Un professore d’italiano che lavora in Texas e che ha pubblicato una biografia su Bob Dylan e un saggio sul concetto di felicità: già in una riga e mezza la biografia di Alessandro Carrera suggerisce che ci troviamo di fronte a un personaggio originale. E decisamente originale, imprevedibile e spaventosamente divertente (a cominciare da titolo) è “La vita meravigliosa dei laureati in lettere”, il suo primo romanzo, pubblicato l’anno scorso da Sellerio, una delle migliori letture che mi ha regalato il 2002. Inevitabile il tentativo di chiedergli un racconto per la rivistina. Carrera mi ha accontentato con questo delizioso quadretto di colonia balneare, nel quale tre anni di maggiore età bastano a trasformare gli amici in maestri di vita e il solo pensare ai preservativi rappresenta un peccato mortale. Un racconto che forse stava nascosto in un cassetto universitario texano ma che sembra nato apposta per stare su ‘tina. (Grazie, professore).
IL TRADIMENTO DI EVA KANT
La nostra prima discussione intellettuale si svolse alla colonia Sole e Mare di Pinarella di Cervia in un pomeriggio di luglio del 1964. Enzo, Ernesto, Egidio e io, che mi chiamo Enrico, allora avevamo tra i dieci e i dodici anni, mettevamo le lucertole nella schiena alle bambine e ci chiedevamo se le suore avevano le tette finte, perché non ci sembrava dignitoso che le avessero vere. Era un problema serio, ma più per le suore che per noi, e quindi non fu quello l’argomento della nostra prima discussione intellettuale. Erano tempi in cui la nostra maturazione prometteva ancora bene. Non potevamo immaginare che già poche estati dopo ci saremmo impantanati in quella specie di accidia vischiosa che porta il nome di tarda gioventù. In anni più lontani, ogni volta che saremmo arrivati impreparati a un esame, congestionati a un dibattito, la testa come svuotata davanti al foglio bianco di una relazione da scrivere per il direttivo aziendale del giorno dopo, avremmo rimpianto quell’unica volta in vita nostra in cui ci eravamo messi a discutere sapendo veramente di che cosa parlavamo. Ma ci doveva essere una legge, e forse c’è ancora, che di giornate così gloriose ne permette una sola, si campasse fino a cent’anni. Che ci possiamo fare? Tutto cominciò quando il Dino e il Francesco, che il Cervi usava come messaggeri, vennero a dire a Egidio, a Enzo, a Ernesto e a me che alle quattro e mezza, dopo il riposino, bisognava trovarsi sotto la tenda della signorina con l’ombelico di fuori per parlare di una cosa importante.
La colonia Sole e Mare era una palazzina di fine Ottocento, aveva camerate alte e fresche e una piazzetta di ghiaia davanti all’ingresso, dove al sabato mattina le signorine col grembiule bianco ci portavano incolonnati per classe e per anno di nascita a vedere il teatro dei burattini. L’ingresso, un cancello di ferro battuto, dava sulla strada statale che attraversava il paese. Oltre la strada si scendeva alla spiaggia e all’Adriatico. Due larghi recinti di sabbia, uno per i maschi e uno per le femmine, appartenevano alla colonia Sole e Mare ed erano segnati tutt’intorno da un reticolato di filo di ferro, più molle di una reticella da ping pong. Cercare di scavalcarlo per andare a spaventare le bambine era impossibile. Arrivati in cima si metteva a ondeggiare come una palma, la vibrazione si trasmetteva come una lenta frustata per tutta la sua lunghezza, le bambine cominciavano a gridare e venivano le signorine a tirarci giù. Ce n’era una che aveva la voce fessa e ci picchiava sul sedere con il tacco delle pantofole. Ce n’era un’altra che in spiaggia si metteva lo smalto sulle unghie e si tirava le sopracciglia, era l’unica a portare il costume a due pezzi e teneva il grembiule slacciato per prendere il sole sull’ombelico. Era per quello che la chiamavamo la signorina con l’ombelico di fuori. Otto tendoni, quattro per i maschi e quattro per le femmine, facevano ombra quando il sole era troppo forte, e la signorina con l’ombelico di fuori metteva sempre la sedia a sdraio proprio vicino alla tenda del Cervi. Era lì che bisognava trovarsi alle quattro del pomeriggio e se il Cervi aveva mandato a dire che si trattava di una cosa importante voleva dire che era una cosa importante.
