FABIO LUBRANO
Tutti coloro che scrivono hanno avuto nella loro vita esperienze più o meno drammatiche nel rapporto con eventuali editori, ma penso che un iter così grottesco come quello di Fabio Lubrano sia decisamente unico.
Questo racconto (che in realtà è una semplice cronaca degli eventi, e infatti si distacca molto dalla tipica prosa lubraniana) è nato da un mio esplicito suggerimento a Fabio, dopo che lui mi ha raccontato la sua ennesima delusione editoriale, perché pensavo che una storia del genere valeva la pena di essere raccontata, per consolarci un po’ tutti. E se io stesso compaio nel racconto, sempre presentato come una sorta di supereroe buono, è solo perché un comportamento di spontanea collaborazione dopo tante delusioni deve essere sembrato a Fabio un atteggiamento di gentilezza sovrumana. E poi Fabio è un buonista.
CURRICULUM VITAE
• Nell’agosto del l992 pubblicai il mio primo racconto sul quotidiano La Repubblica: s’intitolava l’amore, vedi e arrivò tra i finalisti del concorso Milano ad agosto. Nel mio racconto un’amabile coppia di fidanzati passeggiava per Milano discutendo dei possibili significati della parola amore mentre massacrava chiunque gli capitasse sotto tiro. Spedii il racconto via fax alla redazione milanese di Repubblica (non possedendo un fax andai a spedirlo alla posta di Piazza Cordusio: 6000 lire una pagina, nel 1992, ma non ha importanza) che era mercoledì. Domenica mattina, con gli occhi ancora pesanti di sonno aprii Repubblica alle pagine di Milano. Lo sguardo si posò subito su L’AMORE, VEDI scritto in grassetto in alto e poi su Fabio Lubrano piccolo e in corsivo. Gli occhi si alleggerirono subito. Il mio primo racconto pubblicato! Tornai in edicola e chiesi all’edicolante allibito altre quindici copie del giornale. Qualche giorno dopo ricevetti una lettera da parte della redazione: si complimentavano per il racconto e m’invitavano in Via Alessandrini a ritirare il premio riservato ai finalisti. Ci andai immediatamente, pieno di curiosità: chissà cos’era, non qualcosa di grande, questo certamente no, però sicuramente collegato con il fatto di scrivere. Ritirai il premio: una radiosveglia da viaggio. Che per uno che era rimasto tutta l’estate a Milano e non aveva trovato niente di meglio da fare che scrivere un racconto su due psicopatici mi sembrò un’inconsapevole ma geniale presa per il culo.
• Nel settembre del l992, sull’onda dell’entusiasmo di quella prima pubblicazione, decisi di scrivere un libro composto da racconti tutti di due pagine, sulla falsariga dil’amore, vedi. Lo intitolai racconti per chi non ha tempo di leggerli e lo spedii a Firenze al concorso Nuovi Autori. Nel gennaio del 1993 arrivò la prima lettera di risposta: ero arrivato in finale. A febbraio la seconda: purtroppo non avevo vinto ma l’editore intendeva pubblicare il mio libro ugualmente. A marzo la terza: contratto con clausola di pubblicazione. Dovevo comprare 700 copie del mio libro anticipatamente, per coprire le spese di pubblicazione. Ad aprile la quarta: siccome l’editore aveva pensato di presentare il mio libro al Salone di Torino, avevano urgentemente bisogno di una risposta. Ero interessato alla loro proposta o no? A maggio risposi: Gentile Firenze Libri, non sono interessato alla Vostra proposta di pubblicazione. Distinti saluti, Fabio Lubrano. A giugno mi mandarono il mio libro indietro.
