MATTEO B. BIANCHI
Non sono un tipo che ama molto partecipare ai concorsi letterari, e le poche volte che l’ho fatto non ho ottenuto comunque alcun risultato. Tuttavia capita, ogni tanto, che l’ipotesi di scrivere un testo a tema ed entro una scadenza precisa mi faccia scattare ispirazioni improvvise e irrefrenabili.
Questo comunque non spiega come mi sia venuta l’idea assurda di partecipare al Concorso Nazionale per il Racconto Sportivo organizzato dal C.O.N.I. e sponsorizzato dal Totocalcio. Io, che di sport non ne ho assolutamente mai praticati e che del calcio conosco giusto le coscie di qualche giocatore. Eppure, forse proprio per questa totale inadeguatezza al ruolo, mi sono messo al computer e ho scritto, praticamente di getto, queste quattro pagine (peraltro di pura fantasia).
Della serie “opere non rappresentative dell’autore”.
Un gol ogni cinque anni
Tranquillo lo sono sempre stato, fin da piccolo.
A sei anni ero uno di quei bambini che stava in casa a fare i compiti e a disegnare. Una gioia per le madri, un mistero per i padri, una sega per i compagni di classe.
Beh, non è che fossi proprio una mummia completa. C’erano alcune cose che mi piaceva fare all’aria aperta. Però ce n’era una che assolutamente non mi andava, ed era quella che segnava irrimediabilmente la differenza fra me e i miei coetanei: mi piaceva andare in bicicletta, mi piaceva giocare a nascondino o ai quattro angoli, ma a calcio proprio no. Lo detestavo io, il pallone. Che poi non ho neanche mai capito perché lo chiamassero così, dal momento che la palla, a ben vedere, era sempre piuttosto piccola.
Inutile dire che per i miei compagni valesse esattamente il contrario: biciclette, rincorse, nascondigli erano alternative da prendere in considerazione solo in casi estremi, indegne supplenti dell’unica attività possibile, il Gioco dei Giochi, quello che li vedeva schierarsi ogni pomeriggio sul misero campetto (di cemento!) del quartiere, in due squadre improvvisate ma agguerritissime, gli uni di fronte agli altri, la palla al centro, e io immancabilmente in disparte, testimone inutilissimo di vittorie e sconfitte del tutto loro. Se restavo lì era solo perché contavo sullo sfinimento, sul desiderio imprevedibile di cambiare (per un giorno, per un’ora, per una svista) passatempo, sull’ipotesi che qualche ardito outsider proponesse di andare a prendere un gelato tutti insieme.
Succedeva rarissimamente.
Mai, forse.
E poi c’era il problema mamma.
Perché se è vero che tutte le madri del mondo sono felici di vedere il proprio bambino seduto tranquillo a scarabocchiare quaderni, è anche vero che quando la regolarità è troppa cominciano a preoccuparsi. Se la creatura ogni pomeriggio siede beata alla scrivania e non mostra mai il desiderio di uscire a rotolarsi nell’erba, a sporcarsi i jeansini, a fare a pugni con gli altri bambini, le mamme cominciano a dubitare. Temono che il loro piccolino possa crescere smidollato, rachitico, amebico, frocio, inappetente, impotente, sfigato, insomma non-normale. E allora corrono ai ripari, agli inviti, se necessario alle minacce, pur di spingerlo fuori a prendere una boccata d’aria, come tutti gli altri.
Mia madre non faceva eccezione. Sopportava finché c’era la brutta stagione, ma appena un pallido sole s’intravedeva fra le nuvole subito si metteva d’impegno perché io mi precipitassi fuori ad eseguire il mio ruolo di bravo bambino sano.
Ed era in quelle circostanze di forza materna maggiore che io mi trascinavo al campetto del quartiere, immaginando giochi di gruppo che avrei finito per svolgere solo una volta su millenni.
Ma ormai sapevo come stavano le cose ed ero stoicamente rassegnato al mio destino.
Eppure un giorno avvenne l’impensabile.
Ero sull’orlo di una panchina a vederli dannare, arrancanti e furiosi verso quella sferetta di gomma, un occhio al loro gioco, un occhio al di là del campo, verso il cielo stinto, inseguendo qualche fantasia di futuro, immagini precoci e irrealistiche di me stesso intellettuale di successo, medico affermato, regista famoso, supereroe marveliano, e via di vertigine.