Il Cervi era di tre anni più vecchio. Noi avevamo appena fatto la prima media, lui aveva già finito la terza. Era il più alto e robusto della colonia, portava occhiali spessi e aveva già quei tratti un poco pingui che non l’hanno mai lasciato. Sembrava uno che studiava e invece era stato ripetente, per cui lo rispettavamo molto. Non avevamo paura di lui perché lo conoscevamo da una vita, però ci intimidiva: sapeva cose che sanno gli adulti e che avevano a che fare con quello che succede nelle camere da letto tra gli uomini e le donne, ma vi accennava con la parsimonia di un maestro di arti marziali che quando tu credi di aver conquistato una postura importante ti guarda con superiore ironia come a dirti che lungo la strada ci sono insidie che non ti immagini nemmeno. La sua autorità, pressoché assoluta nel dormitorio maschile della colonia Sole e Mare, riposava sulla soluzione che aveva saputo dare a una questione davvero spinosa. Per apprezzare quanto ci fosse prezioso il Cervi bisogna sapere che sulla spiaggia di Pinarella di Cervia correva una leggenda a proposito del Mirko, il venditore di krapfen e noci di cocco che ogni mattina alle undici faceva il giro degli stabilimenti balneari. Mirko era piccolo, peloso come un orso e cattivo come una purga. Ci svuotava i borsellini dei pochi soldi che ci mandavano i nostri genitori, ma non sopportava i mocciosi come noi e non mancava di farcelo capire. La leggenda che lo riguardava era nata nella tenda di Egidio, che era quella più vicina al mare. Correva voce che il Mirko sotto le noci di cocco ci teneva dei goldoni, e che te li vendeva se sapevi come chiederglieli e se era sicuro che non facevi la spia alle signorine.
Io non ho mai saputo cosa ci fosse di vero. Egidio è sempre stato sul vago in proposito anche molti anni dopo, e adesso dice, mentendo, di non ricordare niente. Ma i goldoni, un giorno, erano davvero comparsi. Erano usciti da una scatoletta di cartone, bianca e anonima, che uno dei più piccoli aveva raccolto fra la sabbia e mostrato in giro. Se fosse davvero caduta dalla cassetta di krapfen del Mirko, questo non lo sapemmo mai. Enzo li aveva presi per il collo e srotolati come serpentelli, agitandoli davanti alla rete delle bambine, e benché quello fosse il 1964 e quella fosse Pinarella di Cervia un sorprendente numero di ragazzine erano scappate via strillando. Ernesto, che li aveva poi toccati, sosteneva che era come toccare una lumaca. Uno spruzzo di sabbia bagnata li rese inutilizzabili, qualunque uso volessimo farne, e finimmo per riempirli d’acqua e tirarceli addosso come palloncini. La signorina con la voce fessa ci vide e andò a dirlo a Don Giuseppe, che era il coadiutore della nostra parrocchia e ci accompagnava sempre in colonia. Don Giuseppe scese in spiaggia tremendo come san Michele, ci strappò dalle mani i palloncini che riuscì a recuperare e disse, puntando il dito contro Egidio, Enzo, Ernesto e me: – Domani vi venite a confessare. – Accompagnò l’ordine con un colpo sulla chierica di ciascuno; secco, duro e dato con le nocche.
