui diventa portavoce, di cui diventa l’estensore del libricino agiografico ‘Una storia italiana’, con una fotografia di Silvio e Pier Silvio Berlusconi insieme a Sylvester Stallone, distribuito in milioni di copie e infilato sotto milioni di zerbini di milioni di case italiane. Adesso, dodici anni dopo, non sa esattamente che cosa rispondere alla domanda del giornalista. Che cos’è questa rogna del caso Storace, delle intercettazioni telefoniche? Che cosa può dire, ancora, al riguardo? Fruga nell’etere, in cerca di un’idea, di un’agenzia da rubare e riutilizzare. Forse è stanco, logorato dagli affondi della campagna elettorale. Da settimane cammina dentro dispacci d’agenzia, il suo nome rimbalza in articoli di giornali che lo infangano, e lui sprofonda nella sua auto circondato dagli uomini della scorta, ossessionato dal cellulare che vibra senza sosta nella sua giacca di seta battuta. ‘L’apocalisse elettorale’, il titolo dell’editoriale di oggi sul Corriere; ‘La politica della paura’, quello di Giuseppe D’avanzo su Repubblica. Siamo inghiottiti nel buco nero della sua impasse momentanea, passano decine di secondi, il registratore, in pausa, resta sospeso a mezz’aria, come un insetto. Un militante DS, una vecchia conoscenza, gli si fa incontro e lo bacia sulla guancia. Bondi accenna un sorriso ecumenico, il suo volto sembra affiorare da secoli di pittura religiosa italiana, una reincarnazione di antichi e venerandi tratti somatici, la stessa combinazione di astuzia e bonomia che ha già scolpito lo sguardo di molti uomini illustri del passato. ‘Preferirei non rispondere, per il momento’, dice, la voce sottile e velata, come se avesse uno zufolo fra le labbra. C’incolonniamo alle sue spalle e lo seguiamo lungo la rampa di scale che monta verso la Sala della Resistenza, il salone dove si terrà l’incontro di campagna elettorale. Gente, poca. Qualche signora in pelliccia, ‘Le quote rosa’, come le definisce ammiccando una carica provinciale, molti signori in completo blu notte, con quelle cravatte intense, dal nodo forte, pura allure ‘Regimental’, e tre giovani, forse quattro, come incellofanati. C’è un altro ragazzo, tutto muscoli e steroidi, duro, imberbe, strizzato dentro la giacca a tre bottoni, i capelli lucidi pettinati all’indietro, sul bicipite una fascia azzurra con il simbolo di Forza Italia. E’ una specie di avanguardista, la faccia scolpita in blocchi diversi, dinamica, come un ritratto di Umberto Boccioni. E’ l’unico a restare in piedi, a vigilare la scena. Io mi siedo piuttosto defilato, sotto un grande bassorilievo di marmo, dove ci sono uomini, donne e bambini, che scendono verso valle lungo un dirupo delle Alpi Apuane. Sono cavatori col fazzoletto al collo, donne dal seno prosperoso, piccole vedette partigiane vestite di stracci.
