Cosa significa fare affari con società situate nel continente asiatico? Come si reggono questi rapporti, come si gestiscono? Natan Mondin, ispirandosi a esperienze professionali dirette, riesce a illustrare in maniera efficace il sottile disagio di un occidentale impegnato a portare a termine progetti e contratti cercando di adattarsi a situazioni e modalità molto lontane da quelle a cui siamo abituati. Il suo protagonista è quasi un alieno che di giorno cerca di intuire le risposte più adatte alle circostanze che sta vivendo e che di notte fluttua in un paesaggio fatto di promesse illusorie e richiami al neon. Un racconto in bilico fra il rigore del mondo del lavoro e l’ebrezza ovattata delle peregrinazioni notturne di un uomo solo all’altro capo del pianeta.
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Natan Mondin, Night Life Experience
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Sono corso in bagno, ho fatto pipì, tirato lo sciacquone e scostato la tenda oscurante; fuori dalla finestra, la linea scura dei condomini copre la vista del fiume: nessuna luce accesa, il cielo è un coperchio scuro con riflessi mattone. L’aria condizionata ronza anche questa notte, quando sono entrato in stanza dopo un’altra cena inconcludente. Mi hanno trascinato in questo viaggio e avevano così tanta fretta di incontrarmi, Mr Oh era così ansioso di conoscermi di persona che ho dovuto cancellare tutti gli appuntamenti della settimana, prenotare il biglietto pagandolo due volte la cifra di quanto avrei potuto fare pianificando tutto in anticipo, e ancora non abbiamo parlato di nulla. Da due giorni mi presentano funzionari e manager, mostrano capannoni, uffici e mi costringono ad aprire cerimonie assurde con tagli di nastro e congratulatory speeches; cerco la melatonina in valigia con poche speranze perché sono sicuro di averla dimenticata a casa con il sacchetto di calze e intimo; ho paura di farmi accompagnare da Mr Choi in farmacia, per colpa sua sto girando con orribili pedalini marchiati Lacoste. Richiudo il trolley e mi stendo di nuovo, affondo la testa nel cumulo di cuscini, ma sento ugualmente il rumore del climatizzatore; mi giro sul comodino e lampeggiano le notifiche di mail in arrivo, se incomincio a sfoltire la posta è finita, non dormo più. Chiudo gli occhi e penso a Ralf al parco; ho il bastone in mano e lo lancio, Ralf segue la traiettoria fino alle sterpaglie, lì lo perde, mi guarda, guarda le sterpaglie e incomincia ad annusare; affonda il muso poco convinto la prima volta poi torna a fissarmi come per chiedermi “devo proprio?” e dal momento che non dico nulla capisce che deve tuffarsi e cercare di nuovo. Quando riemerge ha in bocca il bastone e corre verso di me. Mi piace questo gioco, ci casca sempre, ogni volta dirigo il tiro lontano, verso il muro del cimitero e la scena si ripete; quello che mi diverte di più è l’espressione soddisfatta di Ralf nel momento in cui lascia cadere il bastone davanti ai miei piedi, come fosse la prima volta: scodinzola in cerca di approvazione, la lingua fuori e gli occhi fissi su di me. Abbaia per avere un riscontro, abbaia ancora. Io raccolgo il bastone e lo lancio di nuovo e di nuovo il legno si perde nel verde incolto. La scena si ripete: Ralf segue la traiettoria, abbassa il muso e non si rialza fino a quando non trova il bastone, torna con la preda fra i denti, me la consegna davanti alle suole e chiede un feedback. Raccolgo in silenzio e lancio, ma prima che Ralf torni ancora una volta il condizionatore difettoso fa partire il suo richiamo. Affondo ancora di più la testa nei cuscini, fino a quando non mi manca il respiro e con un sussulto alzo la testa per riprendere fiato, una volta libero sono costretto a iperventilare fino a quando la sensazione di panico passa e allora mi alzo, vado al mini-bar e prendo la bottiglia d’acqua lasciata a metà ieri notte. Non mi era mai capitato di soffrire così il fuso, e nemmeno queste apnee sono normali. Finisco l’acqua e butto la bottiglietta vuota nel cestino.