Confessarsi al mare non era la stessa cosa che confessarsi a casa. Al mare non veniva naturale. Era estate anche per i peccati, e andare a dirli al prete era assurdo, era come fare i compiti delle vacanze. Si poteva morire e andare all’inferno anche stando in colonia, ma forse si finiva in una colonia dell’inferno, il mare tutto asciutto, la spiaggia senza le tende per fare ombra, il sole che bruciava e i diavoli col forcone al posto delle signorine con l’ombelico di fuori. Se era così che doveva andare, pazienza. Ma visto che ci si doveva confessare era meglio essere sicuri del peccato che avevamo sulla coscienza. Avevamo fatto piangere Gesù, quel piagnone, ma perché, con precisione? Forse avevamo commesso degli atti impuri, ma Enzo e Ernesto sostenevano di non avere le idee chiare su cosa fosse veramente un atto impuro. Erano tutti e due un po’ duri di compendonio, facevano i grandi con i goldoni in mano ma non sapevano bene a cosa servivano. Qualche giorno prima Egidio aveva cercato di spiegargli, aiutandosi con un bastone e con dei disegni sulla sabbia, che a scrivere in una parola sola il fischio del treno e il verso della rana veniva fuori quello che le bambine hanno in mezzo alle gambe. Enzo e Ernesto gli avevano risposto che le bambine in mezzo alle gambe non hanno niente, se no che bambine sarebbero. Egidio aveva alzato gli occhi al cielo per disperazione e gli aveva chiesto se le bambine non avevano niente perché non avevano mai avuto niente, o se quello che avevano era piccolo e doveva ancora crescere, o se prima l’avevamo e poi gliel’avevano tolto ed era così che erano diventate bambine. Faceva il furbo, perché la risposta non la sapeva neanche lui e sperava di venirla a sapere da Enzo e da Ernesto, ma loro l’avevano guardato con una faccia lunga come la fame e non avevano più detto niente. Comunque, nel momento in cui Don Giuseppe ci ordinò di andarci a confessare tutte quelle storie divennero acqua passata, adesso c’era un problema più urgente. Recitammo a memoria la lista dei peccati mortali e veniali, e non ce n’era neanche uno che diceva: “Tu non giocherai a palla con un goldone”. E di sicuro non poteva dire così, perché la parola goldone forse era già un peccato a pensarla, figurarsi a dirla, e non poteva star scritta sulla lista che ci davano in chiesa. Ma se le cose stavano in quel modo non la si poteva neanche ripetere in confessione. Fare un peccato capita; poi ci si confessa. Ma fare un peccato intanto che uno si confessa era una cosa più difficile da immaginare. Forse era un sacrilegio, e fare un sacrilegio in confessione era una cosa da far aprire l’inferno lì sul posto, non quello delle vacanze ma quello vero. Da Don Giuseppe c’era poco aiuto da aspettarsi. Faceva già fatica ad assolverci per i peccati di ordinaria amministrazione, figurarsi per un sacrilegio. Si sarebbe scostato di un passo tenendosi la tonaca con la mano e ci avrebbe lasciato sprofondare con gioia. Don Giuseppe aveva imparato a far le prediche dai padri passionisti, parlava dell’inferno come se ci fosse stato in viaggio d’istruzione e si vantava di saper riconoscere Satana sotto qualunque travestimento. Una volta Satana era un genitore debosciato che per ricompensare il figlio che era stato promosso l’aveva portato a vedere la rivista di Macario e delle sue donnine; un’altra volta era il barbiere che quando ci tagliava i capelli ci lasciava leggere Diabolik, Kriminal, Satanik, Barbarella e Zakimort; un’altra volta ancora era un passerotto che era entrato nella cappella della colonia intanto che lui diceva l’omelia e si era messo a svolazzare sopra l’altare finché tutti noi della Sole e Mare eravamo naso in su a seguire il suo volo disperato, e Don Giuseppe ci aveva avvertito che il demonio è capace di prendere le sembianze della più innocua delle creature pur di farci distrarre dalla messa. No, a lui il diavolo non gliela faceva. Se non ci pentivamo in tempo, ci urlava dal pulpito, la masturbazione sarebbe diventata un vortice che ci avrebbe spinto in un baratro da cui non saremmo risaliti mai più. Aveva perfettamente ragione, sia ben chiaro, anche se per motivi che lui non avrebbe immaginato, ma restava il fatto che se in confessionale c’era lui non si poteva usare la parola goldone. D’accordo, e allora come si chiamavano i goldoni in italiano? Andare a chiederlo alle signorine, dovunque avessero l’ombelico, non era neanche da mettere in conto. Il Dino era un imbranato e non sapeva cosa dire. Francesco, che veniva dall’Abruzzo, disse che al suo paese li chiamavano paracazzi, ma anche questa non sembrava una buona soluzione. Fu allora che ricorremmo al Cervi. Una delegazione comprendente noi quattro e Francesco come ambasciatore chiese ospitalità nella sua tenda e spiegò, con fatica e imbarazzo, come erano andate le cose. Il Cervi ci stette ad ascoltare, gli occhi fissi dietro i grossi occhiali, e si comportò da signore. Non si mise a ridere, non ci prese in giro, capì che aveva una leadership tra le mani e che la stava mettendo in gioco. Disse che la cosa era seria, molto seria, e che l’unico modo per non commettere peccato in confessionale era di dire a Don Giuseppe che avevamo fatto gli scemi con un “astuccio di profilattici”.