Dietro il tavolo, dietro i microfoni e le bottiglie di minerale, si siedono, oltre a Bondi, il senatore Massimo Baldini, il professor Giuseppe Benelli, candidato alla Camera, l’avvocato Umberto Martini e Stefano Fontanelli, condidati al Senato, il coordinatore regionale Denis Verdini, quello provinciale Silvio Vita e la responsabile ‘Azzurro Donna’ Eleonora Sparapani. L’abbrivio è del coordinatore provinciale Silvio Vita, scheletrico, con un paio di pesanti occhiali da vista, avvolto nel suo intramontabile loden verde che, in mezzo a tanta ostentata eleganza, gli conferisce un’aura spartana che alla fine gli fa un certo onore, il crisma di una politica vecchio stile, tutta piazza, sezioni, attacchinaggio notturno, epica anni ’70, fasci contro compagni, un mondo distante anni luce dalla politica di oggi, un’intera galassia rotolata all’indietro, respinta lontano e cancellata via dal mondo nuovo nato dalle macerie fumanti della guerra fredda. Vita si dice entusiasta della crescente presenza giovanile, delle energie fresche, pimpanti, che starebbero confluendo nel partito locale, se pure sia platealmente smentito, in tempo reale, dal fatto che nella sala, di belle speranze, ce ne siano appunto tre, forse quattro. La parola, il gioco retorico, sono più efficaci e potenti di qualsiasi realtà osservabile, gettano un’ombra che oscura le cose, eclissandole, o una luce che batte troppo intensamente sugli oggetti. E’ ad Andrea Antola, uno di questi giovani, che Vita passa il microfono.‘Allestiremo dei gazebo, uno per ogni angolo della città, saremo in tutti i quartieri!’, dice Antola, per poi tacersi di nuovo, il discorso che si consuma troppo rapidamente, che gli causa un senso di frustrazione, pesante, che sconfessa il suo vestito inamidato, la commovente quantità di schiuma che si è lisciato sui riccioli. Torna a sedere, gli amici che lo guardano passare e sollevano il pollice in segno di apprezzamento. A ruota s’accendono i candidati Denis Verdini, Massimo Baldini, Giuseppe Benelli. Sui presenti cala allora una pioggia acida di anticomunismo nixoniano, cannonate che fischiano sopra le pettinature di un pubblico composto, muto, che si rianima soltanto per un applauso, quando finalmente viene evocato il nome di Silvio Berlusconi. ‘Come nel ’48’, tuona il vecchio avvocato Martini, ottantaquattro anni suonati, già telepredicatore sulle frequenze di Tele Riviera, ‘oggi si gioca il futuro della patria’. I toni dell’avvocato sono così mossi e sinceri che quasi viene spontaneo calarsi nel suo fosco racconto, crederci un pochino, perché le macerie, la catastrofe imminente di cui dice, sono come un racconto avvincente al quale ci si può anche abbandonare, per qualche istante.
Vengono dette e poi scandite molte cose discutibili, palesemente fasulle, e provo rabbia, e vorrei poter gridare, o semplicemente alzare la mano e intervenire, ma mi trattengo, rifiato e assisto come ad uno spettacolo, lo spettacolo in cui la storia di molti anni, che pure vi fu, che pure ebbe un proprio corso, viene rifatta da capo e truccata come una specie di bambola. Vedo la collega del giornale per il quale scrivo, seduta nella fila di sedie dalla parte opposta alla mia, a un paio di metri da Antola che si sta asciugando la fronte, imperlata di gel e sudore, con il fazzoletto che tiene infilato nel taschino. Il professor Benelli sta raccontando dell’antica cappella che un tempo esisteva al posto di questa sala. Anche lei, la collega, si gira e mi vede. Mi saluta, un po’ sorpresa. ‘Beh?’, le faccio. Allora lei, con un gesto della mano, indicando il bloc notes, mi fa capire che ha preso una montagna di appunti, che c’è davvero molto materiale, che potrà scriverne a lungo. Allora, a mia volta, le faccio segno che con tutto quel materiale raccolto potrà costruirci un bel pezzo da almeno duemilacinquecento battute, un bell’articolo da sei euro lordi. Si, certo, come no, mi fa lei con la testa. Dopo è il turno di Bondi, l’uomo che ha composto i versi Vita assaporata/ Vita preceduta/ Vita inseguita/ Vita amata/ Vita vitale/ Vita ritrovata/ Vita splendente/ Vita disvelata/ Vita nova, dedicati al fondatore della tv commerciale, al demiurgo della vita novella italiana. Appare in una nube di cipria e adesso, con il suo eloquio al borotalco, vaporizzato nell’ambiente dal microfono a gelato, può finalmente