L’assenza di pensieri dura poco, gli incontri, le serate e i sermoni estemporanei di Mr Oh mi stanno innervosendo: ha preteso la mia presenza, nonostante avessimo definito tutti i termini della collaborazione negli ultimi mesi di riunioni via Skype e telefonate. È ancora più assurdo che prima delle telefonate e delle riunioni a distanza c’erano stati una chiacchierata veloce in fiera a Francoforte e tre mesi di silenzio, in cui di sicuro lui e i suoi collaboratori hanno preso informazioni sul nostro conto. Al mio arrivo ho trovato tutto organizzato, senza nessuna possibilità di gestire il mio tempo; monopolizzato dalla sua segreteria, nella persona di Mr Choi, anche lui era a cena di poche ore fa. Non ho problemi con il loro cibo e gli odori della loro cucina, ma odio il rapporto che hanno con l’alcol, rientra nelle loro competizioni cameratesche; Mr Oh ha versato alcolici per tutta la durata della cena, ha dettato a tutti i ritmi di bevuta: non appena intercettava un bicchiere vuoto si affrettava a riempirlo. Prima che arrivasse da mangiare ha proposto un brindisi in inglese: le solite parole di buon auspicio e frasi da manuale del businessman di successo. La conversazione è tornata in coreano per gran parte della cena e io mi sono isolato, le voci come sottofondo, i pensieri assenti. La condizione migliore per prendere sonno.
Tutto sembrava seguire le regole di una liturgia canonizzata a partire dal modo con cui si servivano dai vassoi al centro della tavolata, i gesti con cui mi versavano alcolici e acqua, con cui se lo versavano fra di loro, le domande che Mr Oh sembrava porre ai suoi manager. La reazione di Mr Oh al rifiuto dell’ennesimo bicchiere di soju da parte del tizio alla sua destra non aveva nulla di spontaneo, mi ha riportato ai pranzi di Natale in cui mio nonno spadroneggiava con il suo “fai l’uomo” a chi non voleva più vino. Soltanto io e lui sembravamo essere rimasti lucidi a serata inoltrata, nonostante avessimo bevuto più di tutti. Ha urlato al cameriere di sgombrare la tavola e di portare subito una bottiglia di Moutai con bicchieri puliti per tutti. Mi chiede di proporre un brindisi, l’onore dell’ospite, e sfoggio il mio discorso, la disanima delle similitudini fra i nostri paesi, l’elogio della forza insita nelle nostre diversità, concludo dicendo che solo sfruttando le nostre complementarità potremmo cogliere un occasione unica per crescere forti nei rispettivi paesi, in ricchezza e profitto. Finché morte non ci separi. Al tintinnare dei bicchieri è seguito un breve silenzio, che Mr Oh ha rotto con rivolgendosi a me, mostrandosi come il padre che avrei dovuto avere, con la severità di don Giulio, il mio insegnante di religione delle medie.
«La storia che ti sto per raccontare l’avrai già sentita, perché è nelle banalità che si nascondo gli insegnamenti più importanti che la vita ci da: tanti anni fa avevo un amico, per me era il migliore. Andavamo nella stessa scuola, frequentavamo gli stessi corsi dopo le lezioni, giocavamo a baseball nella stessa squadra. Ma eravamo diversi, io ero quello forte, lui il debole quello che si lasciava guidare dai sentimenti.»
follow the heart. Mi ci è voluto un po’ a capire cosa seguisse, incominciavo a essere stanco e Mr Oh ha quel difetto tutto loro che fa sembrare le “erre” “elle” e viceversa; riprende a raccontare versandosi un altro bicchiere.
