Spesso quello che mi conquista di un racconto è l’idea che lo sorregge. Chi legge ‘tina da tempo lo sa: mi divertono le cose originali, non gli sfoggi di bravura letteraria (tanto quelli trovano posto altrove, in ben più prestigiose sedi che una webzine amatoriale). E un’idea certamente interessante è quella di questo racconto, nel quale la fede calcistica diventa il segno primario dell’identità individuale a partire dalla più tenera età. L’esordiente assoluto Francesco Gesuete racconta uno scontro tra bambini dell’asilo il cui principale carattere distintivo è legato al tifo sportivo. Una lingua ingenua, ironica, volutamente infantile, per rappresentare un mondo nel quale i buoni si distinguono dai cattivi in base alla squadra del cuore.
DONATI MARCO, DELL’INTER
Non è stata un’idea simpatica, però. Forse ho un po’ esagerato.
Il ranocchio fa schifo da vivo, figuriamoci da morto… e poi con il pomodoro e l’ortica non credo che leghi bene.
Io sono troppo buono.
Adesso sto qui a farmi gli scrupoli quando lui invece non sa neanche che cosa sia uno scrupolo; forse un insetto, tipo scarafaggio, o una specie di verruchetta, ma di sicuro non lo sa che significa, lo scrupolo.
Troppo buono, davvero, dovrebbero farmi santo.
E magari forse ci riescono, che se mi beccano mi fanno martire.
Soprattutto Pina, la maestra secca e alta e zitella, quella che dice che non posso fare pinocchio nella recita perché sono troppo dinoccolato.
Ma che cacchio di scusa è!
Troppo dinoccolato.
Ma che significa? Poteva dire che sono troppo piccolo, troppo grasso, troppo biondo, troppo dell’inter, o la verità, cioè che mi odia, ma inventarsi le parole e utilizzarle come scuse non si è mai visto.
Dinoccolato. Roba da pazzi.
Se Pina mi acchiappa mi ammazza.
Lo ha detto un sacco di volte che In questo asilo si accettano solo bambini educati e rispettosi e che nessuno si azzardi a fare scherzi idioti o sporcaccionerie di ogni tipo altrimenti sono guai seri, molto seri.
E poi Giulio Romano, della juve, è il figlio dell’ingegner Romano, quello ricco che costruisce i palazzi, e si vede lontano cento milioni di chilometri che lei diventa gentile e arrossisce quando quello viene a prendere il figlio e le chiede come si è comportato.
– Un angiuoletto. E’ stato un angiuoletto oggi. – dice sempre così.
Si, proprio un angioletto, proprio.
Lucifero, quello è il diavolo fatto bambino.
Lo so che ogni cosa che dico potrà essere usata contro di me in tribunale, ma non mi invento mica niente.
Ho le prove.
E ho pure i testimoni, anche se molti sono dei cacasotti.
Ehi Pina, non ti sei mai chiesta perché Giulio Romano è così grasso?
Te lo sei mai chiesta?
No?
Io lo so perché. Vuoi saperlo?
Perché è un ladro, come la juve, e mi frega la merenda tutte le mattine. Da due mesi.
Sono trentasette panini, quindici merendine al cioccolato, tre cornetti alla marmellata e quattro alla crema (di cui una chantilly).
Le figurine dei calciatori lasciamole perdere, quelle non fanno ingrassare, ma me le frega lo stesso.
Adesso addirittura la merenda non si preoccupa neanche più di prendermela di nascosto. Se ne viene con il gigante e mi ordina di consegnargliela, altrimenti mi spezzano le dita o mi chiudono nel bagno delle femmine o mi stritolano il pisello.
Il gigante è Bustelli Tommaso, pure della juve. E’ il figlio del capo mastro, ed è pure più grande di noi, ma ha il cervello più piccolo perché gli è uscito dalla cicatrice che ha sulla fronte quel giorno che si è stampato sul termosifone caldo.
E io allora adesso tutte le mattine mi porto la doppia merenda e me la mangio di nascosto qui nel teatrino delle marionette.
Le conosco tutte. Pulcinella, Arlecchino, Pantalone…
Siamo amici, pure se loro non si intendono molto di calcio. Sono neutrali.
Tutti mi cercano. Stavolta l’ho fatta grossa.
