ANDREA MANCINELLI
Sono felice di ospitare finalmente un racconto di Andrea Mancinelli, per tanti motivi. Il primo, un po’ sentimentale, perché è stato il primo amico “scrittore” che ho conosciuto, ben 10 anni fa.
Poi perché gli devo una riconoscenza eterna per avermi fatto incontrare Pier Vittorio Tondelli (e certi debiti sono assolutamente inestinguibili!).
Infine, ma soprattutto, perché ho sempre amato molto i suoi racconti, quella scrittura elegante e matura, così impeccabile fin dal suo giovanissimo esordio negli under 25.
Una vita da uomo di mondo
Dopo quella brutta faccenda Leo aveva cominciato a venire alla moschea tutti i pomeriggi.
Si sedeva per ore nel piccolo bar guardandosi intorno e bevendo un thè speziato e dolcissimo. Prima accadeva di rado perchè Susanne aveva un piccolo cottage in Normandia e di solito ci si rifugiavano ogni volta che potevano, almeno fino a quando Susanne non se ne era andata. In seguito Leo aveva rimpiazzato le passeggiate lungo l’oceano con i tragitti regolari del Jardin de Plantes e con le lunghe pause solitarie nella moschea.
Il bar era simile a quelli che si possono incontrare a Marrakesh o in qualunque luogo d’oriente. Mosaici rossi e d’oro ricoprivano le pareti fino alle volte ad arco. Sgabelli coperti di stoffa damascata e tavoli di rame intarsiato accoglievano i clienti. Dolci colorati erano ammonticchiati in vassoi bruniti accanto a due bracieri accesi. Le voci arabe e francesi si fondevano con un mormorìo continuo d’acqua e coprivano il rumore del traffico. La città era confinata oltre i minuscoli giardini e le mura, guardata a vista da cupole e minareti.
Di tanto in tanto Leo chiedeva di visitare l’interno della moschea e si sottoponeva volentieri alla cerimonia dei lavacri purificatori. Tre volte le mani, i gomiti, le orecchie e i piedi, e sempre qualcuno gli domandava se voleva entrare nel mondo della vera fede. Leo rinunciava a spiegare il perchè di quelle visite. Come gli altri riempiva il bicchiere alle fontane, come loro restava inginocchiato sul tappeto o rifletteva ad occhi chiusi. Pensava a Susanne e questo era tutto. Non aveva necessità spirituali particolari né si era mai interessato alla religione.
La cosa buffa, secondo Leo, era che neppure Susanne aveva mai voluto saperne di queste cose. Per dieci anni aveva lavorato come segretaria in una grande azienda di Port Marly, esattamente come lui. Si erano conosciuti in mensa e dopo qualche mese Leo si era trasferito nell’appartamento di Susanne. Lui stava per essere buttato fuori dal posto in cui stava, mentre Susanne viveva nella casa di una sua zia. Le cose erano andate bene per due o tre anni, finché di punto in bianco Susanne non era impazzita – o almeno così sembrava a Leo. Alla fine era sempre insoddisfatta e depressa, piangeva senza motivo, diceva di voler lasciare il lavoro e che intendeva partire. Leo naturalmente non ci aveva dato peso, finchè le cose tra di loro si erano guastate troppo. Allora le aveva proposto di andare da un medico, da uno strizzacervelli. Leo aveva una conoscenza assolutamente generica della psicologia – intendeva con questo farle solo capire che bisognava fare qualcosa per non affogare. Ma Susanne per poco non lo aveva sbattuto fuori di casa gridando che non era pazza e che voler ritrovare se stessi non significa essere dei malati.
Ritrovare se stessi, si era ripetuto Leo senza capire. Quel che avevano cercato di fare tutti vent’anni prima e che poi tutti avevano abbandonato. Secondo lui si trattava solo di stronzate. Un modo come un altro per restare con le mani in mano mentre la gente come lui si dava da fare senza troppi grilli per la testa. Ne aveva abbastanza degli ultimi freaks e dei disperati che vagavano per le strade di Parigi in cerca dell’happiest dream. Lui si riteneva fortunato ad avere un buon lavoro con la crisi che c’era in giro, ed una donna ed un piccolo appartamento. Avrebbero potuto sposarsi e avere dei figli col tempo – così pensava Leo. Anche Susanne era stata daccordo tanto tempo prima.