«I ragazzi sperimentano la violenza e gli animali sono il bersaglio preferito. Quando il mio amico ha cercato di salvare due randagi dalle randellate di un gruppo di balordi sono dovuto intervenire per evitare che lo pestassero insieme ai cani. La sera cenavamo insieme a casa mia oppure ci trovavamo dopo mangiato, sugli scalini che dal nostro quartiere conducevano lungo le sponde del fiume. Dalla sponda riuscivamo a vedere oltre i campi fino alle colline a Sud, dove distinguevamo le luci della base americana. Trascorrevamo ore a contare gli aerei militari che decollavano per le ricognizioni notturne a Nord, oppure ci soffermavamo sulle chiatte che attraversavano il fiume da ponte a ponte. Ci piaceva passeggiare e chiacchierare. Sognavamo ad alta voce, parlavamo del nostro futuro; dei viaggi che avremmo potuto fare, dell’Europa, di Parigi… A te piace Parigi?»
Farfuglio che Parigi non mi fa impazzire, sono sincero, gli dico che preferisco Berlino; non mi lascia proseguire, gli è bastato assicurarsi di nuovo la mia attenzione per poi continuare.
«Poi si è innamorato di una ragazza. Ci è voluto del tempo prima che trovasse il coraggio di affrontarla e anche quella volta l’ho aiutato facendo in modo che durante una gita si trovassero soli; da quel momento ci siamo allontanati, da quando hanno iniziato a frequentarsi. Una sera dopo cena non si è presentato al solito appuntamento, l’ho aspettato per un’ora prima di andare a controllare se per caso fosse rimasto a casa malato. Mi sono fermato davanti al portone e non ho bussato con lo scrupolo di non mettere nei guai il mio migliore amico. Mi ha evitato per la paura di dovermi delle spiegazioni. Ho saputo poi da altri compagni che quella sera era il compleanno della fidanzatina; per anni ho fatto in modo di non doverlo più incontrare, ma ora lo vedo alle riunioni del comitato governativo per lo sviluppo industriale, ci salutiamo ma niente di più. Ha idee buone ma non riesce a imporle. Per lui è una specie di condanna occuparsi dell’azienda di famiglia. Al contrario di me. Gli uomini sono diversi, e diverse sono le relazioni che li uniscono o li separano, quello che le rende differenti sono le priorità che noi diamo. Uomini simili, priorità simili; uomini differenti, priorità differenti.»
Pontifica, accompagna l’ultima frase svuotando in un unico sorso il bicchiere. Si alza e gli altri convitati lo seguono abbandonando bicchieri ancora pieni. Una volta fuori dal ristorante, soltanto io saluto, tutti hanno già preso la strada del ritorno, Mr Oh per primo.
Uomini simili, priorità simili, le sue parole, il suo viso senza espressione rimbalzano in testa, sposto l’attenzione sulla ventola e il suono prende possesso del mio cervello: per un po’ sgombero il cervello, ma non per il tempo sufficiente a riaddormentarmi. Dodici ore di volo per incontrare un vecchio paranoico che racconta aneddoti della sua adolescenza, farnetica sulle priorità e non abbiamo ancora parlato di affari. Da un lato mi sento preso per il culo, dall’altro penso che se non avesse alcun interesse a firmare il contratto non si darebbe così tanta pena a intrattenermi. Non capisco e non dormo, mi alzo, mi vesto ed esco in strada, è notte fonda e tutto è illuminato, c’è traffico e sui marciapiede si radunano ancora gruppi di passanti.
