Ogni tanto uno si dimentica il perché di certe cose. Per me è una tale abitudine ricevere e leggere racconti di esordienti che ormai non mi chiedo più perché lo faccio: lo faccio e basta. Poi succede all’improvviso qualcosa che te lo fa ricordare. A me è accaduto un pomeriggio tardi, quando ho letto questo racconto dello sconosciuto Alessio Arena. Un testo talmente intenso, originale e spiazzante, da avermi lasciato alla fine senza fiato. E da ricordarmi con assoluta precisione del motivo reale per cui porto avanti il progetto di ‘tina: per avere il piacere di poter pubblicare e far conoscere racconti come questo.
Il Santo
I figli erano nascosti nel recinto murato della grande casa di tufo, quella attaccata alla piazza del Teatro San Ferdinando.
Tutti quanti chiusi lì dentro, fatta eccezione per nessuno, nemmeno per l’ultimo che a Donna Agnese era rimasto appeso sotto la gonna Charleston coi plissè, mentre usciva dalla chiesa del Carmine dove s’era fatta la messa per il funerale di Padre Michele, allargando le gambe mentre camminava, come a voler terminare lo strano numero da circo che pareva avesse ideato per l’occasione vestendosi a quel modo e piangendo terribilmente durante la funzione, sfatta, il viso sciolto nella cipria.
Non aveva mai rischiato così tanto come quella volta, Agnese, e trascinandosi a casa aveva temuto il peggio sentendo il piccolo che quasi cadeva a terra; aveva stretto la pancia e i reni perché non succedesse davanti agli occhi della gente.
Del resto era così che accadeva.
Non c’era modo di accorgersi del momento in cui i piccoli stavano per venire al mondo, nessun presentimento, l’inizio di una normale contrazione, niente di tutto questo: i figli erano nati senza dolore, spesso duravano nella pancia di Agnese poco più di tre mesi, ma a volte venivano fuori molto prima, in un posto che non fosse troppo illuminato, o ancora molti mesi dopo, improvvisamente, quando non li si aspettava più e in casa si imbandivano le tavole della terrazza perché tutti avevano creduto a un miracolo, a una guarigione, si mangiava pesce fresco cucinato da Rituccia Confalone, la madre della festeggiata, e c’erano i parenti più stretti e la buonanima di Padre Michele che diceva bisognava scordarsi del peccato di Sant’ Antonio.
Invece non sembrava esserci nessuna salvezza.
I figli venivano sempre, bianchicci, rosei, con delle piccole chiazze marroni e i peli sul muso, nascevano tutti senza dolore e grugnivano soltanto dopo, stipati nel recinto insieme agli altri che erano già diventati enormi, bestie maledette che rotolavano nel fango e mangiavano le immondizie della famiglia, che quando cadevano pesanti come terribili ingiurie dal balcone della stanza di Agnese, loro non erano neanche capaci di alzare la testa.
Nessuno sapeva di quei maiali.
Nessuno doveva saperlo fino al giorno che quel bastardo di Gennarino Broadway fosse tornato, e in un modo o nell’altro avesse messo fine a questo incubo.
Ma le cose dopo la morte di Padre Michele erano davvero peggiorate.
– E mo’ che faccio ? – gli aveva detto Agnese quando era la terza domenica che non si faceva la messa, e la buonanima stava nel letto di casa sua bianco in volto e con quegli occhi da calamaro.
– Tu devi pregare, figlia mia, tu non c’hai la colpa di niente- le disse.
– E quando la gente se ne accorge io che devo fare? Mica mi posso nascondere per sempre, Padre Miché, io non ce la faccio.
– La colpa non è tua – le disse di nuovo il vecchio, portandosi una mano alla gola – Io penso che me ne devo andare, e a Gennarino non lo posso vedere più. Lui sta soffrendo al posto tuo, lo sai, né? Ogni volta che ti nasce qualcosa lui tiene la colpa, e la tiene sotto all’ombelico come le femmine, si prende tutto il dolore del parto, e va per terra, e non sa che deve fare, la gente si crede che è pazzo; lo fanno smettere di fare i film.