temperare le asprezze di Baldini, Verdini e del vecchio avvocato. E qui, in questo passaggio, mi sembra, c’è tutta la fiammeggiante comunicazione politica di Forza Italia. Prima i toni virulenti, gli affreschi spettrali sulla storia del comunismo, dai misfatti dell’Europa orientale a quelli di casa nostra, saldati in un legame biunivoco. In seconda battuta l’approccio dolcificante di Bondi, la sua sofisticata prestidigitazione oratoria, le parole che palpeggiano i sentimenti, e poi il costante riferimento all’amore, alla civiltà dell’amore, della concordia, la risposta della Casa delle Libertà all’odio e gli occhi iniettati di sangue dei no global e dei casseursguidati dall’opposizione. ‘Avete visto che cosa è accaduto a Genova soltanto pochi giorni fa?. Pausa. ‘Il Presidente Berlusconi, insultato da un gruppo di adolescenti addestrati all’odio… No, non è certo questa l’Italia che vogliamo. Il Paese che sogniamo di costruire è piuttosto quello della comprensione, del dialogo, dell’abbraccio‘. Pur senza nominarli, Bondi riconosce alcuni meriti storici del P.C.I., il suo vecchio partito, ma adesso, dice, è come se la vera sinistra fosse transustanziata nella destra, e viceversa. ‘Fate attenzione, guardate dove sono finiti uomini come Antonio Di Pietro, guardate invece dove sono io, quale parte politica ho scelto, io che sono e resto uomo di sinistra’. Qui in Toscana, dice, ‘i rossi esprimono uno storico blocco di potere che ha inquinato tutti i gangli della vita pubblica, soffocato la società civile, che potrebbe precipitare la culla del Rinascimento in quella zona buia in cui languono le regioni più sofferenti e arretrate della penisola‘. E allora noto che c’è come una discontinuità, una falla, un oggetto di scena sbagliato, in questa sala impavesata di bandiere e manifesti di Forza Italia. E’ l’imponente bassorilievo dello scultore Gigi Guadagnucci, dedicato alla resistenza e ispirato al ‘Quarto stato’ di Pellizza da Volpedo. E’ la chiazza di marmo bianco appesa alle mie spalle. Bondi saluta il pubblico, con un breve sorriso che annuncia tutto l’abbacinante futuro di riforme che potrà spalancarsi per il Paese. Si solleva, infila delle carte, la stilografica, nella sua valigetta di pelle marrone. Gli altri candidati si sciolgono nell’abbraccio dei simpatizzanti, che ora si aggirano per la sala, vagamente ottenebrati. Sotto Bondi si raccoglie un capannello di gente che chiede di stringergli la mano, che lo incoraggia, che vuole riassaporare quel sorriso che sprigiona luce e coraggio riformista, quel sorriso d’infinita indulgenza che è come il sigillo di un uomo oramai libero, che ha attraversato il territorio bruto delle opposizioni, delle ideologie dure, ed è approdato in uno spazio completamente nuovo. Mi alzo, mi faccio largo nel moto contrario dei militanti che hanno cominciato a defluire e a svuotare il grande rettangolo della sala. Nuoto contro le loro giacche gessate, le pellicce, in un moltiplicarsi di fruscii, e cerco di aprirmi un varco verso il corpo da orsacchiotto di Bondi, che sta già per scomparire, richiamato da un paio di tizi che picchiettano l’indice sull’orologio. Alzo il braccio e la mano, come a chiamare un taxi, immaginario. ‘Onorevole Bondi, aspetti, una domanda, soltanto una domanda’. Vedo l’uomo della scorta tendersi e poi mettermi a fuoco da oltre gli occhiali scuri. ‘Soltanto una domanda’. Lo vedo che mi sta passando allo scanner, che sta soppesando la mia figura, che sta cercando qualche indizio negli abiti che indosso, nel taglio di capelli. ‘Soltanto una domanda’. Bondi si volta e fa un cenno all’uomo della scorta, lo rassicura. ‘Piacere, Ivan Carozzi‘. La mia mano si squaglia nella sua. Sudo, mi faccio di burro, sfrigolo. Le sue orecchie sono grandi e morbide, di marzapane, spatolate, la creazione di un grande pasticciere francese. Mi torna in mente l’episodio grottesco raccontato da Alberto Franceschini in ‘Mara, Renato ed io‘, Franceschini che pedina Giulio Andreotti, le loro giacche che si sfiorano, lungo una stradina deserta del centro di Roma, a due passi dalla chiesa dove Andreotti s’inginocchia ogni mattina. Sono di fronte al Potere, ottanta, ottantacinque chili di adiposo Potere. Non la tv, il montaggio, la musica di sottofondo, ma la vecchia realtà, che occupa uno spazio, che ha un odore, vibrazioni, dimensioni fisiche.