Allungo il braccio in mezzo alla strada e si ferma subito una macchina. Quando dico al tassista dove voglio andare, reagisce spalancando la bocca, chiude gli occhi per ridere, smette, mi lancia un’occhiata complice e ripete in continuazione Oh Pal Pal, Oh Pal Pal!; il gesto non è proprio quello che facciamo noi al bar, ma ci capiamo. Condom gli dico, annuisce e continua a gesticolare; mi porta a scopare e per farlo concorda il prezzo in anticipo, una flat-rate passaggio e informazioni losche. Guida e a ogni semaforo si gira per sbirciare. Appiccicato ai sedili posteriori giro la testa e fuori dal finestrino ci sono il fiume e la città che proseguono oltre, c’è traffico sulle quattro corsie che si snodano fra i quartieri. In lontananza riconosco la torre della televisione, a nord della città e poi la perdo quando in tre svolte abbandoniamo l’arteria principale per imboccare una strada secondaria e così non mi oriento più, perché gli edifici sono tutti uguali. I negozi sono chiusi, restano aperti solo i tendoni di cibo da strada e ogni tanto incrociamo qualcuno che scorrazza con carretti ricoperti da teli di plastica nera. Provo a chiedere se manca molto e mi pento all’istante. Riprende con il refrain e io cerco punti di riferimento fra gli edifici che si alternano alla nostra destra.
Si ferma, accosta su una laterale di un quartiere anonimo, case non tanto alte, vetrine senza insegne e illuminate con neon freddissimo. Lo pago e lui se ne va commentando qualcosa di incomprensibile. Mi addentro nei vicoli ortogonali su cui si aprono da entrambi i lati file di vetrine e donne: alcune dietro ai vetri, altre in strada. Nessuna reazione mentre cammino, nessuno sguardo ammiccante. Stessi abiti e stesse espressioni dei loro video musicali, sembrano le sorelle maggiori, soltanto un filo più consumate delle Girls Generation. Non finiscono le strade, si aprono su nuovi locali illuminati, nuove donne in piedi o sedute su sgabelli e io sono l’unico uomo a passare di lì, nessuno sembra accorgersi della mia presenza. Bisbigli, rumore di auto in lontananza sono gli unici due indizi che mi convincono di non essere finito in un enorme deposito di manichini illuminato a giorno.
Devo girare un po’ e chiedere a più di una se mi accetta come cliente, da un paio vengo spintonato fuori dal negozio, continuo a passeggiare nell’indifferenza quando una mi fa segno di entrare e la seguo; per un momento provo la sensazione di essere compatito, nel tragitto fra lo showroom che divide con altre tre colleghe e l’anticamera dove mi fa togliere le scarpe.
Mi mostra il listino e le indico la tariffa base, dato che non ho molti contanti con me dopo la mossa del tassista; quando sono uscito dall’albergo non ho pensato che le puttane non accettano carte di credito. Sono solo mentre mi spoglio e appendo gli abiti alle grucce appese al muro. La stanza è piccola, il letto è un incrocio fra uno normale e i materassini che qui usano per dormire. L’aspetto sul letto a pancia in su con le mani incrociate dietro la testa.
Quando entra in due mosse rimane nuda, via il miniabito nero, via le mutande. Ha i fianchi stretti, le si contano le costole e prima che si stenda accanto a me noto un accenno di cellulite. Mentre inizia a toccarmi guarda la sveglia sul mobiletto accanto alla lampada da lettura, ha mani morbide, non aspetta che io sia del tutto pronto per mettermi il preservativo. Lo infila e inizia a succhiare e decide lei quando salirmi sopra. Mi accompagna dentro con le mani e inizia a oscillare fissando il muro, prima lentamente e poi sempre più veloce. Non è difficile alzarla, farla piegare in avanti e incominciare a prenderla da dietro e poi girarla di nuovo e riprendere a fotterla guardandola negli occhi. Da’ rapide occhiate alla sveglia, si lamenta, geme infastidita, mi tocca le ossa del bacino e indica il suo inguine, poi mi schiaccia di nuovo sullo strato di lenzuola sciupate e umide e sale su di me muovendosi velocemente fino a quando non vengo e sono io a spostarla via. Si asciuga in mezzo alle gambe con tre strofinate di salvietta umidificata e si riveste, prima di togliermi il preservativo e pulirmi.
Si avvicina e mi tende la mano, allora mi alzo e tiro fuori il portafogli, come confondo una banconota da cinquemila per una da cinquantamila, subito mi corregge e prende i contanti; mi lascia rivestire da solo. Esco e lei è sparita, nello showroom ci sono altre due colleghe che non sembrano le stesse di quando sono entrato.