Poi lei gli aveva detto che voleva andarsene da Parigi. In India. Una sua amica conosceva dei missionari che potevano trovarle un posto in una comunità di lebbrosi vicino Benares. Sarebbe stata via qualche mese dandosi da fare per quei poveri malati bisognosi, come diceva lei. E intanto ci avrebbe pensato. Leo aveva chiesto se poteva restare nell’appartamento, ma Susanne si era lasciata scappare che non era più tanto sicura dei loro progetti insieme, e che andava via anche per questo.
Leo allora aveva trovato un monolocale a Montparnasse, vicino Port Royal. Da lì tagliava verso il Pantheon, raggiungeva il quartiere Daubeton e la moschea. Ci andava sempre a piedi, con qualunque tempo. Non si faceva mai accompagnare da nessuno. Ogni tanto Susanne gli mandava delle lettere da Benares. Lettere deliranti secondo Leo. Ormai doveva essere impazzita sul serio. C’erano tutte queste descrizioni di esseri raccapriccianti divorati dalla malattia, dalla fame e dalla miseria. Ma Susanne sembrava raggiante e Leo immaginava potesse aver dato un senso alla sua vita in quel modo.
Forse era sulla buona strada per rivalutare la vecchia Europa ed il loro rapporto. Non poteva esserne certo ma le ultime due lettere accennavano alla possibilità di rivedersi entro poco tempo. Tra le righe si coglieva l’immagine della vecchia Susanne – Leo lo pensava fermamente, pronto a dimenticare il passato. Sembrava esserci uno spiraglio nella frenesia di Susanne e Leo tentava di immaginarsi nuovamente con lei, come una coppia uguale a milioni di altre. Per lui quell’idea non aveva nulla di scandaloso.
Due mesi prima Leo era stato licenziato ma non aveva fatto nessuno sforzo per trovare un altro lavoro. Da quando Susanne era entrata in aspettativa lui aveva perso ogni interesse per quello che faceva. Anche prima si limitava ad essere diligente e rispettoso. Sapeva di non essere considerato come un possibile, futuro caporeparto. Non se lo sentiva dentro, non fino a quel punto. Aveva interrotto gli studi per lo stesso motivo. E quando la crisi aveva colpito anche la sua azienda lui era stato semplicemente una delle tante teste inutili cadute sotto la mannaia. Dopo la faccenda di Susanne immaginava che gli sarebbe toccato anche questo. Non aveva avuto la forza di opporsi, di scendere in piazza. Aveva qualche soldo e poteva tirare avanti fino all’anno successivo. Aspettava Susanne per decidere il da farsi. Per il momento aiutava gli amici a fare dei lavori in casa, o si dava da fare come pittore. Imbiancare muri gli piaceva soprattutto perchè poteva lavorare spesso da solo, nessuno tra i piedi. Imbiancava e aspettava le lettere di Susanne e andava a bere thè alla moschea.
Finchè una settimana prima Susanne gli aveva scritto che sarebbe tornata entro poco tempo. Non sapeva ancora quando, ma presto. Leo aveva tirato un sospiro di sollievo e si era deciso a dare un’occhiata alla pagina degli annunci economici. Si era detto che adesso era arrivato il momento. Ormai non vedeva più che due o tre amici, e con loro si era sbilanciato al punto di dire che con ogni probabilità sarebbe tornato con Susanne e che non si poteva mollare tutto come se niente fosse. Ognuno aveva le sue colpe da gettarsi alle spalle, sicuro. Anche lui doveva aver avuto le sue responsabilità.
Non si era praticamente mosso da casa finchè Susanne non lo aveva rintracciato. Allora avevano fissato un appuntamento alla moschea. Leo lo giudicava un posto fortunato e adatto per queste cose. Si poteva stare tranquilli e discorrere con tutta calma delle faccende importanti.
Di solito c’erano persone che leggevano o scrivevano o parlavano delle cose più strane. Per quanto possibile Leo ascoltava le conversazioni che si svolgevano ai tavoli accanto al suo per passare il tempo. Faceva finta di leggere e intanto origliava. Gli piaceva farlo soprattutto con le coppie giovani. Un pò come se intendesse capire qual’era la vita di quelli come lui e Susanne, e se anche a loro capitava di virare bruscamente o di essere licenziati o magari di impazzire per qualche mese. Aveva pensato di segnarsi le storie più divertenti e di scriverci un libro. Però non era altrettanto abile a scrivere. Era solo una spia a cui piaceva leggere dalle labbra per entrare nelle storie altrui.