Se mi prendono mi fanno fuori.
San Marco martire bambino, non suona neanche tanto male.
Il mio orologio parlante mi dice che papà non verrà a prendermi prima di mezz’ora.
Tanto finché sto qui dentro sono al sicuro, qui non ci viene mai nessuno.
Ho un po’ da pisciare, ma non mi conviene uscire, meglio restare nella tana. E poi da qui ho la situazione sotto controllo, che ogni tanto spio, scosto un po’ la tendina rossa del sipario e guardo quello che sta succedendo.
E’ svenuto, quel deficiente di Giulio è svenuto.
Così impara, oh!
Dicono che si è ingoiato mezzo ranocchio, poi ha visto le budelle nel sandwich e patapum, a terra.
Chissà che scena. Da ridere.
Chissà Pina…
Chissà se viene l’ambulanza.
Meglio di no, anche se sarebbe bello.
Non ne ho mai vista una da vicino, perché mamma dice che non c’è niente da vedere e che poi mi impressiono e non dormo più.
Papà una volta allo stadio mi ci voleva pure portare vicino, ma lei lo ha guardato facendo gli occhi piccoli, come quando sta arrabbiata e papà allora mi ha detto un’altra volta.
Mi sa che papà ha un po’ paura di mamma.
E c’ha ragione, quando mamma s’arrabbia e grida diventa pericolosa.
Ma non come Pina, assolutamente. Pina non fa solo gli occhi piccoli, quando si infuria gonfia pure le narici, come i cavalli o i tori della corrida.
Adesso mi starà cercando tutta sbuffante cacciando l’aria delle narici.
Quella se mi prende è capace che non mi uccide subito, ma mi porta a casa sua e mi cucina.
Bambino Marco alla cacciatora.
Bambino Marco allo spiedo.
Bambino Marco all’arancia.
Marco arrosto.
Tortellini panna e Marco con funghi porcini.
Mi sto un po’ cacando sotto, papà quando vieni?
Pulcinella ha un naso troppo grosso per i miei gusti, soprattutto perché ci sono seduto sopra.
Non ce la faccio più, mi alzo per sgranchirmi un po’ le gambe, e scopro che Balanzone mi ha tradito.
Il simpatico dottore mi si è impigliato tra i lacci delle scarpe.
Cerco di divincolarmi, ma la sua presa non mi da’ scampo.
Brutto traditore, che sei juventino anche tu? O peggio ancora sei milanista? Ti ha pagato bene la strega!
Pulcinella, Arlecchino, Pantalone, aiutatemi per favore. Cado.
Un istante dopo sono libero dalla presa traditrice, ma con le gambe all’aria, e il tonfo ottuso e legnoso che ha accompagnato la mia caduta ha indicato ai radar di Pina le precise coordinate del mio nascondiglio.
Vista da terra sembra ancora più alta, e ha pure i peli sulle gambe, come i maschi, ma un po’ meno.
Sta ferma sull’uscio del teatrino, le mani sui fianchi.
Lo sapevo io, ha le narici enormi e gli occhi piccoli.
E’ furiosa.
Paralizzato dalla paura penso a nonna Pia, lei va sempre in chiesa.
San Giuseppe, orapronobis.
San Francesco, orapronobis.
San Matteo, orapronobis.
San Giovanni, orapronobis.
San Marco bambino, orapronobis.
Poi dalla chiesa passo alla cucina, quella di Pina.
Bambino Marco al gratin.
Pizza Marco e carciofi.
Marco sott’olio.
Questo maglione di lana mi fa caldo e mi pizzica in gola.
Ho paura di morire.
Adesso o mai più. Se non scappo ora è meglio che comincio a scegliermi il giorno sul calendario.
L’uscita convenzionale è bloccata dalla strega, ma posso sempre uscire dal sipario.
Da grande voglio fare l’attore, tanto vale cominciare ora, anche perché se poi muoio adesso, col cavolo che lo divento.
Mi rimetto su spolverandomi piano piano sulle ginocchia. Per terra noto Balanzone, sorride.
Vigliacco.
Ehi ragazzi, mi avete abbandonato?
Cerco di assumere l’espressione più innocente e rassegnata di cui sono capace.
Non è poi tanto difficile.