Ritrovare la strada principale non è difficile, ci arrivo senza fretta, come se stessi bighellonando la domenica mattina per lo struscio del paese. E pur non essendoci niente di sexy in quelle strade asettiche, pulite e silenziose, mi fermo a un bancomat e cerco di prelevare ma è fuori servizio: una sconfitta. Ho bisogno di capire se tutte si comportano così, se sono così fordiste nell’approccio al cliente, se posso riuscire a pagare un sorriso oltre a una scopata. Cerco un altro bancomat, sono abituato a superare ostacoli; quando mi soffermo ad analizzare le difficoltà da diverse angolature, capita di ritrovarmi davanti a opportunità inaspettate: da un rifiuto è nata l’idea dell’accordo con Mr Oh. Ora come ora non mi sembra una vera opportunità quella di Mr Oh, più che altro si sta rivelando un inutile contrattempo. Si sono sommate aspettative durante i nostri contatti a distanza e adesso che è il momento di concretizzare, che sono qui, che possiamo discutere del futuro delle nostre due aziende, ho l’agenda surgelata senza nessuna utilità. Il vero problema è che da questa situazione, a parte la pazienza, non ho nulla da perdere. Un altro bancomat non c’è. Faccio un tentativo e mostro la carta di credito a una delle ragazze che al momento sembra più incuriosita dalla mia presenza, ma volta lo sguardo prima di incrociare il mio. Speranze disattese: Mr Oh e la gita al quartiere a luci rosse. Salgo sul primo taxi che spunta da sotto un cavalcavia. Senza parlare allungo il biglietto dell’hotel al tassista e miracolosamente prendo sonno. Mi sveglio quando la macchina sobbalza sui rallentatori che precedono il vialetto di accesso dell’albergo. Il primo ascensore che arriva alla mia chiamata è quello panoramico, mentre salgo vedo l’orizzonte schiarirsi e sotto di me c’è il lago artificiale, riesco appena a distinguere le giostre del parco divertimenti e la pista da jogging che lo circonda, sento gli occhi gonfi e asciutti. Le porte si aprono, una volta entrato in camera, crollo sul letto per le poche ore di sonno che mi sono meritato.
A colazione Mr Choi aspetta al ristorante dell’albergo. Lo trovo che risucchia noodle e schizza brodo piegato sulla ciotola. Si interrompe per salutarmi e per chiamare il cameriere a cui ordina un espresso per me senza sapere che io non mi azzardo mai a prendere l’espresso fuori dall’Italia. Mi dice di servirmi al buffet nel suo italiano più che decoroso. Da quando lo conosco non mi ha raccontato molto di lui, so che finita l’università si è trasferito in Italia per studiare canto, si è diplomato al conservatorio e quando ha visto come funzionano le cose nel mondo della lirica ha deciso di tornare in Corea. In un primo momento si è mantenuto dando lezioni private, e i soldi che guadagnava erano sufficienti appena a garantirgli un po’ di autonomia dalla famiglia. Fra gli allievi gli era capitato il figlio di Mr Oh, aveva iniziato a frequentare la casa e non è passato molto tempo che il vecchio imprenditore ne riconosce il valore e lo assume come segretario. La simpatia nasce dalla laurea nella stessa università e dalle passioni comuni, condivise in un paio di serate trascorse insieme.
Mi trattengo dal raccontare a Mr Choi dell’esperienza nel quartiere a luci rosse, anche se è stato lui a parlarmene per la prima volta. Alla luce della mia esperienza, credo abbia enfatizzato un po’ troppo. Ordinato un caffè americano, sto spalmando burro e marmellata; mi alzo per prendere una brioche appena sfornata fra quelle che hanno portato al buffet. Per raggiungerle dribblo con maestria le piastre dove turisti cinesi si fanno grigliare carne e pesce insieme, le teorie di filetti di pesce crudo e rotolini di sushi, le cofane di salsicce e uova strapazzate che spargono odore nel salone centrale del ristorante.
