Confesso che dopo la pubblicazione del podcast “Esordienti”, il numero degli autori sconosciuti che mi ha scritto per sottopormi testi inediti è aumentato in maniera esponenziale. Purtroppo però il livello del materiale proposto ha seguito una curva proporzionalmente inversa. È deprimente leggere un racconto dopo l’altro senza individuare nulla di entusiasmante. Poi sono incappato in questo di Riccardo Fumagalli e finalmente l’interesse si è acceso. L’autore compie una scelta narrativa originale: racconta nei dettagli un’azione e le sue immediate conseguenze, ma non fornisce una motivazione, un senso. Sappiamo cosa succede ma non perché succede. Possiamo intuirlo o provare a dare la nostra personale interpretazione. Lui ha voluto raccontare solo una scena, che però funziona bene, ha ritmo, ha stile, e basta a sé stessa.
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Riccardo Fumagalli, La deludente via degli oggetti contundenti
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L’Hawaiiano entra da una porta servizio con addosso l’ultimo sbuffo di sigaretta. Il camice bianco è troppo stretto per chiuderlo e nascondere la maglietta scolorita del 7-Eleven. Non viene dalle isole Hawaii, non c’è nemmeno mai stato, e il suo aspetto baltico lo fa risaltare ancora di più lì in quel posto. Il caldo umido che assedia l’edificio è tenuto a bada con uno sforzo del condizionatore che crea un silenzio precario e ovattato, come dopo un forte scoppio. L’Hawaiiano è già sudato mentre percorre il corridoio dell’ospedale, evitando barelle, infermieri e altre comparse che appena lo vedono girano lo sguardo altrove, e si ferma di fronte a una porta socchiusa.
La stanza è composta da un’ampia anticamera e un angolo con il letto; gli spazi sono definiti da pannelli vetrati. Sui divanetti ci sono i corpi seminudi di tre giovani donne che osservano con sguardi stanchi il suo ingresso. Con uno sforzo di immaginazione si sarebbe potuto leggere altro, in quegli sguardi: rassegnazione o magari gratitudine. Ma in realtà gli occhi non dicono mai niente: siamo noi a dare loro una voce. L’Hawaiiano vede solo iridi opache sottolineate da occhiaie grigie.
Alla sua destra c’è un grosso macchinario muto, numeri e linee colorate si muovono sul display. Da lì partono cavi che si srotolano verso la camera vetrata dove l’uomo che cercava giace immobile. Solo la testa esce dalle coperte: due ciuffi di capelli neri arruffati come peli pubici sopra le orecchie, barba scura a chiazze e un paio di occhiali dalle lenti grandi, spesse e piene di ditate.
L’Hawaiiano si guarda attorno in cerca di qualcosa che possa usare con efficacia. Solleva la piantana della flebo sopra la sua testa, con le braccia tremanti per lo sforzo, e la fa cadere verso la faccia dell’uomo. Il piede di ferro colpisce il cuscino e la piantana gli scivola dalle mani cadendo a terra. L’uomo non si sveglia nonostante il frastuono e non si muove di un millimetro, ma l’Hawaiiano non può prendersi altri rischi. Deve affrettarsi.
Abbandonata la deludente via degli oggetti contundenti va ad aprire l’armadietto situato in un angolo, di fianco alla porta del bagno. Le tre donne seguono i suoi spostamenti muovendo solo gli occhi. L’Hawaiiano è al capezzale, con un cuscino stretto tra le dita. Fissa quel volto inerme, studiandone le macchie sulle palpebre e i butteri, e lascia che il disgusto lo riempia al punto da poter fare quello che deve.
Ci si possono ficcare un sacco di pensieri in due secondi: avrò posizionato bene il cuscino, funzionerà come nei film, cosa succede se si sveglia. E se è già morto?
Due secondi, tanto è il tempo che l’uomo ci mette prima di reagire. L’Hawaiiano si appoggia con tutto il suo peso e sente sotto i suoi palmi il cranio che si agita, la forma del naso che affoga nell’imbottitura sintetica. Una mano esce dalle lenzuola, ma si affloscia prima di raggiungere l’aggressore. Il macchinario collegato al paziente coglie un battito anomalo ed emette dei beep, sempre più frequenti, sempre più forti. L’Hawaiiano guarda la porta che dà sul corridoio ma nessuno sembra essere attirato da quei suoni. I battiti aumentano, i beep si intensificano. Sotto il cuscino un corpo si agita debolmente, con quel poco di vita rimasta che l’Hawaiiano sta estinguendo con le sue mani. I battiti, i fremiti e i beep lo invadono con una bruciante consapevolezza. Un atto non ancora irreversibile, non ancora.
Poi i due colpi.
Esplode il silenzio, e il cuore – grosso da riempire tutto il vasto torace dell’uomo – emette due colpi. Due tremendi colpi che corrono su per le braccia tese dell’Hawaiiano e che risuonano nel suo petto come se fosse stato il suo di cuore. Boom boom. E silenzio.