L’ho visto fare nei film alla televisione. Serve per far credere al cattivo che ti sei arreso e sottomesso al suo volere.
A questo punto lui dovrebbe convincersi di averti in pugno e commettere un errore fatale. Dovrebbe.
Speriamo.
Pulcinella ha un naso troppo grosso e una testa troppo dura.
Dello stesso parere è sicuramente anche Pina, soprattutto adesso, dopo aver ricevuto una testata così violenta.
A giudicare dai suoi lamenti deve essere dura come il ferro, anzi no, come l’acciaio inox.
Io non ho fatto niente. Ha fatto tutto Pulcinella, di sua spontanea volontà.
Grazie Pulcy, sei un amico. Ora non mi resta altro da fare che sbucare dal sipario e correre, correre più che posso.
Mentre corro non ho più paura.
Non ne ho il tempo. E’ già troppo difficile scansare sedie, sgabelli, banchi, cubi, palloni, colleghi, nemici e tutto il resto dalla prospettiva ristretta e squilibrata che la fuga impone alla mia vista.
Corro come un ghepardo, come un’ala destra, agile e veloce più di un pesce siluro tra barriere di coralli.
Inciampo, scivolo, cado, mi rialzo e sono sempre in fuga.
Corro da una parte all’altra senza sosta.
Non penso più a niente, e non mi rendo conto che continuo ad andare su e giù per questo stesso lungo corridoio.
Non riescono a prendermi, ma non posso certo scappare in eterno.
Si è creato un lungo serpentone, io davanti, tutti gli altri dietro. Come ai matrimoni. Sembra che balliamo, ma non è un gioco.
Pina ha un bernoccolo enorme sulla fronte. E’ rossa di rabbia.
– Prendetelo, grida aizzandomi contro i colleghi mastini.
Sono stanco, e non voglio morire, uffa. Ho paura.
La mia fuga è finita, qualcuno mi ha afferrato per il colletto della camicia.
Cerco di resistere alla presa.
Muovo le gambe più che posso, ma le suole di gomma non fanno presa sufficiente. Scivolo.
Mi sembra di essere sul rullo rotante del parco giochi.
La mano che mi tiene ha ben salda la presa.
Ehi, ma che fai, così mi strozzi!
Abbasso la testa e cerco di dare un ultimo slancio alla mia corsa, come l’ultimo disperato dibattersi di un pesce siluro in debito d’ossigeno alla riva di una spiaggia tropicale.
Ma non c’è più niente da fare, sono finito. Caput.
Mi fermo.
La mano che mi tiene e che sembra piuttosto un uncino mi tira a sé.
Mi volto, è il gigante. Non lo avevo mai notato, ma la mano che sembra un uncino, in realtà non solo lo sembra ma lo è.
Dice: – Romano Giulio, della juve, è morto ingurgitando il tuo panino avvelenato. Pagherai per questo.
La paura e la sete mi hanno infilato un groppone grosso come una mela Marlene sotto le tonsille.
Ingoio la paura, ma mi torna su ancora più intensa.
Dico: – Non volevo, stavo solo scherzando. Io non pensavo che poi finiva che moriva.
– Taci – grida Pina, mentre mi si avvicina preceduta dalla sua lunga ombra.
Ha un enorme benda nera sull’occhio sinistro con su cucito un teschio bianco. Il corpo avvolto in un ampio mantello nero, anzi bianconero.
Si avvicina ancora.
Respira forte dalle narici dilatate.
Dice: – Donati Marco, dell’inter, sei pronto a morire?
Tremo. Le gambe non mi reggono.
Papà mi hai tradito, perché non vieni a prendermi oggi?
Fuori c’è vento.
Turbini di foglie e terriccio oscurano il cielo.
Pina si muove, apre il mantello mostrandomi la lama lucente e affilata dell’ascia che sta impugnando.
Capisco che sto per morire. Domani niente partita, e oggi costolette di Bambino Marco alla brace. Con bruschetta.
Urlo.
- Marco cos’hai? – mi chiede mamma abbracciandomi assonnata, spaventata e impigiamata.
– Non voglio morire.
– Perché mai dovresti morire?
– Non sono stato io!
– Marco, è solo un sogno. Stai tranquillo, non è successo niente.
La stringo forte la mia mamma. E’ interista, come me.