• Nel luglio del l993 spedii il dattiloscritto a Stampa Alternativa, insieme ad una lettera con la quale spiegavo che il tipo di racconti che avevo scritto mi sembrava potesse essere coerente con la linea editoriale dei millelire. A settembre trovai nella cassetta delle lettere un plico giallo inviatomi dal Senato della Repubblica. Le sopracciglia andarono a nascondersi nei capelli. Aprii il plico sospettando uno sbaglio di persona. Dentro c’erano iracconti per chi non ha tempo di leggerli. Le sopracciglia si posizionarono sulla nuca. Come avevano fatto i miei racconti ad arrivare in Senato? E soprattutto: perché me li restituivano? Vidi una lettera. Capii. Percorrendo misteriose strade laterali, Loro erano riusciti ad impossessarsi del mio libro, l’avevano letto e, sbalorditi da tanto talento, avevano deciso di ricompensarmi nominandomi Senatore a vita. Lessi la lettera cercando conferma: Caro Fabio, il libro è interessante, soprattutto alcuni racconti, tu hai sicuramente talento ma io sono sommerso da così tante proposte per i millelire che non so più dove sbattere la testa. Grazie per esserti rivolto a noi, Marcello Baraghini. Marcello Baraghini, il direttore di Stampa Alternativa, l’amico di qualche Senatore che lo aiutava a risparmiare in spese postali. Che tristezza.
• Di nuovo agosto (sempre 1993). Di nuovo rimasi a Milano. Di nuovo scrissi un racconto. Lo intitolai Cinzia cara Cinzia e lo spedii al Premio Navile della casa editrice faentina Moby Dick. A novembre mi telefonò Guido Leotta, direttore della Moby Dick. Ero uno dei cinque vincitori che sarebbero stati pubblicati in volume a dicembre. Sempre a dicembre, a Bologna, ci sarebbe stata la premiazione? Avevo intenzione di andare? Risposi che ci sarei andato anche a piedi. Mio padre comprò spumante e pasticcini per festeggiare. “Ma no, papà, non è niente d’importante,” minimizzai, “è un libro che non arriverà neanche in libreria.” Mio padre finse di non aver sentito e stappò la bottiglia. Conservo ancora il tappo su cui ho scritto con un pennarello nero: primo libro e poi più avanti, tra parentesi (assieme ad altri quattro autori). A dicembre andai a Bologna alla premiazione (in treno). Si svolse in un teatro al quartiere Navile. Mi fecero salire sul palco e m’invitarono a leggere un brano del mio racconto. Ero imbarazzatissimo. Lessi così male che nonostante avessi scelto il paragrafo più divertente nessuno rise. La giuria (composta dai critici Giuseppe D’Agata, Gregorio Scalise e Giorgio Manzella) volle sapere come avessi fatto ad identificarmi così bene in Cinzia, la protagonista del racconto. Pensai una risposta. Non la trovai. Ne pensai un’altra. Non trovai nemmeno quella. Mi sembrava di essere in silenzio da ore e mi rividi studente imbambolato davanti alla lavagna, con in testa la risposta giusta, ma incantato dal mio stesso mutismo. Dissi la prima cosa che mi venne in mente: “Ma… il fatto è che non mi sono identificato… io sono così…” Mi resi immediatamente conto che quella risposta poteva essere fraintesa in “ma… il fatto è che io sono omosessuale…” Guardai la giuria: aveva frainteso. Adesso era molto più imbarazzata di me. Scesi dal palcoscenico e andai in corridoio a fumare. Ero stato un disastro. Una vecchietta m’inseguì con il libro aperto alla pagina del mio racconto. “Bravissimo,” mi disse con gli occhi lucidi, “me lo fa un autografo?” Glielo feci e la ringraziai di cuore per avermelo chiesto. Poi vidi che Giuseppe D’Agata stava uscendo dalla sala. Andai da lui. “Forse prima c’è stato un malinteso,” gli dissi sforzandomi di elaborare affermazioni inequivocabili, “dalla mia risposta poteva sembrare che fossi omosessuale. Non che m’importi, ma non è vero, insomma non è quello il motivo per cui mi sono identificato in Cinzia.” D’Agata scrollò le spalle. “Non ci avevo neanche pensato,” rispose, “e comunque non m’interessa,” che tradotto voleva dire: è perfettamente inutile che adesso cerchi di negare di essere omosessuale, ormai l’hai detto davanti a tutta la sala. Poi aggiunse: “Complimenti comunque, il tuo è l’unico racconto divertente che ci sia arrivato. Scrivono tutti cose lagnose ormai. Sai,” abbassò la voce in tono confidenziale, “Scalise e Manzella non lo volevano neanche pubblicare. Ho dovuto alzare la voce.” Lo ringraziai, emozionato di avere, già così giovane, un critico letterario mio alleato.