L’Hawaiiano solleva le mani e fa due passi indietro. Poi altri due e si ritrova nell’anticamera.
Le tre giovani donne si alzano dai loro giacigli con i movimenti fluidi e innaturali di un braccio idraulico. Loro si muovono, e lui ha ammazzato un uomo. Una vita come la sua, una su miliardi, quindici chili di carbonio e altra robaccia. La prima che lo abbraccia è poco più di una bambina. Gli cinge la vita con le braccia e gli appoggia la testa su un fianco. Lui, che ha appena ucciso un uomo schifoso, mette le sue zampe smisurate sotto quei capelli neri e spessi, le appoggia sulla pelle liscia e tiepida delle spalle. Due colpi, li sente ancora risuonare nel suo corpo mentre singhiozza. Due colpi che hanno messo fine a una vita. Un’altra giovane donna lo raggiunge, al rallentatore, si aggrappa al camice e la bambina si allontana come se una delicata brezza l’avesse spinta via. Le sue lacrime si perdono nella chioma lucida e profumata, sporcandola. Anche questa ragazza indossa solo un paio di slip color crema, ma è alta quanto lui e ha seni sodi e lisci come una pesca. Conosce la consistenza quando lei si appoggia a lui, con le braccia attorno al suo torace, conosce la pelle quando, muovendo le mani gonfie attorno al corpo di lei, sfiora il fianco di un seno spinto fuori dalla pressione dei corpi. Anche lei non parla e lui ha appena soffocato un uomo a morte. Boom boom. Chissà se quel corpo longilineo può sentire quei rimbombi che continuano a echeggiare nel torace di lui, chissà se può avvertire la sua erezione. Vede l’altra ragazza avvicinarsi e sente quella alta allentare la presa. L’Hawaiiano prende fiato, mentre la terza giovane muove l’ultimo passo verso di lui e si appoggia con cautela, poi ricomincia a singhiozzare senza controllo. Guarda le altre due ragazze, che lo guardano e sorridono contraendo i loro zigomi morbidi. Sembra un sorriso triste, ma chi può dire se gli occhi tristi sono i loro oppure i suoi? Sono occhi nuovi, occhi che hanno ammazzato, ci vorrà un po’ per imparare a usarli. La pelle della schiena di questa ragazza è morbida come qualcosa che non ha mai toccato prima. Chi la paragonerebbe al velluto non ha mai toccato il velluto che conosce lui, o una pelle così. Singhiozza e muove le mani lungo la schiena della ragazza, mani sporche fatte per spingere cuscini su facce di merda e che ora spingono un corpo giovane e caldo sul suo inguine pulsante. Boom boom. I due ultimi spasmi di un cuore marcio e già morto sono ancora con lui e lo riportano a terra.
Chi sono queste tre ragazze? Non parlano, non se ne vanno, ma continuano a girargli intorno e ad abbracciarlo. Lui singhiozza sopraffatto da emozioni che non conosce: è troppo vicino a qualcosa di troppo grande e non riesce a distinguerlo. Se loro sono ancora lì è perché gli sono grate, perché vogliono mostrargli una gratitudine che non possono esprimere a parole. Qual è la valuta di ringraziamento di una prostituta? Muovendosi per la stanza come gatti le altre due ragazze si appoggiano di tanto in tanto a lui. Una testa sul fianco, una mano sul braccio. Lui ricambia con gesti goffi, accarezza una testa, sfiora una guancia, intrappola una ciocca fra gli artigli callosi. Boom boom, risuona il promemoria. Lui piange circondato da ninfe mute mentre a due metri da lui c’è una coperta rigonfia di un cadavere tiepido e bagnato. Passa le mani sui capelli della giovane donna che lo sta abbracciando. Una è troppo giovane, una troppo alta, ma vorrebbe che questa non si staccasse mai da lui. Non sembra che lei se ne voglia andare presto e non sembra che le dia fastidio l’urgente pressione al suo ombelico. Potrei alzarla, pensa l’Hawaiiano piangendo come un bambino, potrei alzarla e metterla sul divano. E magari le altre due si aggiungerebbero ai ringraziamenti, i ringraziamenti per aver ammazzato un uomo senza nemmeno aspettare che si svegliasse, il climax di un rituale silenzioso e senza tempo. Due colpi sono tutto ciò che lo separano dal cadavere schifoso sul letto. L’eco dei suoi singhiozzi lo scuotono, sciogliendo il velo che gli sfocava la vista. Sfila le dita dalle mutande della ragazza ed evade dal suo abbraccio, che non oppone resistenza. Guarda il cuscino, ancora appoggiato sul grugno dell’uomo, e si allontana per il corridoio, evitando barelle, infermieri e altre comparse che non alzano lo sguardo su di lui.