Torno al tavolo e incomincio a mangiare. Insieme mastichiamo, sorseggiamo e non parliamo fino a che non abbiamo finito; «ci vediamo nella hall fra dieci minuti», mi lascia con quel tono sempre uguale sia che venga usato per ordinare, sia per chiedere con gentilezza; ora sono abituato, ma le prime volte che ci incontravamo per esaminare i dettagli del deal dovevo sforzarmi molto per non mandarlo a fare in culo , più che giustificare le differenze culturali mettevo a fuoco le priorità: contratto, mercato asiatico, aumento di fatturato esponenziale.
Ho soltanto il tempo di lavarmi i denti, anche davanti allo specchio del bagno sento il rumore dell’aria che attraversa le condutture nascoste nel controsoffitto, proprio in corrispondenza della vasca che mi urta i nervi molto di più dello sbuffo che si espande per la zona letto attraverso le alette di alluminio; esco così di fretta che mi dimentico di asciugare la bocca e in ascensore un tizio mi fa notare lo sbuffo di dentifricio sulla guancia destra.
Mr Choi è seduto in una delle poltrone che danno le spalle alla reception, lui non mi fa notare lo sbuffo di dentifricio, forse non se n’è nemmeno accorto. «Hai un fazzoletto di carta?», gli chiedo, mi allunga un pacchetto dimenticato chissà da quanto tempo in valigetta, mi pulisco mentre raggiungiamo l’autista che ci aspetta impettito accanto alla vettura, oltre la porta girevole dell’Hotel; non appena lo ritiene garbato apre la portiera posteriore per farmi salire, poi si affretta ad aprile l’altro sportello per far salire Mr Choi. In macchina ci attende un sottofondo discreto, al volume adeguato per non disturbare mentre Mr Choi mi legge il programma della giornata, si sofferma più volte sulla Night Life Experience con la stessa espressione con cui tempo fa ha parlato di Oh Pal Pal, e non mi faccio fregare una seconda volta, lascio da parte le attese. A fine disanima mi informo sul pranzo, che non è stato menzionato; non per una reale esigenza, ma perché confido in un momento di pausa in questa tabella di marcia forzata.
Pali pali, veloce veloce, mi risponde Mr Choi, e la cosa non mi conforta per niente, ma nonostante tutto, contro ogni mia aspettativa il servizio a pranzo non è così fulmineo, pasteggiamo a Soju, per tenere il fegato allenato e non arrivare senza la dovuta preparazione al cospetto di Mr Oh. Approfitto per andare in bagno; chiedo al cameriere, che indica l’uscita e dice di salire di una rampa di scale. Oltre le porte automatiche mi ritrovo in un cesso condiviso con gli altri locali del palazzo, con una latta piena di mozziconi schiacciati accanto ai pisciatoi. Lavo le mani prima e dopo, sistemo i capelli e con il fiatone scendo le scale oltrepassando la porta del ristorante. Immagino Mr Choi che aspetta per brindare al nulla e scendo in strada a respirare lontano dagli odori di marcio e aglio. Sto per fermare un taxi, voglio tornare in albergo, sistemare le cose in valigia a prendere il primo aereo per casa. Poi penso che in fondo vale la pena restare anche soltanto per capire cosa prevede la Night Life Experience del programma. Al ristorante Mr Choi è alle prese con il conto, lascia il tempo sufficiente per bere un po’ d’acqua e poi ripartiamo. E mentre esco di nuovo all’aria aperta penso al viso infastidito della puttana, senza alcun collegamento apparente con quello che mi sta succedendo, è l’asimmetria di sensazioni e situazioni che mi perseguita da quando sono qui. Non c’è nessun legame fra quello che vorrei e quello che sta succedendo, rassegnato seguo la mia guida alla berlina che ci porterà ancora per qualche ora in giro per la città.