Il prestigio acquistato in quell’occasione era di quelli che non si perdono facilmente, e nel giro di pochi giorni si era esteso perfino alle altre colonie che si allungavano a Nord e a Sud della nostra, da Milano Marittima a Cesenatico. Per questo, quando il Cervi ci mandò a dire che convocava una riunione sotto la sua tenda ci mettemmo sull’attenti, e da quel momento ci comportammo come dei carbonari. Dopo mangiato andammo su in camerata e facemmo finta di dormire, chiedendoci a bassa voce che cosa mai avesse da dirci il Cervi di tanto importante. Col Cervi ci sentivamo in una relazione speciale. Ci aveva salvato dall’inferno, ma era anche vero che noi gli avevamo posto una questione che era alla sua altezza, e se la sua fama si era sparsa lungo le colonie della costa adriatica un po’ era anche merito nostro. Quando scendemmo in spiaggia, tutti in fila con le signorine in testa, era un pomeriggio caldissimo e pesante. Di solito, ogni volta che attraversavamo la strada statale per scendere al mare, cantavamo delle canzoni sconce che ci aveva insegnato Egidio. Ce n’era una che diceva: “Anca vu quand sero giovina, sü la vesta giò i calzon”. Giovina andava pronunciato giùina e calzon si doveva dire calsùn. Non era dialetto milanese puro perché Egidio veniva da Treviglio e certe parole le pronunciava strane, ma ci teneva che la sua versione fosse rispettata e l’aveva insegnata anche a quelli delle elementari, tanto le signorine erano meridionali e il dialetto non lo capivano.
Ma neanche Egidio capiva niente. Senza saperlo, da incosciente com’era, stava sfidando potenze che non conosceva e che proprio quel giorno l’avrebbero punito molto più crudelmente di qualunque Don Giuseppe, proprio quel giorno che nessuno di noi si mise a cantare, preoccupati come eravamo dell’appuntamento con il Cervi. In spiaggia rimanemmo ognuno per conto proprio per non dare nell’occhio finché Ernesto, che aveva avuto in regalo dai suoi un orologio “subacqueo” e quindi lo portava anche in spiaggia, ci avvisò a gesti che erano le quattro e mezza. Ci guardammo in giro. Qualcuno dei più piccoli faceva il bagno, pigramente sorvegliato dalla signorina dalla voce fessa. Erano tutti silenziosi, sembrava che il sole lassù in alto si fosse messo un gran dito sulla bocca e avesse ordinato al mondo di star zitto. Anche le bambine, che di solito sono creature strane che bisbigliano, ridacchiano, e che tutto a un tratto si mettono a cacciare urli per nessun motivo, giocavano con la sabbia e si sentivano appena. Don Giuseppe non si vedeva, di certo era rimasto nella cappella della colonia a finire il vino della messa (all’elevazione riempiva sempre il calice due o tre volte). Pian piano, senza farci notare, noi quattro più Francesco ci mettemmo in cammino per la tenda del Cervi. Appisolata sulla sedia a sdraio, mezza al sole e mezza all’ombra, la signorina con l’ombelico di fuori ci parve una guardia d’onore posta all’ingresso di una sala delle udienze. Il suo ombelico, in effetti, merita maggiore spazio di quanto io gliene abbia dato finora. Svelto ed essenziale, era anche dotato di una discreta personalità. Nei giorni nuvolosi stava rintanato, bidimensionale, un delfino timido che mette fuori la testa giusto per respirare; nei giorni di sole era muscoloso e aggressivo, perfino un po’ bullo da spiaggia. Quel pomeriggio però esagerava. La signorina era caduta in un sonno di marmo, la testa all’indietro e le gambe larghe, e il suo ombelico sembrava voler uscire di casa e andarsene per i fatti suoi. Non solo a ogni respiro si gonfiava e si sporgeva, ma rimaneva anche lucido e teso finché il fiato non usciva dalla gola della sua padrona, squassando il relativo diaframma. Enzo, Ernesto e io, preceduti da Francesco, avevamo aggirato la signorina che russava e ci eravamo già seduti sotto il tendone, sulla sabbia fresca, in semicerchio intorno al Cervi. Egidio, invece, si era lasciato incantare come da un ipnotizzatore della fiera ed era ancora lì, tra il giorno e la notte, con gli occhi fissi sull’ómphalos della signorina che si alzava e si abbassava e che lui non aveva mai contemplato così da vicino. Le era andato tanto vicino, anzi, che di fatto le stava in mezzo alle gambe. – Cosa fai, guardi il bamborino di Buddha? – lo