Adesso al tavolo accanto al suo c’erano due studenti, un ragazzo e una ragazza. Si tenevano per mano e il ragazzo parlava di un esame che doveva dare. Senza essersi accorto di Leo raccontava dei supplizi che secoli prima si svolgevano a Parigi, quando un corteo di magistrati e ufficiali accompagnavano il condannato al luogo dell’ese-cuzione e lo costringevano ad inginocchiarsi e a confessare a voce alta il delitto commesso. Scalzo, in camicia, con la corda al collo e in mano un cero da sei libbre – diceva il ragazzo – il condannato poteva essere impiccato decapitato, messo sulla ruota, squartato vivo o bruciato sul rogo. Gli assassini di umile origine venivano sottoposti al supplizio della ruota. Fissati ad una ruota di carrozza le loro gambe e le loro braccia venivano disarticolate e spezzate dal carnefice a colpi di sbarra di ferro. Mentre le persone di buona famiglia avevano l’onore di essere decapitate.
Il ragazzo ridacchiava mentre diceva questo, e Leo rivolse la sua attenzione altrove. Due donne discutevano delle loro prossime vacanze, la Thailandia o il Messico o Honk Kong. Sfogliavano cataloghi e non riuscivano a decidersi. A Leo parve strano sentirne parlare in maniera così annoiata, come si trattasse di uno spiacevole dovere. Accettava il fatto di non avere denaro sufficiente per potersene andare ma la presenza delle due donne gli pareva un insulto al suo vivere decoroso. Sicuramente loro non sarebbero mai partite per Benares e avrebbero accolto con orrore l’idea di avvicinare un lebbroso. Susanne si accontentava di molto meno per appagare la sua ansia di ricerca, anche se il mondo non sarebbe mai cambiato col suo solo aiuto. E Leo le era quasi grato di questo. Sarebbe partito con lei se gliel’avesse permesso. Il tempo sufficiente per convincerla a tornare, per spiegarle che non era più l’epoca dei Don Quixcotes solitari.
Non c’erano altre coppie nel locale. Solo persone sole che leggevano e bevevano il loro the a piccoli sorsi. Cominciava a fare davvero caldo e Leo pensò che avrebbe potuto passare all’aperto, nel piccolo chiostro annesso al bar. Aveva esaurito l’interesse nei confronti degli studenti e delle due donne e pensava che forse fuori sarebbe riuscito a cogliere qualche altra conversazione in corso. Ormai non mancava molto all’arrivo di Susanne ed era molto irrequieto. Non riusciva a star fermo ma soprattutto non sapeva cosa lei gli avrebbe detto. Lasciò qualche franco sul tavolo di rame e passò di fuori. Si sedette all’ombra di un albero, vicino ad una piccola fontana. Oltre a lui c’era solo un uomo che leggeva il giornale. Aveva degi occhiali scuri benchè il sole fosse ormai basso. Era un vero pomeriggio di luglio, molto umido e afoso. Sciami di moscerini, attirati dal rigoglio della vegetazione e dall’acqua delle fontane, riempivano l’aria. Leo pensò che in fondo faceva più caldo che nel locale ma decise di rimanere. Attese l’arrivo del cameriere ed ordinò un altro the ed un bicchiere d’acqua, ed annuì quando sentì il cameriere dire: “Ci sono davvero molti insetti oggi, vero?” – come se l’avesse appena udito.
Il cameriere disse ancora: “Aspetti, accendo l’apparecchio. E’ questione di un attimo.” Si allontanò di qualche passo e, avvicinandosi al muro del chiostro, schiacciò un interruttore. Leo non capì subito cosa avesse fatto il cameriere. Poi, nel giro di qualche secondo, udì uno strano rumore sopra di lui. Come una serie di piccole scariche elettriche; o come il rumore che fa un oggetto incandescente a contatto con l’acqua. Allora guardò in alto e si accorse che appesa all’albero c’era una di quelle gabbie di acciaio che servono per uccidere gli insetti. Nella gabbia due lampade violette li attiravano, ma nelle grate metalliche scorreva la corrente. Quando l’insetto si avvicinava per via della luce cozzava contro le strette maglie percorse dall’elettricità morendo all’istante.
