Eleonora C. Caruso, Casa

Per convenzione viene attributo al concetto di “casa” ogni sorta di connotazione positiva: amore, calore, affetto, nostalgia. Nella realtà i sentimenti verso l’abitazione da cui proveniamo possono essere assai più complessi e contraddittori. Lo illustra molto bene Eleonora C. Caruso con questo racconto nel quale la casa diventa un luogo dove resistere per sopravvivere e i difetti acquistano lo status di normalità. In un simile contesto, una gita all’Ikea ha il sapore dell’evento e l’acquisto di un semplice mobiletto rappresenta una conquista. Anche se i sentimenti di base, quelli profondi, rimangono immutati per sempre.

Eleonora C. Caruso, Casa

Quand’era bambina preferiva qualsiasi altra casa alla loro casa. Le sembravano tutte più nuove, più belle, più comode. Aveva ragione.

Madre la chiamava “la casa di merda”. Diceva sempre: “Appena si può ce ne andiamo, da questa casa di merda”. Erano rimasti lì ventitré anni.

La prima cosa a cui si andava incontro, entrando dalla porta, era la rampa di scale di pietra. Sulla sinistra c’erano il garage e un sottoscala, che fungeva da rimessa per la legna e luogo di villeggiatura per i topi. Non spesso, ma nemmeno raramente, i villeggianti salivano su fino in casa, e a quel punto loro gli davano il nome di “inquilini”. Una sera, mentre Lei cenava con Madre e Sorella, un Inquilino s’era attaccato alla trappola di colla sotto il frigorifero e si era messo a urlare e a dimenarsi, costringendo Madre a vincere il ribrezzo quel tanto che bastava per avvicinarsi e coprirlo con un secchio. Quello era rimasto lì a gridare per tre ore, il tempo necessario affinché Padre ritornasse dal turno due – dieci e si trovasse da buttare, anziché un comune topo, una creatura idofoba identica a quelle a cui sparava in testa giocando a Resident Evil 2. Scaricatolo nel water con una combinazione di guanti e bastoni, Padre aveva detto “Guarda che fanno schifo anche a me”, cosa che Lei aveva trovato sconcertante; era convinta che gli fossero del tutto indifferenti, altrimenti perché restare in una casa coi topi?

Il problema dei topi aveva iniziato a manifestarsi negli anni il cui avevano smosso la terra per costruire un set di sei villette a schiera proprio lì di fronte. Le casette di qualcuno venivano su perfette, un mattoncino dopo l’altro, bianche e geometriche come scolpite a partire da gigantesche zollette di zucchero. Certi pomeriggi Lei infilava le gambe e le braccia nella ringhiera di una porta finestra e le guardava, immaginando di vivere lì. Contrariamente a quello che pensano alcuni, non serve crescere molto per iniziare a capire che a volte la vita è una fregatura.

Dopo due rampe di scale c’era un lungo corridoio, il cui pavimento sembrava scelto apposta per assorbire la luce. Il lampadario faceva del suo meglio, ma oltre che dall’età era provato anche dalle infinite pallonate ricevute nel periodo in cui Lei era in fissa con la pallavolo – periodo innescato dalla visione del cartone animato Mila e Shiro e durato per tutte le elementari. Una spaziosa nicchia fungeva da cuccia per Cane, che soleva essere il primo ad accogliere i topi in arrivo con timorosi abbai e correnti generate dal rapido abbassarsi delle orecchie. Era un pastore tedesco di novanta chili.

Altra feature del corridoio era la porta sempre chiusa di un losco solaio parzialmente scoperchiato. Lì davanti, mentre stavano chissà perché giocando con una cassetta degli attrezzi, Lei aveva chissà ancora di più perché strizzato con una tenaglia la schiena semi-nuda di Sorella, dandole oltresì convintamente della stronza.

Sorella, nella vita, avrebbe preso decisioni che per eufemismo qui definiremo “controverse”, dalle quali Lei avrebbe sempre provato a dissuaderla, ma che dire? Visti i presupposti, la fiducia era quella che era.

Il riscaldamento centralizzato non c’era. L’ingrato compito di contrastare la tendenza al gelo di quei muri spessi era affidato ad una sola stufa a legna, piazzata in cucina e reclutata in seguito a un ciclo di pellegrinaggi da un ipermercato all’altro durato un anno (o quindici, a sentire Lei e Sorella), alla ricerca della miglior qualità-prezzo.  Affinché si scaldassero almeno le stanze adicenti, la stufa andava a massimo regime. Tali stanze erano quindi tiepide, tranne la cucina stessa, dove ti sudavano anche i denti. Per anni tutti gli occhiali da vista di Lei si sarebbero rigati e offuscati: shock termico, diceva l’ottico.