richiamò il Cervi, che era milanese di Milano e non diceva ombelico ma bamborin, pronunciato bamburín. La risata che ci fece fare svegliò la signorina, che cacciò una strillo al vedersi l’Egidio in mezzo alle gambe e richiuse svelta il grembiule. Egidio si riscosse dalla trance, corse a cercare riparo da noi, rosso come la polpa di una prugna, e per tutto il resto del pomeriggio rimase assolutamente intronato. La potenza l’aveva punito, e le conseguenze furono talmente gravi che se le trascina ancora oggi. Come ho già detto, quella fu la nostra prima discussione intellettuale, la prima occasione in cui venne messa alla prova la nostra facoltà di considerare la produzione dello spirito umano alla luce di una ancora latente facoltà critica. Distratto com’era dalla rivelazione umbilicale che l’aveva fulminato, Egidio ne capì ben poco, e la cosa gli fu fatale perché, come ci accorgemmo negli anni a venire, avrebbe capito pochissimo anche di tutte le discussioni intellettuali a cui avrebbe assistito in seguito. La sua comprensione del mondo accusa qualche lentezza anche adesso, ma quel che è peggio è che la sua mente prende spesso traiettorie che pure noi, suoi intimi amici, possiamo seguire solo se ritorniamo agli avvenimenti di quel pomeriggio decisivo. Ce ne accorgemmo per la prima volta due anni dopo, al liceo, quando si seppe che Egidio aveva alzato la mano durante l’ora di religione e aveva detto crudelmente al prete che a lui non piaceva Gesù Cristo, a lui piaceva Buddha.
Ma devo riferire il contenuto della discussione. Il Cervi ci sottopose il tema senza tanti preamboli, ed era di quelli che fanno tremare. – Allora, ragazzi – disse, e noi frememmo di soddisfazione all’idea che per il Cervi non eravamo più dei bambini. – Ascoltatemi bene: se Eva Kant tradisse Diabolik, lui la ucciderebbe?
Quante volte abbiamo rimpianto l’intransigenza, la serietà, perfino l’acrimonia con cui conducemmo quel seminario estivo! I testi li conoscevamo di prima mano, le citazioni erano alla lettera e cadevano a puntino, varianti e concordanze le avevamo sulla punta delle dita, e per le superficialità degli sparagiudizi non avremmo avuto né pazienza né tempo. Non saremmo mai più stati così seri, così determinati, e nemmeno così coraggiosi.
Per spiegare in che cosa consisteva il nostro coraggio devo tornare alla confessione di qualche giorno prima, quella dell’astuccio di profilattici. Era un po’ di tempo che ogni volta che entravamo nella cappella della colonia vedevamo operai che andavano e venivano portando assi, stipi e porte, ma non ci avevamo mai badato. Il mattino che, invece di andare in spiaggia con gli altri, entrammo in chiesa per confessarci con Don Giuseppe, ci accorgemmo che il confessionale che conoscevamo bene, con l’inginocchiatoio e la grata di lato, non c’era più. Voleva dire che non ci si confessava? Era troppo bello per essere vero, e infatti non era vero. Anzi, era orribile. Il vecchio confessionale era stato sostituito da una specie di cabina del telefono tutta d’un pezzo. Dentro c’erano un crocifisso appeso, un inginocchiatoio e Don Giuseppe che ci aspettava seduto su una sedia, con i piedi che sporgevano dalla tonaca e le mani tutte nocche già pronte e appoggiate sulle cosce. Ci sentimmo morire. L’inferno era un rischio calcolato, ma le nocche di Don Giuseppe sulla cima della testa erano certe come la legge di gravità. Attraverso la grata, almeno, certe volte riuscivamo a non farci riconoscere, o trovavamo la vigliaccheria necessaria per tacere certi peccatucci più imbarazzanti che gravi. Ma una volta chiusi in cabina con lui, la porta serrata dietro la schiena, saremmo stati nudi come vermi, la corazza intorno all’anima ridotta a un foglio di carta velina. Quando capimmo che destino ci aspettava venne a tutti una gran sete, e mancò poco che ci attaccassimo alla fontana dell’acqua benedetta. Quella sete non veniva per caso. Saliva dritta dall’inferno, dal cerchio di fiamme dove stava conficcato il ricco epulone. Il ricco epulone era quello che aveva cacciato dal suo banchetto Lazzaro il mendico e che poi quando era morto era finito all’inferno mentre Lazzaro era andato a godersela in Paradiso come dice Luca 16, 19-31. Don Giuseppe ci aveva raccontato più di una