Ambientazione: San Giacinto al Monte (località immaginaria sud Italia)
Ci sono racconti che riescono a tracciare il perimetro del loro personale universo: ogni cosa che vi accade ha ragione di essere solo nel suo interno. “Catrame” di Manuela Montanaro è uno di questi. In che epoca si svolge questa storia? Il suo protagonista è un personaggio o una metafora? E da dove viene questa prosa così barocca e moderna allo stesso tempo? Un racconto che non assomiglia a niente, fuori dal tempo e dalle convenzioni. Un esordio che trasuda originalità.
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Manuela Montanaro, Catrame
A San Giacinto al Monte l’inverno è un limbo di fango e marciapiedi viscidi. Mezza sega di collina che non fa la neve e a scuola ci devi andare. Lo chiamano al Monte per far stare buoni i bambini. Che dal monte scende il vecchio pazzo nato nel bosco e nel buio si prende quelli che coi rivoli di muco sotto al naso fanno incazzare la mamma e il babbo. Là, mezza eternità fa, ci stava uno che il naso non gli colava e non si sapeva da dove era nato e non si sapeva dove sarebbe morto. C’aveva tipo sei anni oppure ne parevano pochi ma erano mezza ventina portati male. Era tutto un nervo e una paresi sulla bocca, a sputare un sorriso a quelli con la giacchetta.
Le persone lo chiamavano Catrame e io non lo avevo mai capito se era per il nero sotto le unghie che non se ne veniva neanche quando se le mangiava fino al sangue oppure se era perché la madre dicevano che era una puttana handicappata che lo aveva buttato sull’asfalto fresco il giorno che era nato. E quell’asfalto ce l’aveva ancora addosso.
Catrame non si sa come dormiva dove mangiava se si lavava e un se giorno avrebbe scopato.
Quando c’aveva la metà degli anni, in certi giorni di fine settembre, lo trovavi con la ruggine dei chiodi in mano che rivoltava la luna in una pozzanghera. E chissà che cosa si pensava in quella testa leggera come una zucca seccata all’aria. Due o tre semi nel cervello che se li sentiva quando girava la testa. Il seme inutile di sua madre, che rinsecchiva ad ogni stagione e diventava polvere, il seme grosso di suo padre che manco lo sapeva che stava là, la sementa sua piccola e verde, che sembrava una cimice per quanto puzzava.
Catrame non diceva mai niente a nessuno e pure era impossibile non starlo a sentire.
Catrame esisteva come un rumore di fondo delle coscienze della provincia, per dirci tutti i giorni che è inutile mettere le carte di giornali sui pensieri putridi. Quelli fermentano uguale e puzzano di più. Catrame un giovedì se ne andò nel bosco, hai voglia le vecchie a dirgli che ci stava il pazzo che gli avrebbe mangiato il fegato, niente lui dritto verso il monte. E il fegato di Catrame pare che era troppo acido e se ne tornò vivo con un uccello in mano. Era un ovatta grigio tutto occhi gialli che cigolava sotto l’ascella. Catrame gli metteva l’indice sotto il taglio del becco e quella non lo pizzicava. Catrame la lisciava sulle penne e quella non volava. Catrame se la portava nella sacca secca di sporco e di tela e quella alzava la testa spelacchiata e girava le palle gialle e nere a fare la guardia al bambino lurido.
Catrame ciancicava la carne cruda e gliela metteva nel becco. E quella se la spingeva nella gola e ancora apriva la tenaglia della bocca.
Catrame c’aveva il pavimento a spruzzi bianchi neri e verdi e l’orecchio che bolliva perché quella dormiva sulla testa sua.
Catrame non ci parlava con l’uccella ma certi giorni metteva il naso nelle piume del petto e sentiva l’odore di femmina. Di madre. Di cose buone che non poteva riconoscere.
Quella gridava la notte, con certi vagiti sciamanici che ci facevano ficcare sotto le coperte e Catrame era il suo silenzio buono.
Quella voleva stirarsi le braccia e fare la prova a volare e Catrame la faceva sbattere un poco e poi metteva la catena attorno al piede che non se ne volasse davvero. Ma tanto l’uccella moriva fuori dalle lamiere di Catrame e la zampa col ferro attorcigliato serviva per tenersi vicino il bambino sporco.
Una mattina Catrame teneva un buco sulla tempia che pareva che finalmente gli avevano sparato. Disse che l’uccella se lo stava mangiando e giù le vecchie a ridere con quei quattro denti claudicanti. Due sere dopo Catrame strascicava il piede e disse che l’uccella gli staccava le unghie.
Il giorno di Pentecoste se ne andò in giro con una poltiglia di intestino in mano e un buco nel fianco da cui pure il sangue si era scocciato di uscire.
L’uccella gli volava accanto e non faceva avvicinare nessuno. Che pure nessuno si sarebbe avvicinato a Catrame.
Lo infiggeva senza pace nella piega del collo, nell’orecchio, nel polpaccio floscio. E Catrame non piangeva. Non diceva proprio niente.
E come si fa, mannaggia a lui, a non scannare un’uccella che ti sta mangiando vivo?
E come si fa a dire che il figlio dell’asfalto si era invaghito di un diavolo della sera che lo stava ad ammazzare?
Catrame, secco di sangue nero, manteneva la faccia di Carnevale.
Catrame era pazzo pure lui, come a sua madre.
L’uccella iniziò a scavargli nel petto, proprio sopra al cuore.
E quando il buco fu abbastanza grosso lo vide pulsare forte e si spaventò.
Iniziò a sbattere le ali e gridava come impazzita.
Si avvicinava alla preda rossa e se la voleva mangiare ma poi presa dal disgusto e dalla paura, pigolava ancora più forte.
Catrame allora acchiappò il cuore con la mano destra e se lo strappò. Glielo buttò là tra le fascine, proprio in quel punto oltre il fosso.
L’uccella fece un volo fragile e finì in picchiata sul cuore morto. Se lo mangiò, tutto, cosa credete.
Catrame si avvicinò, e quando vide che non ne era rimasto niente, raccolse con calma l’uccella che non si mettesse ad urlare, se la mise sotto l’ascella e se ne andò al camposanto da solo. Proprio come da solo era venuto.