• Nel marzo del 1994 mio fratello Bruno e Licia, un’amica, incrociarono per strada Giorgio Manzella, conoscente di Licia. Si salutarono e lei gli presentò Bruno: “è il fratello di Fabio Lubrano, quello del Premio Navile.” Manzella sorrise. Poi abbassò la voce e confidò: “Sapete, D’Agata e Scalise non lo volevano neanche pubblicare. Ho dovuto alzare la voce.”
• Nel settembre del 1993 la coinquilina di Bruno, per sbaglio, lo chiuse in casa da fuori con l’unico mazzo di chiavi rimasto. Dovendo uscire con urgenza, Bruno chiamò un fabbro che gli sfondò la porta. Poi mi telefonò chiedendomi se potevo vigilare sulla sua casa controllando che nessuno entrasse dalla porta sfondata. Risposi di sì. Per passare il tempo provai a scrivere racconto per un concorso organizzato dalla biblioteca di Gorgonzola e da Stampa Alternativa (mi aspettai di trovare, nel bando di concorso, il patrocinio del Senato della Repubblica: inspiegabilmente non c’era). Lo scrissi sbirciando ogni cinque parole fuori della porta. Lo spedii il giorno dopo, quando la porta era stata finalmente riparata. Passò un anno durante il quale non successe nulla [a parte il fatto che ovviamente ad agosto rimasi a Milano e scrissi un racconto (questo per il concorso Raccontare Milano dell’editore La vita felice)]. Nel settembre del 1994 ricevetti una telefonata da un ragazzo che faceva parte della giuria di Stampa Alternativa. Mi disse che si chiamava Matteo Bianchi, che aveva letto il mio racconto e che secondo lui ero un genio. Lo ringraziai (quel primo grazie avrei dovuto fissarlo meglio nella mia memoria, visto che da quel momento non ho fatto altro che ripeterglielo). Affermò che non dovevo ringraziarlo, era proprio vero che ero un genio. Lo ringraziai. Mi disse cosa, in particolare, gli era piaciuto del mio racconto. Lo ringraziai. Mi disse che in realtà mi stava chiamando per un altro motivo: stava curando un’antologia di racconti ispirati a spot televisivi e avrebbe voluto che vi partecipassi. Lo ringraziai. Fissammo un appuntamento per conoscerci di persona e parlarne meglio. Quando misi giù la cornetta immaginai Matteo scoppiare a ridere dicendo agli altri membri della giuria: gli ho detto che è un genio!!! ALTRI MEMBRI DELLA GIURIA: e lui? lui cosa ha fatto?? MATTEO: ci ha creduto!!! TUTTI: ah ah ah!
• Nell’ottobre del l994 scrissi i racconti per l’antologia curata da Matteo Bianchi. Poi, qualche giorno dopo, scrissi addirittura un romanzo. Lo intitolai una specie fatta di coso e, nel corso dei mesi, lo feci avere a diverse case editrici. Nel corso dei mesi le diverse case editrici (fatta eccezione per la Feltrinelli) non mi fecero avere nessuna risposta.
• Nel novembre del l994 arrivò la risposta da La vita feliceper il racconto ambientato a Milano che avevo scritto quell’agosto. Ero uno dei l7 vincitori. La presentazione si svolse una domenica mattina di dicembre al Grand Hotel Duomo. Presentarono uno per uno i vincitori, ai quali consegnarono una copia del libro e un attestato di partecipazione. Uno per uno. Applausi e strette di mano. Uno per uno. Ne presentarono l6. “Mi hanno lasciato per ultimo,” pensai, “evidentemente il mio è il racconto più bello e vogliono farmelo leggere. Speriamo di andare meglio dell’altra volta.” Ma il presentatore non era della stessa opinione: invece di dire “e per ultimo ma adesso scoprirete il perché” prese il microfono e disse “bene, abbiamo finito, grazie per essere accorsi così numerosi e buon natale a tutti.” Si erano dimenticati di me. Ci rimasi malissimo, ma non dissi niente e anzi finsi di sorridere. Mia sorella Manuela invece si alzò e andò di corsa a far notare la cosa al presentatore. Che sbiancò. “Scusate, scusate” disse facendo segno a tutti di riprendere posto, “ci siamo dimenticati del l7 vincitore. Vedete, è la prima edizione del premio e un intoppo doveva pur succedere. Doppi applausi quindi per Fabio Lubrano!” I partecipanti mi accordarono il doppio applauso (addirittura sentii qualcuno alle mie spalle mormorare ‘poverino…’). Andai a ritirare libro e attestato. “Scusate per il disturbo,” dissi sorridendo, per sdrammatizzare. Il presentatore a quel punto si commosse. “Ma no… cosa dice…” mormorò con un filo di voce, “anzi… è stato un piacere!” Tornai a sedermi. Una vecchietta seduta di fianco a me decise che doveva consolarmi: “Almeno ha avuto i doppi applausi,” mi disse. “Eh già,” risposi. Cretino che ero: quasi non mi accorgevo di quanto ero stato fortunato.