volta di averlo visto in persona, il ricco epulone, giù nel più profondo della Geenna, che alzava le braccia al di sopra delle fiamme e chiamava Lazzaro, Lazzaro. E Lazzaro appariva, lontanissimo e minuscolo sopra di lui, circondato da ruscelli che scorrevano freschissimi tra le nuvole del Paradiso. Il ricco epulone gli gridava: “Ti prego, Lazzaro, fammi cadere almeno una goccia d’acqua sulla lingua e per tutta l’eternità ti sarò grato.” E Lazzaro da lassù gli rispondeva: “Neanche tutta l’eternità basterebbe ad una goccia d’acqua per raggiungere la tua lingua, e dunque soffri per sempre la sete che sulla Terra mi facesti patire.” Il terrore che Don Giuseppe riusciva a farci provare con quella storia riusciva a vincere perfino le nostre difficoltà di comprensione. Prima di tutto non capivamo chi fosse questa signora Geenna che saltava fuori all’improvviso, per non dire di Egidio che per molti anni successivi fu convinto che la storia riguardasse tre personaggi: Lazzaro, il Ricco e Pulone. Alle nostre domande su chi potesse essere quel tal Pulone, Egidio rispondeva che forse era uno che si chiamava Pilone perché ce l’aveva grosso ma Don Giuseppe aveva cambiato il suo nome in Pulone perché un prete non può dire parole volgari. Ma queste sono razionalizzazioni a posteriori. Restava il fatto che davanti al confessionale nuovo noi eravamo il ricco epulone e Don Giuseppe che ci aspettava era Lazzaro che ghignava dalle nubi. Ad ogni buon conto, chi singhiozzando, chi rannicchiandosi come sotto i colpi di un bastone, chi piangendo con la testa protetta dalle braccia per paura delle nocche, chi giurando giurin giuretta di non farlo più, mai più, mai mai più, in qualche modo ci confessammo. Ma la cosa peggiore fu una sensazione di solletico alla fontanella della testa che tutti e quattro sentimmo non appena chinammo il capo davanti a Don Giuseppe dicendo mi pento e mi dolgo; una sensazione strana, mai provata prima, che durò per tutta la confessione e ci tormentò per ore e ore anche dopo. Don Giuseppe a suo modo era stato magnifico. Aveva preso male le note alte, forse, ma ci aveva terrorizzati come neanche nelle sue prediche migliori, e non aveva neanche fatto uso delle nocche. Perché allora ci faceva male proprio la cima del cranio? Era solo suggestione o era qualcos’altro? Nel pomeriggio di quel giorno, a bassa voce in camerata, cercammo di spiegarcelo. Non volevamo disturbare ancora il Cervi, ma se fossimo stati in lui, con la conoscenza del mondo che aveva, cosa avremmo pensato?
Trovammo la risposta la mattina dopo, quando il fastidio alla testa ci scomparve nel momento in cui qualcuno ci disse che Don Giuseppe sarebbe stato assente per qualche giorno. Don Giuseppe ci leggeva nel pensiero, era questa la verità. Aveva fatto mettere i confessionali a cabina perché la grata gli impediva di sondarci il cervello, ma adesso che ci dovevamo confessare a testa bassa e senza niente a proteggerci lui poteva frugarci la mente come un rastrello che rivolta le foglie cadute. Ci aveva letto nel pensiero il giorno prima per essere sicuro che non gli nascondessimo niente, ecco perché sentivamo prurito alla chierica, e ci aveva setacciato il cervello così bene che l’effetto era durato fino a quando non si era allontanato dalla colonia. Non eravamo pronti a prendere per buona una simile spiegazione come se niente fosse, non eravamo dei semplicioni, ma, visto che il sospetto ce l’avevamo, sarebbe stato meglio se ci fossimo comportati in un modo un po’ più prudente. Visto che Don Giuseppe era in grado di leggerci nel pensiero, non avremmo dovuto sostenere con il Cervi la discussione su Diabolik, perché Diabolik noi lo leggevamo dal barbiere e di nascosto sotto le coperte in camerata, e sapevamo di fare peccato. Invece, pur con la paura che alla prossima confessione Don Giuseppe avrebbe tirato una corda segreta che pendeva nel confessionale nuovo e ci avrebbe fatto risucchiare dall’inferno come si fa con l’acqua del gabinetto, dal Cervi ci andammo lo stesso. Per questo dico che non fummo mai così coraggiosi, così dissidenti, così libertari, così impenitenti come quando ci sedemmo intorno al Cervi in quel pomeriggio di luglio a discutere che cosa avrebbe fatto Diabolik se Eva Kant l’avesse tradito.