Mr Oh ci accoglie a fine tour nel suo ufficio arredato con un’accozzaglia di simboli del potere. Esposti su ripiani e mensole ci sono targhe, foto con capi di stato e capitani d’impresa, onorificenze e diplomi; la scrivania è illuminata dalla vetrata che si affaccia sul lato sud del fiume; due piante ornamentali abbelliscono l’ingresso, ce n’è una accanto al tavolo per le “udienze”, aspetto che ordini di avvicinarmi, lo fa dalla sua posizione marziale, in controluce da cui non riesco a distinguere il colore della cravatta, ma sono quasi certo abbia indosso una di quelle azzurrissime decorate con gli Swarovski. Mr Choi rimane sulla porta e non appena ci sediamo, si congeda con una raffica di inchini. Esce e chiude la porta dietro di sé.
Mi preparo a un altro sermone di Mr Oh versando una tazza di caffè dalla brocca che sta sul tavolo di servizio, lui mi sorprende estraendo dalla cartellina il contratto, mi mostra la sua sigla e il timbro rosso, mi dice che non ha modificato le clausole, per lui è tutto a posto. Ci tengo a ribadire che sono lì proprio per discuterne, per condividere considerazioni sui termini contrattuali, sciogliere dubbi sulle clausole, ma non ci sono problemi, scuote la testa e dice che è contento di avermi conosciuto, che è ottimista quando pensa al futuro della nostra partnership, si fida di me anche se non mi piace Parigi.
Prendo in mano il contratto e scorro i paragrafi, sfoglio le pagine e ogni tanto sposto lo sguardo su di lui che adesso sta sorridendo, è un espressione che non gli s’addice. La voce sembra più morbida del solito: «È insopportabile il jet-lag quando si viaggia verso est, anche io mi sveglio di notte e non riesco più a dormire.» Come se non l’avessi ascoltato, continuo a fare quello che sto facendo, alla fine firmo anche io, poi alzo la testa cercando di mascherare la sorpresa, stringo la mano che Mr Choi mi tende, disteso sopra la scrivania. «In certi posti un occidentale non passa inosservato» adesso il sorriso si apre e mi mostra una chiostra perfetta di denti e anche questa stona con le rughe attorno agli occhi, con mandibole dure e capelli troppo neri per la sua età. Mi accompagna alla porta e usciamo insieme seguiti da Mr Choi che ci stava aspettando in corridoio.
Gli chiedo cosa prevede la Night Life Experience e mi dice che è una sorpresa. Ceniamo in un ristorante tradizionale, un edificio a un piano solo con pareti in legno e carta di riso, schiacciato fra il vetro e cemento delle ambasciate; dopo camminiamo per due isolati al buio prima di trovarci in una strada affollata di luci e gente di tutte le età che si aggira ubriaca fra portoni, scale e marciapiede. Le macchine viaggiano a passo d’uomo evitando pedoni. Prendiamo un ascensore che si apre davanti a un tizio impacchettato in maglietta e pantaloni di tessuto tecnico che ci porta a un tavolo con uno schermo e un microfono. Qui ci raggiunge un numero imprecisato di ragazze, una di loro allunga un microfono a Mr Choi che comincia a cantare; non segue le parole sullo schermo, è una performance sovradimensionata, una professionalità sopra le righe nel contesto di uomini scomposti e donne meravigliose che fluttuano fra tavoli per anticipare i loro capricci. Alcune ragazze si siedono insieme a noi, versano whisky e si fanno portare vassoi di frutta. Però non so cantare, sono stonato, lo faccio presente quando mi passano il microfono e parte la base di una canzone di cui non ricordo il titolo, ma sono sicuro che sia degli ABBA. Cerco di restituire il microfono alla ragazza, ma un’altra me lo spinge di nuovo davanti alla faccia aiutata da Mr Oh. Mi lamento, ribadisco che non so cantare, ma non è importante, dice lui che non sa cantare, è una delle poche cose che non ha mai imparato a fare.