• Sempre a dicembre Matteo Bianchi mi comunicò la notizia più incredibile che abbia mai ricevuto in ambito editoriale (in altri ambiti la più sorprendente è stata quando la mia fidanzata mi ha confessato di desiderarmi fisicamente). “Hai vinto il concorso di Stampa Alternativa. Faranno un millelire tutto tuo,” mi disse Matteo. Lo ringraziai. “C’è solo un problema,” aggiunse, “il racconto è troppo corto: te la senti di allungarlo di otto-dieci pagine?” Me la sentivo. Scrissi le otto-dieci pagine quella sera stessa, sempre a casa di Bruno, mentre a casa di mia madre due degli altri sette miei fratelli si stavano picchiando non ricordo più per quale motivo. Quando Matteo lesse l’allungamento mi telefonò per dirmi che l’aveva trovato addirittura più bello del racconto base. Gli risposi che sentivo di doverlo ringraziare. Il libro sarebbe uscito a maggio.
• Nel gennaio del 1994 feci conoscenza con lo scrittore e critico letterario Giuseppe Bonura. Lesse il mio libro e lo propose a Raffaele Crovi, direttore della casa editrice Camunia. Crovi mi fissò un appuntamento. Arrivai con più di un’ora di ritardo: la redazione si trovava in Ripa di Porta Ticinese 9l ma io, chissà perché, mi ero autoconvinto che fosse al l9. Dopo aver tentato inutilmente di comunicare anche in forma elementare con la portinaia del l9 (ad ogni mia domanda rispondeva dicendo: “cossechehaidett?”) feci tutta la Ripa guardando ad uno ad uno i nomi sui citofoni. All’altezza del 40 ebbi l’illuminazione: povero me, avevo invertito le due cifre! Corsi al 9l e mi presentai alla segretaria. “Come mai in ritardo?” mi sgridò. Le spiegai il contrattempo buttandola sul comico. Rimase serissima. “Non è colpa nostra,” disse perentoria. “Non intendevo dire che,” iniziai, ma fui coperto dal rumore dello sciacquone del water. “Ecco, il Dottor Crovi si è liberato,” annunciò la segretaria non so fino a che punto consapevole dell’ambiguità, “si accomodi pure di là.” Mi accomodai di là. Dopo qualche secondo arrivò Crovi: era un ometto basso e corpulento, con una faccia da orco buono. Mi prese il dattiloscritto di mano. “Bonura mi ha detto che hai scritto un libro molto interessante,” mi disse, “e Bonura è uno dei migliori critici in circolazione, ma attenzione!” alzò la voce. Mi sforzai di fare una faccia più attenta. “Io non mi lascio condizionare da nessuno,” dichiarò. Annuii. “Ecco,” dissi poi, “prima che lei legga il libro vorrei farle una domanda…” Crovi mi fece segno di tacere. “Qui le domande le faccio io,” mi spiegò. Volle sapere quanti anni avevo, che studi avevo fatto, per quale motivo scrivevo, se ero omosessuale, se nel mio libro c’erano scene di sesso e se sì quante. Risposi che avevo 21 anni, che avevo un diploma di liceo scientifico, che scrivevo per divertimento, che non ero omosessuale e che nel mio libro non c’erano scene di sesso. Crovi fece una smorfia, infastidito. “Anche Culicchia non ne parla tanto,” raccontò offeso, “io gliel’ho detto qualche settimana fa e lui mi ha risposto che…” Squillò il telefono. Crovi alzò la cornetta e rimase in silenzio ad ascoltare. Improvvisamente gridò: “Cretino!” e sbatté giù la cornetta. Fui tentato di chiedergli se fosse Culicchia. “Mi faccia la domanda cui accennava prima,” mi disse poi. Un po’ turbato, gliela feci. In sostanza spiegavo che non ero uno di quegli scrittori che credono che ogni parola del loro libro sia platino e non la cambierebbero neanche sotto tortura. Ero conscio di essere solo all’inizio e ogni proposta di modifica o addirittura riscrittura del testo mi avrebbe trovato disponibile. Pertanto domandai a Crovi di essere il più sincero possibile, se non gli piaceva il mio libro volevo che me lo dicesse senza troppe storie e senza imbarazzi per Bonura. “Vorrei evitare il gioco delle macchiette con io che telefono venti volte al giorno e lei che non si fa trovare,” conclusi. Gli brillavano gli occhi. Iniziò a parlarmi di suo figlio, di sua moglie, del suo rapporto con Firenze. Mi disse di telefonargli ad aprile che mi avrebbe dato una risposta definitiva. “Potrei anche dirti marzo, ma dopo il tuo discorso voglio essere sicuro di non dirti che non l’ho ancora finito.” Mi diede un’affettuosa pacca sulla spalla e ci salutammo.