Agnese singhiozzò stringendo i pugni, e si scostò da Padre Michele andando alla finestra, un buco che spiava discreto le bestemmie gli incuci e le altre note della strada del Duomo.
– Lo sapete pure voi? – disse.
E chiaro che lo sapeva. La fama di Gennarino Broadway non poteva non arrivare anche a Napoli, che quel tipo di mercato s’era fatto più accessibile, in quegli ultimi anni, le cassette si contrabbandavano come sempre, ma adesso con meno imbarazzo nei ranghi segreti delle sale da gioco, quei locali che stavano a Pizzofalcone, nelle case degli studenti al centro storico, e anche nelle sagrestie delle chiese, a quanto pare; tutti quanti potevano vedere Gennarino che se la cavava come uno montone impazzito con quelle prostitute brune, bionde, rosse, enormi statue bagnate che non parlavano mai.
Del resto era stato detto sempre che Gennarino fosse nato con una specie di predestinazione per questo genere di cose, da quando sua madre lo partorì durante la Kreshniqje che si organizzava al suo villaggio con il solstizio d’inverno, e gli uomini e le donne che l’assistettero sorpresi e incoscienti nel mezzo della musica, si erano tenuti il bambino nelle braccia continuando la danza della guerra, forti di questa nuova arma ch’egli possedeva tra le piccole gambe, e che alle donne a prima vista era sembrato il cordone ombelicale.
Accadde in Albania, sull’isola di Sazan, una specie di prigione verde davanti alla baia di Valona, con una chiesa di legno appostata di fronte alle banchine sudice del porto, dove Gennarino aveva scoperto l’immagine di quel Santo che così sconcio stava accovacciato sulle ginocchia per dar da mangiare a dei porci, e ne era stato malignamente divertito e terrorizzato.
Perciò era corso al villaggio verso la casa dei genitori strappandosi la camicia di dosso e urlando che il cielo l’aveva spiato quelle notti ch’era rimasto nell’orto dei cavoli insieme alle scrofe più giovani e pulite, e l’aveva scoperto e aveva deciso che doveva farlo vedere a tutti i cristiani perché lui era l’unico che avesse mai potuto montare una scrofa, e perciò l’avevano fatto santo.
Fu così che la madre perse per sempre la voce, appena dopo aver detto di desiderare che il suo figliolo fosse stata una donna, e Gennarino fu messo su una nave che partiva per l’ Italia trasportando carbone e altre cose nascoste.
Arrivò fino a Napoli con l’aiuto di uno vecchio pittore di Tirana al quale aveva raccontato del segreto, e che l’aveva addirittura pagato perché posasse nudo per un dipinto.
Adesso l’unica preoccupazione del ragazzo sarebbe stata trovarsi un nome che qui fosse comprensibile e un posto dove stare.
Sul corso Umberto si trovò immerso dalle urla e dai pianti compassati di un corteo funebre. Erano soprattutto le donne, quasi tutte senza il velo sul capo, a creare quell’inferno, e quella che piangeva di più era senza altro Donna Rituccia Confalone, la fortunata erede della ditta funebre più importante della città.
Lei era molto credente, a quanto si raccontava, e per non sentirsi in colpa di tutti i soldi intascati a ogni incidente fatalità suicidio si faceva tutti i cortei, senza perdere tempo, passava le sue giornate da un’esequie all’altra, piangendo il morto come se fosse stato uno della famiglia.
Si diceva che per questa strana idea che s’era messa in testa aveva quasi abbandonato la casa, e che s’era talmente persa di vista i figli che stentava a riconoscerli.
Ma forse per un diverso piano del cielo, quel giorno, Rituccia notò il ragazzo riccioluto e scuro in viso che si guardava attorno come a voler aggrapparsi su qualcosa per non cadere, e disse – Gennarino! Mamma toia ti vuole bene, lo sai, ma te ne devi stare a casa – e lo prese con lei, portandolo nella grande casa di tufo che stava attaccata alla piazza del Teatro San Ferdinando e tenendolo anche dopo che l’equivoco fu chiarito.