“Shock termico” sarebbe stato anche un buon titolo per l’epica cavalleresca che era l’atto di vestirsi ogni mattina. Essendo che la casa congelava nottetempo, Madre o Padre si svegliavano per primi per accendere la stufa, cosìcché le figliolette non incontrassero una fine dickensiana mentre si toglievano il pigiama. Tale gesto, in quanto eroico, non poteva essere altro che completamente inutile: alla stanza occorrevano minimo due ore per scaldarsi, e la salute della fiamma era comunque imprevedibile. Nelle mattine umide, ad esempio, la stufa ruttava fumo e basta, ed era inutile tentare di convincerla a far meglio. Visto che non c’era neanche l’acqua calda, nei momenti disperati Lei ficcava le mani sopra il vapore di un pentolino d’acqua che bolliva per il tè. Sarebbe bello dire che, a un certo punto, si abituò a cambiarsi in compagnia dei coniglietti di condensa generati dal suo respiro, ma no. Per niente.

A Madre non piacevano i mobili di Ikea, o almeno così diceva. Della prima volta che avevano attraversato la regione apposta per andarci, ricordava solo le polpette con la marmellata, e neanche quelle le erano piaciute.

La stanza che nei primi anni della vita di Lei aveva assuto il nome di “stanza dei giochi” – anche se “discarica” o “rimessa” sarebbero stati altrettanto adeguati – si era trasformata, a un certo punto, nel salotto.

Stranamente esente da disagi significativi, il salotto era però terra di faide che vedevano al centro l’uso del PC. A dire di Padre, Lei ci scriveva battendo troppo forte sulla tastiera, impedendogli di guardare la televisione. A dire di Lei, Padre guardava la televisione a volume troppo alto, impedendole di scrivere. A dire di Madre, invece, il problema era molto più semplice: quel PC non era un Mac, quindi era un cesso.

“Un computer di merda per una casa di merda”, diceva.

Dalla cucina si accedeva al terrazzo. Era l’unica cosa che Madre gradisse, perché era grande e ci stavano molte piante, ma era sfortunatamente anche flagellato su tre piani dalla cinepanettonica presenza di vicini stereotipici.

Piano terra, la vecchia impicciona. Nonostante i suoi trecentocinquant’anni circa, avrebbe visto una farfalla posarsi sul Pirellone. Fissava così intensamente il loro terrazzo, e la porta finestra con esso, che un giorno chiamò Sorella per chiederle: “Ma cosa sono le cose che girano?”. Si riferiva al ventilatore da soffitto in cucina. Valutarono di attaccarci un cartello con scritto: “Si faccia i cazzi suoi”.

Primo piano,  confinante al loro, la nemesi di una famiglia piemontese: una famiglia romana. A separare i due terrazzi c’era solo un cancelletto basso, che questi adoravano varcare a caso. Un giorno, mentre loro pranzavano, si trovarono di colpo la vicina al tavolo, che s’era autoinvitata a prendere un caffè. Molte leggi umanitarie furono impugnate, quel giorno, per convincere Madre a non agire d’istinto, ma il giorno dopo ammassò tutti i vecchi mobili inutilizzati nel solaio davanti al cancelletto, bloccando così il passaggio. Come si farebbe in una zombie apocalypse.

Terzo e ultimo piano, davanti a loro, “i conigli”. Era Nonna a chiamarli così, perché erano pieni di figli. Uno di loro aveva un hobby: pisciare giù dal balcone. La vecchia impicciona non ne era felice.

C’era un’altra cosa in terrazzo, oltre alle piante e al disagio, cioè “la casetta”. Si trattava di una medio-piccola struttura in compensato con tanto di porta, tetto a punta e finestrelle. Lei adorava stare lì. Adorava disegnare con i pennarelli sopra le pareti, adorava riempirla di piccoli oggetti per immaginare di viverci. Adorava anche solo sdraiarsi e fissare il soffitto, in penombra, respirando col naso l’odore di trucioli e assaporando quel senso di padronanza di sé nello spazio che certi di noi hanno provato solo da bambini.

A volte entravano anche i figli dei vicini, nella sua casetta, il maggiore dei conigli (forse otto anni) e la minore dei romani (forse nove). Lei ne aveva forse cinque. Un giorno tra di loro successe qualcosa che fece sparire la casetta. Padre la smontò e, nonostante le insistenze, non la rimontò mai più. Finirono per venderla.

Lei non fu più così tranquilla com’era stata lì.

Quando decise di lasciare la camera al caldo che condivideva con Sorella, per perseguire i suoi primi adolescenziali pruriti di indipendenza, Lei si trasferì nella più esterna e fredda della casa. Se almeno nella zona con la stufa a legna i muri si scaldavano abbastanza da conservare, anche di notte, le tracce di una vita umana, allontanandosi da lì era hic sunt pinguines.