Ad un certo punto ecco che l’Alessandro Rizzi, mio compagno di classe e quasi-vicino di casa (duecento metri, nella stessa via), appoggia male un piede e cade lungo disteso. Un urlooooo, un abbraccio frenetico al ginocchio sanguinante. – Mi sono tagliato! – grida, barcollando in direzione di casa. Gli amici sospendono momentaneamente il gioco e lo guardando sgomenti sparire dal campetto e dalla vista. Tacciono qualche secondo, poi cominciano a sbraitare. Il fatto è che la partita ormai stava giungendo al termine, e sono in condizione di parità, ma con un giocatore in meno è impossibile concluderla. Sbuffano, imprecano, e, sospettosamente, cominciano a lanciarmi strane occhiate. Alla fine, la decisione è presa. Mi chiedono di sostituirlo.
Lo chiedono a me. Vogliono me.
La cosa non mi appare impossibile, quanto insensata. Avermi in squadra o non avere nessuno è lo stesso. Non sono neanche capace di raggiungerla, la palla. Che entro a fare?
Ma loro insistono. Fa persino piacere. E li accontento.
Qualcuno fischia e il gioco riprende. Io non ne capisco niente neanche di regole, mi sembra che l’unica cosa sensata sia precipitarsi verso il punto su cui convergono tutti gli altri, imitandone i movimenti e l’entusiasmo.
Sarà perché sono fresco, a differenza di loro che giocano già da un’ora, sarà perché sono semplicemente il più vicino, comunque stavolta il pallone lo tocco subito, lo spedisco con piccoli calcetti verso la porta avversaria e tutto sembra funzionare stranamente bene. Poi, non so. Qualcuno degli avversari mi spinge, io cado, i miei compagni s’indignano, reclamano vendetta. In un attimo è tutto un caos, gestacci, accuse, grida, pugni. E l’attimo dopo è un ordine nuovo, tesissimo, critico.
Rigore, dicono si chiami.
In altri termini, io sono solo di fronte alla rete del nemico. La palla ai miei piedi, il portiere pronto a pararla. E’ una sfida tra me e lui, e tutto il mondo ci guarda.
Abbiamo già perso, penso.
Abbiamo già perso, pensano i miei.
Hanno già perso, pensa chiunque.
Ed è davvero un caso se io, che fisso insistentemente lo spazio vuoto alla destra del portiere, al momento di toccare la palla ho un improvviso scarto di decisione e sferro il colpo tutto a sinistra. Mi è venuto così. Altro che strategia, che tattica. Fortuna del principiante. Semplice culo.
Il portiere si lancia da un lato, la palla si proietta verso il lato opposto, e trac, con un movimento accidentale che pare evocare la perfezione delle traiettorie cosmiche, è gol.
In quel preciso momento capisco tutto. Fra le urla di gioia e le pacche sulle spalle e gli abbracci e le tirate di capelli dei miei compagni, le braccia lanciate in aria e le bestemmie e la rabbia degli avversari, capisco perché val la pena di dannarsi tanto, perché si corre, si suda, si lotta, si ama, si odia, si impreca, si vive per quella stupida palla.
Perché la felicità è un concetto astratto, che non sai spiegare, eppure quando accade la riconosci, la senti in tutto il corpo che ti attraversa come una rivelazione.
Ed era felicità vera quella che stavo provando io, quella che avevo regalato ai miei compagni che mi esultavano intorno.
La vedevo distintamente nei loro occhi. Brillava, come un diamante.
I giorni seguenti furono del tutto diversi dai precedenti. Ogni volta che arrivavo al campetto tutti mi salutavano con entusiasmo, correvano a parlare con me, ad invitarmi subito ad unirmi alla loro squadra. Ma io rifiutavo, sempre.
Il fatto è che sei quello che sei, e non puoi cambiarlo, anche se ti è andata bene una volta. Io e il pallone non eravamo fatti l’uno per l’altro e lo sapevo bene, me lo sentivo fin nelle viscere. Preferivo conservare il ricordo della mia unica vittoria che assistere al mio inesorabile e immediato declino in ambito calcistico.
Per cinque anni ho vissuto della gloria di aver giocato una sola partita e di aver sferrato il gol decisivo.
Poi le elementari finirono, cominciarono le medie, cambiarono i compagni di classe, la leggenda cominciò a sbiadire…
Ma questa è tutt’altra storia.