L’equivoco era stato Gennarino Sang ‘e Puorco, il secondogenito di Donna Rituccia, un ragazzo schivo e introverso, ideale per la professione che avrebbe dovuto apprendere da sua madre, che da quel giorno perse il nome e andò avanti facendosi indicare con il nomignolo di Sang ‘e Puorco che gli era valso quando aveva sei anni e la madre gli aveva scoperto dei piccoli tagli sulle mani e sulle braccia ch’egli stesso si procurava per bersi il sangue, come se fosse stato quello di un maiale, che a Pasqua si usava per un dolce molto diffuso nella città.
Oltre che da lui, il nuovo Gennarino imparò da Amedeo, il più piccolo della famiglia che a quell’epoca faceva la quinta elementare, qualche rudimento della lingua, giusto quello che gli serviva per aiutare Donna Rituccia nel lavoro.
E da Agnese imparò i mille usi del segreto.
La vera donna di casa Confalone era una specie di angelo coi capelli rossi e aveva gli occhi storti.
Pur essendo poco più di una ragazzina si truccava per assomigliare a Rita Hayworth, impostando la voce se una volta c’era da parlare e facendosi rigida sui tacchi che rubava a sua madre.
Aveva un odore che ti colpiva la faccia, e impressionava le mani che già sudavano quando s’era girata di spalle che andava in cucina a preparare qualcosa, quando Gennarino tornava la sera.
Anche lei era molto religiosa, e la notte che si intrufolò nel letto del suo nuovo fratello, che era stato sistemato nel vecchio studio del marito di Donna Rituccia morto molti anni prima, sembrava che tremasse di gioia, e aspettò che Gennarino le dicesse qualcosa.
– Lo sai che sono un Santo? – le disse.
Agnese si tappò la bocca con un lembo del cuscino e rise quasi soffocando.
– Sei scema, è una cosa vera, io giuro – e quando lei si fu ripresa Gennarino raccontò della figura che aveva visto nella chiesa di legno di Sazan, e il resto.
– Non ci credo che lo hai fatto – gli disse Agnese alzandosi dal letto – E comunque se non ti piaccio me lo puoi dire normale, senza inventarti queste schifezze.
Gennarino scoprì di sentirsi improvvisamente felice e se la prese in braccio dondolandola per un po’e facendole quasi male. Scoprì di poterla sostenere con quel suo arnese stando con le braccia dietro la testa e stendendo le gambe, poteva farla andare su e farle raddrizzare gli occhi per qualche secondo, senza che lei si accorgesse di niente, mentre lei rideva e un po’ piangeva come quando si stava su quelle giostre altissime che sembravano le mani di Dio.
Quando avevano finito Agnese gli disse che si, probabilmente era un Santo, ma uno più bello, uno più grande e importante di quello che aveva raccontato, perché Sant’Antonio era un tipo strano, stava con gli animali più che con gli uomini e raccontavano che fosse andato all’inferno per rubare il fuoco e portarlo sulla terra dove non esisteva.
Poi gli disse – Me lo dici perché ti sei inventato quella cosa, prima?
Gennarino non rispose.
Ma quella notte non l’avrebbe dimenticata nemmeno lui, che adesso sapeva, e rideva, nel frattempo, era entrato nel segreto e aveva fatto entrare il segreto in una donna, il sudore che adesso non sapeva di cavoli, i denti e i pugni serrati, il piacere.
Passarono gli anni, e Gennarino vedeva passare figli suoi da ogni angolo della città, le donne che lo incontravano sapevano di andare sicure con lui, e se c’era dove mettere il bambino e da dargli da mangiare, allora valeva la pena farlo bello come Gennarino Broadway che sarebbe diventato di lì a poco un attore, sicuramente.
L’unica a non aver mai partorito un figlio suo era proprio Agnese, che doveva andarselo a prendere nei letti delle altre, e piangeva per non aver tempo di capire cosa le succedesse e cosa avrebbe fatto quando Gennarino disse me ne vado, che era Settembre, e il suo corpo grugnì senza motivo.