Quello che Leo udiva era lo sfrigolare dell’insetto bruciato dal calore. Piccole scintille rossastre coloravano l’aria per poi piombare sul fondo della gabbia. Sembrava che di colpo tutti i moscerini e le zanzare avessero deciso di immolarsi, perchè il rumore era continuo. Leo era affascinato da quello spettacolo e segretamente compiaciuto per il modo in cui gli insetti si davano la morte. C’era qualcosa di perverso in quel che provava eppure non poteva fare a meno di guardare. Un breve istante di calore e poi soltanto cenere.
Man mano che la luce calava l’effetto delle lampade violacee era sempre più intenso. Capitava anche che gruppi interi di insetti si gettassero sulle grate creando dei minuscoli spettacoli pirotecnici. Capitava anche che un coleottero o una vespa finissero inavvertitamente per avvicinarsi troppo alla gabbia, ed allora Leo vedeva il loro corpo esplodere in minuscoli frammenti – una piccola fiammata e del vapore – poi più nulla. Tutto si ripeteva con allucinante regolarità, come un mitragliamento continuo. Sembrava che gli insetti non dovessero finire mai.
Quando il cameriere gli aveva portato il thè Leo aveva detto: “Non ne ho mai visto uno in azione. E’ davvero efficace, vero?”
“Si. E’ una cosa formidabile. E quegli insetti sono la cosa più stupida che esista. Basta un filo di luce e non capiscono più niente” aveva risposto il cameriere.
“E’ davvero interessante” aveva detto Leo.
“Si.” Il cameriere aveva preso i soldi e se ne era andato.
Leo era rimasto ad aspettare Susanne. L’aveva aspettata fino all’orario convenuto e poi ancora e ancora, per intere mezz’ore, finchè fu certo che non sarebbe venuta. Allora aveva smesso di guardare lo spettacolo degli insetti e della gabbia e si era allontanato pensando che forse si era trattato di un contrattempo. O di un caso. O di un incidente. Aveva aspettato con la certezza che sarebbe venuta e che ci avrebbero messo quella famosa pietra sopra o che almeno ne avrebbero parlato.
Ma Susanne non era venuta e lo aveva lasciato lì ad aspettare. E ad un certo punto Leo si era detto che in fondo avrebbe potuto fare anche come quegli insetti se la gabbia fosse stata abbastanza grande per lui. Un istante di sofferenza e poi il buio. In ogni caso senza Susanne trovava che non valesse la pena di darsi tanto da fare – di leggere gli annunci economici e di fare la persona per bene e di pensare al futuro. Un secondo di luce, una fiammata di vapore e poi il buio. Questo sì.
In seguito, per molto tempo dopo quel pomeriggio alla moschea, Leo pensò di cercare Susanne e di chiederle una spiegazione. Credeva di averne il diritto e di volerlo sul serio. Ma ogni volta che sollevava la cornetta o passava vicino alla casa dei vecchi amici comuni qualcosa lo tratteneva, e finiva col riattaccare o col tirare dritto. Aveva fatto sapere di non voler più vedere nessuno e non era più stato alla moschea. Aveva dato un taglio netto al passato e pensava che forse entro qualche anno sarebbe riuscito a trovare un’altra donna e a metter su famiglia. Poteva ancora crederlo, nonostante tutto. Poteva anche scommetterci su.
Soffrì a lungo ed entrò nel vuoto più totale per circa tre anni e poi, ad una festa di capodanno, incontrò una donna e dimenticò. Gli parve la cosa più normale del mondo. Dimenticò di aver passato tanto tempo a bere the e ad aspettare Susanne e a guadare gli insetti carbonizzati dalla gabbia elettrificata, giù alla moschea. Solo ogni tanto gli sembrava di aver smarrito un momento cruciale della sua vita ma aveva finito col rimuovere quel pomeriggio di tanto tempo prima. Aveva ricominciato a lavorare e fantasticava sul nome da dare al primo figlio e pensava ad arredare la nuova casa con un certo gusto. Sua moglie era una donna quadrata ed intelligente, non rassomigliava per nulla a Susanne. Voleva occuparsi di lui e della prole e far carriera nel lavoro. Era insomma, per Leo, quel che ci voleva per vivere una vita come si deve, sacrosanta e giusta dopo tanti problemi. Una vita da uomo di mondo.