Don Giuseppe tornò il sabato. Enzo, Ernesto, Egidio e io, il terrore che ci saliva agli occhi, ma sapendo che l’esperimento andava fatto, la domenica mattina andammo a confessarci. Dovevamo essere sicuri se Don Giuseppe fosse capace di leggerci nel pensiero oppure no. Don Giuseppe ci lasciò dire le solite banalità, le preghiere dimenticate, le bambine sbeffeggiate, i cuscini scuscinati, la mensa devastata, finché a tutti e quattro, uno dopo l’altro (ce lo raccontammo a vicenda più tardi), più o meno sempre allo stesso punto della confessione, chiese con aria lenta, sorniona e feroce: – E se Eva Kant tradisse Diabolik, lui la ucciderebbe?
Il Cervi si era confessato prima di noi, d’accordo, ma che ci avesse tradito era impensabile. Non l’abbiamo mai sospettato, né allora né mai, è una cosa che ci vergogneremmo di pensare. L’unica spiegazione possibile era che Don Giuseppe, complice quel suo confessionale diabolico, aveva letto nel pensiero anche al Cervi e gli aveva tirato fuori, facile come una forchetta che tira fuori una mosca caduta nell’insalata, l’unico peccato che di sicuro il Cervi non aveva confessato. Dopo la confessione eravamo talmente annichiliti che non raccontammo niente nemmeno al Cervi, non gli chiedemmo se Don Giuseppe avesse fatto anche a lui la stessa domanda sorniona e finimmo le vacanze in colonia quasi senza parlargli. Non sappiamo se il Cervi capì o cosa capì. Sta di fatto che il dibattito su Diabolik non venne mai ripreso, e Dio sa se ne aveva bisogno, perché eravamo ben lontani dall’aver raggiunto una conclusione.
Ancora oggi, giovanotti invecchiati che altro non siamo, in quelle sere annoiate e che non sanno come finire, quando ci mettiamo a discutere di libri che non abbiamo letto e di film che non abbiamo visto, quando assolviamo o giustiziamo trasmissioni televisive che non guardiamo, giornalisti che non leggiamo, macchine che non guidiamo, località turistiche che non frequentiamo, alberghi che non prenotiamo, acrobazie politiche che non capiamo, basta che uno di noi ci ricordi l’unica domanda seria che ci siamo mai posti in vita nostra: “E se Eva Kant tradisse Diabolik, lui la ucciderebbe?”, e subito la lingua ci si impasta, il vigore del discorso si affloscia, l’oratoria non ci soccorre, e anche se insistiamo a balbettare qualche giustificazione siamo noi i primi a sentire che suona falsa, è inutile che facciamo finta di essere ancora alla colonia Sole e Mare, non c’è più, l’hanno chiusa, la signorina con l’ombelico di fuori l’avrà fatto vedere a uomini che sarebbero ancora capaci di scostarci con una mano, ci piacerebbe scandalizzare ancora la signorina con la voce fessa ma è troppo tardi, non si scandalizza più di niente, al posto del Mirko ci sono i distributori automatici fuori dalle farmacie e perfino Don Giuseppe ha smesso di leggerci nel pensiero perché non capiva più quello che pensavamo, come del resto non lo capivamo neanche noi, senzadio, materialisti, fornicatori e buddhisti che eravamo diventati, ed è andato a morire solo e rimbambito in un ospizio per preti alcolizzati, e allora non resta che ammetterlo, che non siamo mai arrivati a una conclusione che fosse una; che non sappiamo, noi che tante volte abbiamo tradito e siamo stati traditi, se Eva Kant, almeno lei, non avrebbe mai tradito Diabolik, ed è allora che ci diciamo che è meglio andare a casa, ringraziandoci a vicenda per la bella serata, con una mezza risata tra i denti, la promessa di concludere la discussione una volta o l’altra e una faccia lunga come la fame.