• Ad aprile telefonai. “Lubrano!!! Come sta?” mi domandò Crovi con allegria. “Bene bene, e lei?” risposi cercando di usare lo stesso tono cameratesco. “Bene bene, sono appena stato a Firenze. Ah, senta, per il suo libro: mi dia ancora un mese, non sono riuscito a finirlo.”
• A maggio ritelefonai. “Salve Lubrano! Mi faccia una cortesia, telefoni tra quindici giorni. Sa, sto partendo per Firenze.”
• Quindici giorni dopo composi nuovamente il numero di telefono della Camunia. “Settimana prossima,” disse Crovi, questa volta con un tono di voce serio, “la settimana prossima avrà una risposta definitiva.”
• Ritelefonai la settimana dopo. “Mi stia bene a sentire, Lubrano,” disse Crovi, sempre più serio, “domani la redazione si riunirà per decidere se pubblicare o meno il suo romanzo. Sappia intanto che ha già superato tre letture, il che non è poco. A domani, mi raccomando.” Quella fu l’ultima volta che riuscii a parlare con Crovi.
• A partire dal giorno seguente e per i quattro mesi successivi ebbi contatti soltanto con la segretaria, la quale mi raccontava di come Crovi fosse appena partito per Firenze e di come, purtroppo, non sarebbe tornato prima di due settimane. A quanto pareva Crovi era protagonista di un fenomeno davvero curioso: si trovava a Milano tutto il pomeriggio, tranne nei due minuti in cui chiamavo io, durante i quali riusciva misteriosamente a trovarsi a Firenze. “Hai chiamato Crovi?” mi chiedeva spesso Bonura. “Sì, l’ho chiamato oggi ma purtroppo non c’era, era a Firenze,” gli rispondevo. “Ma come?! Se siamo stati al telefono tutto il pomeriggio!” esclamava Bonura, affascinato dai super-poteri di Crovi. Andò avanti così fino a settembre. Poi mi arresi.
• Nel maggio del ’95 uscirono Kaori non sei unica, il libro curato da Matteo e il mio millelire per il quale Matteo aveva suggerito un cambio di titolo. Io lo avevo disgustosamente chimato detto tra parentesi, lui avanzò l’ipotesi di dare come titolo al libro la citazione iniziale di Jerome che avevo messo a mo’ di introduzione: l’amore è una brutta cosa con un bel nome. Ringraziai Matteo per l’imbeccata e il millelire uscì con quel nuovo titolo che, insieme alla copertina di Matteo Guarnaccia, è il vero responsabile del quarto d’ora di celebrità che vissi: alcuni giornalisti mi telefonarono a casa per rivolgermi qualche domanda; nessuno aveva ancora letto il racconto però volevano intervistarmi lo stesso. Mi chiamò Giusy Ferrè de la voce: mi spiegò che non aveva ancora letto il racconto ma aveva sentito parlare di me da Marcello Baraghini e voleva inserirmi in un articolo che stava scrivendo sui giovani scrittori. Poi mi telefonò una giornalista de l’espresso che, nonostante non avesse ancora avuto modo di leggere il mio libro, aveva in compenso letto l’articolo di Giusy Ferrè e siccome voleva anche lei scrivere un pezzo sui giovani scrittori desiderava farmi un paio di domande. Poi fu la volta della redazione della trasmissione televisiva tribù di Telemontecarlo: avevano letto l’articolo su l’espresso e volevano invitarmi in trasmissione: il mio racconto non lo avevano letto, ma non era importante, gliene avrei parlato io prima della trasmissione.