In quest’area delle dimensioni di un trilocale milanese, era una vecchia stufa di metano a scaldare tutto. Va da sé che non scaldasse affatto. In inverno Lei dormiva così: lenzuolo, coperta di pile, coperta di lana cotta, piumino, corpiletto, pigiama di pile, doppio paio di calze di cui uno peloso, ulteriore felpa di pile. La faccenda era addirittura peggiorata quando un vicino di casa, a furia di abbattere muri per allargare abusivamente casa propria, era finito in camera sua. Letteralmente. Ci aveva fatto un buco, poi coperto alla buona con della plastica isolante da entrambi i lati.

Unico pregio della stanza, il bagno era lì accanto. Peccato fosse una trappola tipo Die Hard, in cui ogni operazione era tortuosa.

L’acqua del lavandino ci metteva una vita a scaldarsi. Anche quella della vasca, e il braccio della doccia non la miscelava neanche bene. La lavatrice scaricava lì dentro, quindi era meglio non lavarsi mentre era in funzione. Anziché un tappeto, come tutti i cristiani, loro per non scivolare sul pavimento usavano i vestiti sporchi.

Farsi la doccia era faticoso, ma non quanto farsi il bidet. E questo perché non c’era, il bidet. O meglio, c’era ma era rotto da sempre, ed era stato quindi convertito a comodo porta-riviste dove accumulare gli AutoOggi. Per lavarsi bisognava: appollaiarsi sul sottile e freddo marmo della vasca, assumere una posizione di tai-chi che neanche Ranma durante l’allenamento in Cina, raccogliere l’acqua lontanissima con le mani a coppetta, portarne almeno un po’ a destinazione, il tutto mezza nuda.

L’acquisto di una stufetta portatile per il bagno era stato motivo di lunghe lotte tra Lei e Padre, ma erano tutte finite così: “La paghi tu?”.

Dopo la volta delle polpette, erano tornati da Ikea solo molti anni dopo, per sua insistenza. Ormai ventenne, Lei era stufa di vedersi circondata dagli stessi mobili della sua infanzia, ai quali si erano aggiunti – senza soluzione di continuità – anche tutti quelli scartati dalle altre stanze che Padre si ostinava a conservare. Le sue amiche avevano iniziato a possedere case intere. C’era sempre un genitore che affittava, una nonna che regalava, una zia che lasciava un’eredità. A Lei bastava una stanza che somigliasse a quelle dei cataloghi, un luogo su misura che nessuno potesse più invadere, smontare, vendere.

Arrivati da Ikea, Padre disse: “Puoi prendere una cosa sola”.

Lei andò nel panico. Scelse un’orrenda mensola triangolare verde acido, che non reggeva niente.

L’ultima stanza malamente scaldata a metano era quella dei suoi genitori. Era una stanza inutilmente grande, abbastanza perché Lei, da bambina, giocasse a attraversarla a bordo di Bimbone, un pupazzo gigante che perdeva pallini di polistirolo dalla pancia e fungeva, in quel caso, da zattera. Tra i vari mobili c’era così tanto spazio che sembrava fossero in castigo, costretti ognuno dietro una lavagna. Unica eccezione, il letto e i comodini. Cioè era rilevante in quanto Lei, saltando sul letto, era atterrata di faccia su un comodino. Stava mettendo in scena un episodio di Candy, quello in cui Susanna si getta in avanti per salvare Terence dalla caduta di un riflettore. Dannato Terence.

In famiglia odiavano le foto, ma le poche che c’erano era lì, in camera dei suoi. Di tutte la più vecchia era quella in una piccola cornice finto oro con le rondini, che immortalava Lei a circa tre mesi, tutta nuda e baldanzosa, pancia in giù e chiappette per aria, al centro esatto del lettone. Quando quella foto era stata scattata, Madre e Padre avevano diciotto anni. Chissà se, entrando in quella fredda stanza vuota, avevano solo pensato, oppure se l’erano detti, che ci sarebbero rimasti poco, in quella casa di merda. Il tempo di risparmiare qualcosa, trovare di meglio. O forse chissà, magari mentre scattavano quella foto non avevano pensato affatto che fosse una casa di merda, ma solo: è la nostra casa.

(A corollario del racconto, è necessario apporre la breve conversazione telefonica sul tema intercorsa tra Lei e Madre:

“Ho scritto una roba sulla nostra vecchia casa.”

“Oh Signur. Dovevi proprio?”

“Ma come? Anziché ringraziarmi perché conservo i nostri ricordi!”

“Per carità.”

“Maronna, che poesia. Vabbé, a ‘sto punto: per gli scarafaggi va meglio il veleno in spray o in gocce.”

“Prima le formiche, ‘mo gli scarafaggi?”

“Eh, tanto entrano dallo scolo sul terrazzo. Ce n’è sempre una, in sta casa di merda.”)