Fu poco tempo dopo che le nacque il primo maiale, in una pozzanghera di piume bianche, mentre con un coltello da carne stava sventrando il materasso nel vecchio studio di suo padre, dove quella notte Gennarino le aveva detto il segreto.
E quando Padre Michele morì, le cose sembravano peggiorate.
L’anziano sacerdote della chiesa del Carmine aveva detto ad Agnese che il peccato di Gennarino era quasi irreparabile, e soprattutto che era vero, visto che lei a raccontarglielo ne aveva ancora dubbi, erano veri quei figli che Sant’ Antonio le dava miracolosamente ogni volta che Gennarino Broadway, che si andava affermando una star del cinema a luci rosse, montava una donna durante le riprese.
Non c’erano soluzioni per calmare il Santo, aveva detto Padre Michele prima di morire, bisognava aspettare e vedere cosa sarebbe successo.
E successe che Agnese sgravò di nuovo improvvisamente, proprio quando era scesa nel patio della casa ed era entrata al recinto per dare da mangiare agli animali.
Il piccolo cadde a terra con un colore diverso, gonfio di sangue, senza vita, e i fratelli gli si avvicinarono annusando nervosamente, facendogli ombra soltanto.
Dopo pochi minuti lo sbranarono dividendosi i pezzi e urlando per la gioia di quella giovane carne, che ad Agnese sembrò un segno, un segno terribile, un segno del Santo appena tornato dall’inferno.
Altrove, in quello stesso momento, a Gennarino Broadway tremarono le gambe, e gli occhi gli si storsero tanto che il mondo sembrava stesse per scoppiargli nella testa.
Cadde tramortito dal letto dove una bionda in mutandine s’era accesa una sigaretta e quelli della troupe avevano chiamato l’ambulanza decidendo fosse l’ultima volta, che l’avrebbero mandato finalmente via.
Quando Gennarino Broadway tornò a casa, Agnese gli fece vedere che i loro figli erano tutti nascosti nel recinto.
Non rimasero parole per nessuno dei due, ma Agnese aveva ripreso il tempo per capire, e Gennarino era tornato giusto per Gennaio, nel giorno di Sant’Antonio, quando sui Miracoli, e al Pallonetto, a Forcella, nella Sanità la gente preparava dei fuochi in strada per il Santo, dove bruciavano tutte le cose vecchie da lasciarsi indietro, un grande fuoco attorno al quale gli si cantava di purificare i mali più feroci, e di restituire nuove forme, relitti di quel paradiso di luce, la redenzione.
Inspiegabilmente quella notte Gennarino Broadway fu vinto da un sonno profondo nel letto di Agnese, e per lei fu facile liberarlo dai vestiti, stenderlo nudo su un fianco mentre russava, e con lo stesso coltello da carne con cui aveva trafitto il vecchio materasso, tagliare giusto lì, con amara precisione, un colpo netto anche se il sangue arriverà in faccia, mutilare l’offesa che Gennarino aveva fatto al Santo ch’era in lui.
E Agnese uscì in strada, quella notte, nei pressi di Donnaregina le fiamme si alzavano davanti allo slargo della Chiesa delle Crocelle, bruciavano sedie, tavoli, vecchi vestiti, una ragazza lanciò nel fuoco delle fotografie, un’altra donna una chitarra senza corde, l’anziana con lo scialle legato al collo si era liberata della sua dentiera, sorridendo.
Agnese arrivò col suo fagotto ancora sanguinante.
Quando l’ebbe gettato il fuoco sembrò cambiare colore, d’improvviso si aprì un varco dal quale nacquero tre fiamme nuove, stagliate contro il nero del cielo, avviluppandosi al corpo del fumo, incastrata l’una nell’altra, lo stile intatto di una grande cometa che indicava la casa dove Gennarino Broadway s’era appena svegliato, e stava urlando tutto il suo dolore come un maiale al macello.