• Durante quelle due settimane mi resi conto di possedere un talento invidiabile: per un motivo o per l’altro, i giornali su cui compariva il mio nome nel giro di un mese al massimo erano costretti a chiudere. Il settimanale di fumetti GULP chiuse dopo due numeri aver ospitato il mio racconto pubblicato in Kaori non sei unica. A due settimane dall’uscita dell’articolo di Giusy Ferrè su la voce, Indro Montanelli nel corso di una drammatica conferenza stampa dichiarò conclusa l’eperienza del quotidiano. Cecchi Gori ordinò la sospensione di tribù un mese dopo la mia intervista. Nel suo ultimo numero l’europeo commise l’imprudenza di accennare al mio libro. Si salvò soltanto l’espresso ma solo perché, accortisi del pericolo, rimediarono affrettandosi a far uscire insieme al giornale una collezione di film erotici.
• Nell’ottobre del 1995 scrissi il mio primo racconto drammatico, l’orso nel secchio. In quel periodo ero particolarmente depresso e la sola vista di una panchina scrostata era sufficiente a farmi sprofondare nel più cupo pessimismo. In quell’occasione mia madre si era azzardata a riporre un orsacchiotto di peluche in un secchiello rosso: subito immaginai una vicenda a dir poco tragica. Mandai la tragedia al concorso racconti? dell’omonima associazione culturale torinese. Nell’aprile del 1996 mi telefonarono per comunicarmi che il mio racconto era stato selezionato per essere pubblicato in volume assieme ad altre novelle di autori italiani, francesi e inglesi. (Quasi come nelle barzellette: allora, ci sono un italiano, un francese e un inglese che scrivono un racconto. Il francese…) Il libro venne presentato al Salone del Libro di Torino dove la cabarettista Luciana Littizzetto ne lesse un brano. “Dov’è Fabio Lubrano?” chiese dal palco al termine della lettura, guardando verso il pubblico. Alzai la mano come a scuola. “Mi hai spezzato il cuore con questo racconto!” disse con fare teatrale mettendosi una mano, per l’appunto, sul cuore. Applausi. Mormorai molto stupidamente un ‘grazie’ e me ne tornai a Milano (ovviamente a causa di lavori non annunciati sul tratto Alessandria-Salcazzo il treno arrivò alla stazione di Porta Genova anziché in Stazione Centrale, dove mi stavano aspettando i miei amici. Minchiassì). Pochi giorni dopo mi ritelefonarono per spiegarmi che ad ogni edizione del concorso era abbinato una vacanza seminario: negli anni precedenti erano stati in Francia, poi in Irlanda, poi di nuovo in Francia, poi di nuovo in Irlanda. Quest’anno purtroppo si rimaneva in Italia, però in una villa a Capri, tutto a spese del Comune di Torino. “Quest’estate vado in vacanza anch’io!,” pensai stupito, “e gratis! No, che gratis? Mi pago la vacanza con il racconto che ho scritto.” Ero soddisfatto. Ero un vero scrittore. A settembre mi arrivò una lettera da parte dell’associazione: era una lettera a metà strada tra l’amarezza e lo sbalordimento nella quale mi raccontavano che per la prima volta in dieci anni il Comune di Torino aveva negato i fondi per la vacanza seminario. Per riparare mi promisero di spedirmi una copia dell’antologia in inglese e una in francese. Be’, meglio di niente, pensai. Non arrivarono mai.