‘Onorevole…’
‘Prego, mi dica…’. L’uomo più affettato che abbia mai conosciuto, penso.
‘Vede quel bassorilievo?’
‘Certo che lo vedo…Perché?’. L’onorevole cambia rapidamente espressione, fiuta qualcosa, una trappola. L’uomo della scorta continua a puntarmi, con le braccia conserte, le lenti che scintillano.
‘Vorrei farle notare che…‘
‘Per chi scrive lei?’
‘No, guardi che non ha importanza, non è un’intervista. E’ una mia curiosità, nient’altro. Vorrei solo avere una sua opinione su quel bassorilievo’.
‘……..‘
‘Che cosa ne pensa? Le piace?‘. Il bassorilievo dista una decina di metri circa dal metro quadrato nel quale stanno galleggiando i nostri corpi. Bondi guarda l’opera, accarezza il mento perfettamente rasato, si trasforma in critico d’arte.
‘E’ un’opera di pregiata fattura, senza dubbio, d’impianto classico, ispirata a un certo tipo di retorica, d’iconografia…, ma guardi, la prego di scusarmi, ma adesso devo proprio andare‘.
‘Aspetti, quella è un’opera ispirata al ‘Quarto stato’ di Pellizza da Volpedo, alla resistenza, alla solita nauseante retorica. Non le pare che sia la prova dell’occupazione della sinistra di tutte le sedi istituzionali? Non ci troviamo davanti ad una testimonianza dell’infiltrazione soffocante della sottocultura marxista, qualcosa che ha messo radici profonde, che ha impregnato della propria immagine persino gli arredi, i motivi ornamentali?’
‘Senta, io conosco Gigi Guadagnucci, l’uomo che ha scolpito quel bassorilievo, è un mio buon amico, e posso dirle che è un uomo libero, che è soltanto un uomo libero‘.
‘A me sembra, tipo, un comunista‘, gli dico. Bondi affonda in una pausa iperuranica, setaccia l’etere, di nuovo in cerca di un’idea, di un’agenzia da riciclare. Poi, dalla tasca interna della giacca, in un fruscio serico, esce un taccuino sottile, sul taccuino i versi che tempo fa avrebbe dedicato proprio all’amico scultore. Me li legge, abbassando la voce di un’ottava, che diventa fievole, sottile, la voce di un uomo ammalato di un morbo dolcissimo:
‘Beata forza/Felice andare/Peso dell’anima/Forme invisibili/Cuore di donna. Le piacciono?‘
‘Belli, sono versi molto light, c’è una certa leggerezza materica, intendo, ma lei, insomma, non mi ha ancora risposto‘
‘Guardi, adesso devo proprio andare. Arrivederci. Si ricordi cheGuadagnucci è un uomo libero, soltanto un uomo libero‘.
Mi stringe di nuovo la mano e si allontana, lasciandomi solo, in un nuovo scoppio di sudore, la sala ormai vuota, le gambe che tremano, la mano che cerca un foglio, una penna, per archiviare i versi. Lo guardo da lontano camminare lungo il loggiato, scomparire nell’abitacolo della macchina, un uomo che richiude la portiera, lo vedo dietro il finestrino aggrottare le ciglia in uno sforzo creatore, controllare una piccola esplosione, un’intuizione da fermare sulla carta, ora, subito, un passo di più, verso una nuova poesia italiana.
1 Molti anni fa, era un’altra campagna elettorale, quella del ’94, una tempesta di sabbia sahariana si era abbattuta sulle strade della mia città, sulle facciate dei palazzi, sulle selle degli scooter, dei motorini, sui vetri delle automobili e delle case, ed aveva reso parzialmente irriconoscibili i volti dei candidati fotografati sui volantini, li aveva coperti di una polvere giallastra, color seppia, che sembrò poterli allontanare in un oscuro passato, come se le elezioni fossero già finite, da milioni di anni, come se la democrazia parlamentare fosse una forma di governo ormai definitivamente tramontata.