• Nel marzo del 1996 Fulvio Panzeri mi telefonò, mostrando un qualche interesse per il mio romanzo. Panzeri sarebbe stato il futuro direttore di una collana (che non uscì mai) della casa editrice Zanzibar. Ci incontrammo un pomeriggio alla libreria Rizzoli in galleria Vittorio Emanuele. Decisi di fargli subito la stessa premessa che avevo fatto a Raffaele Crovi, ma lui la prese larga parlando male di Brizzi e Culicchia. Mi schiarii la voce per dichiarare che non ero uno di quegli scrittori che credono che le proprie parole siano platino quando lui mi raccontò della sua amicizia con Arbasino. Iniziai a dirgli che avevo conosciuto Crovi e che gli avevo detto delle cose e lui mi mise a parte, come è piccolo il mondo, del suo stranissimo rapporto proprio con Crovi. Alla fine gli misi il libro in mano e gli dissi: “Se bisogna riscriverlo lo riscrivo.” Lui rispose: “Malinverno… bel titolo!” e mi salutò.
• Aspettai qualche mese, poi gli telefonai. Mi disse che non aveva ancora finito di leggere il libro, in ogni caso le prime settanta pagine erano da rivedere. Risposi che ero disponibile a farlo, purché mi dicesse in quale direzione muovermi. Mi pregò di lasciargli prima finire di leggere tutto il libro, poi ne avremmo parlato. Lo richiamai altre volte, ma non me ne parlò mai.
• Nell’aprile del 1996 fui contattato da un ragazzo di Napoli, Oreste. Era stato l’aiuto regista di Mario Martone nell’Amore molesto e aveva letto il mio millelire. Voleva trarne un cortometraggio da presentare a qualche concorso cinematografico. Ero d’accordo? Buffo come prima ti diano delle notizie da andare a comprare un intera fabbrica di spumanti e poi, come se niente fosse, ti chiedano se sei d’accordo. Ovviamente ero d’accordo. Ci sentimmo altre volte, discutemmo della sceneggiatura, di dettagli tecnici (e delle attrici). Le riprese sarebbero iniziate alla fine di giugno, in una biblioteca di Napoli. Oreste mi avrebbe ospitato a casa sua se voleva andare a vederle, oppure se volevo partecipare al montaggio, o a tutte e due le cose. Non vedevo l’ora.
• Nel giugno del 1996 un gravissimo lutto familiare colpì uno degli attori. Si pensò (opportunamente) che non era il momento adatto per girare un cortometraggio comico. Si rimandò tutto a un mese indeterminato. Poi lo si rimandò ancora. Infine non lo si girò più.
• Intanto, instancabile, Matteo Bianchi aveva portato il mio libro alla redazione della collana Stile Libero dell’Einaudi. Ricordo che nemmeno in quell’occasione ero riuscito a trovare una variante per ringraziarlo. Il libro sembrò essere stato accolto con entusiasmo. Più passava il tempo più il mio libro li entusiasmava: volevano pubblicarlo, però forse no, magari corretto, ma in fondo anche così, in ogni caso se non era proprio quel libro era un altro, una cosa era certa: loro erano interessatissimi al progetto Lubrano (ero diventato un progetto! Ah, averlo saputo fin da piccolo!) Sembrava quasi che non riuscissero a concepire l’idea di poter continuare a lavorare nell’editoria senza di me. Nel marzo del l997 decisi di telefonargli. “Sono Fabio Lubrano,” dissi, aspettando di sentire esplodere dei petardi di festeggiamento. Silenzio. Non riuscivano a ricordare chi fossi (forse, come mi è stato recentemente suggerito, avrei dovuto aggiungere ‘il Lubrano del progetto omonimo’). Dopo qualche minuto iniziarono a sospettare chi fossi e in qualche misura cosa volessi da loro. E a quel punto mi dissero che sì, in effetti il libro gli era piaciuto, confermarono che erano interessatissimi all’autore Lubrano e ammisero che in effetti facevano fatica ad accettare l’idea di poter lavorare nell’editoria senza di me. Però purtroppo Stile Libero non avrebbe pubblicato narrativa fino al l998 almeno. Che peccato. Eh sì, che peccato. Quindici giorni dopo (quindi sempre nella prima metà del l997) trovai in libreria i roamnzi Frisk di Cooper e Branchie di Ammaniti.
• Poche settimane fa mi è arrivato a casa un pacco giallo speditomi da Camunia. Dentro c’era il mio romanzo e una lettera. C’è scritto: Gentilissimo Fabio Lubrano, Camunia non pubblicherà più opere di narrativa. Riteniamo tuttavia doveroso farle riavere il suo romanzo, anche in considerazione del fatto che il Direttore Raffaele Crovi aveva infine deciso di pubblicarlo. Distinti saluti.