Valerio Millefoglie non è un semplice scrittore, ma un performer. Io non l’ho mai visto dal vivo, ma mi dicono che durante le sue letture si agiti a tal punto da ribaltare sedie e rompere microfoni, proprio come le vere rockstar. Forse per questo i suoi testi hanno caratteristiche peculiari: talvolta sono frammenti di poche righe, altre volte sembrano canzoni. Materiale ideale, insomma, per essere interpretato ad alta voce, e che gli ha già procurato una discreta schiera di fan. Quando invece si concentra sulla forma narrativa più classica del racconto, produce pagine molto intense, costruite con frasi brevi, cariche di significato. I suoi sono racconti ambiziosi, che a volte non mi convincono, a volte, al contrario, mi esaltano. Credo anche questo faccia parte del gioco di un personaggio che non si accontenta di essere letto: vuole essere amato o odiato. Che il nome dunque non vi tragga in inganno: anche se si chiama come una torta, Millefoglie non è affatto dolce!
BOSTIK
Inizialmente se ne stavano tranquilli nel negozio di una rambla. Poi una disse Uhh guarda che belli questi sandaletti, e si ritrovarono a essere indossati da due piedi che per il secondo anno consecutivo camminavano su Barcellona. Qualche settimana dopo conobbero l’Italia. Accadde proprio su di un prato del nord Italia. Accadde che uno dei due sandaletti decise che proprio non ne poteva più e si ruppe. La ragazza rise. Il ragazzo anche. La ragazza saltellò e si appoggiò a lui che andò più lento e si fece tutto spalla e bastone. Una panchina, ecco la soluzione, una panchina per pensare ad un piano. Si sedettero. La ragazza disse E’ domenica, ora come facciamo? Dove troviamo un negozio aperto per prendere delle altre scarpe? Non so, forse in centro, rispose il ragazzo. Sì, continuò lei, ma come ci arriviamo? Io non riesco a camminare. Quindi trovarono tutto ciò molto divertente e risero nuovamente.
Insegna luminosa. Su sfondo bianco scritta rossa: Bar Trattoria. Su vetrina opaca sporca un foglio ingiallito presentava un menù completo da sei Euro. I due entrarono. Salutarono il signore anziano magro che li accolse. Chiesero una formale Coca Cola. Il ragazzo sperò, ci provò e disse Per caso poi avete anche un chiodino? Le si è rotto il laccio del sandalo, giustificò. Un attimo che vado a vedere, rispose il signore anziano magro.
Il giornale vecchio sul pavimento ancora più vecchio del Bar Trattoria. Il tappino del Bostik sul titolo in ultima pagina. La confezione di Bostik nella mano del ragazzo. Nell’altra mano il sandalo ribelle. Infilò la colla nel buchino, ficcò dentro il laccettino, inchiodò e poi pulì la colla che intanto si solidificava sulle sue dita. La ragazza reggendosi al bancone allungò in moviola il piede fendendo l’aria con le sue unghie smaltate di viola. Il ragazzo le fece calzare il sandalo aggiustato. Ringraziarono il signore anziano magro per il suo kit d’emergenza e furono di nuovo in strada. Passeggiarono affianco dopo un anno che non passeggiavano più affianco. I vicendevoli rancori seppelliti dagli altri rancori che entrambi avevano verso qualcun altro e qualcos’altro. Andarono a vedere un film. Ogni tanto si tenevano per mano, ogni tanto la ragazza poggiava la testa sulla spalla del ragazzo, i sandali se ne stavano sul parquet del cinema e pensavano a tutti i posti di carne dove le mani dei due sopra di loro si erano posate, a tutte le parole date e riprese.
Ravioli di gamberi al vapore, ravioli di carne in padella, riso in bianco, pollo fritto, pollo piccante con gamberi, pane al vapore dorato, da bere due tè. Il ragazzo e la ragazza cenarono in uno dei migliori ristoranti cinesi della città. In auto lei mise la mano sotto la coscia del ragazzo, fra la coscia e il sedile. Poi venne l’autogrill e il suo essere oasi autostradale. L’acqua Panna con beccuccio stile ciuccio e Smarties. Questa bottiglia d’acqua è troppo edipica per i miei gusti, disse il ragazzo, poi la macchina si rimise nella corsia verso casa di lei. Il ragazzo parcheggiò prima del viale pedonale e l’accompagnò sotto il piccolo palazzo. La fontanella c’era ancora. La via anche. La finestra della sua camera da letto sempre lassù. Si abbracciarono, Ti voglio bene, sussurrò nell’orecchio la ragazza al ragazzo. Anch’io, sussurrò nell’orecchio il ragazzo alla ragazza. Lei era dimagrita e lui era attaccato a tutta quella pelle che lei prima aveva in più, dov’era finita? S’era forse portata via anche lui?
La cintura di sicurezza lo abbracciava. Le dita sul volante erano appiccicose. Con le unghie cercava di togliersi la plastichina del Bostik. Abbassò il finestrino e la lasciò andare al vento. Guardava fisso avanti, litigava con il condizionatore d’aria, la strada sembrava tutta uguale. La strada era tutta uguale.
I sandaletti riposti al buio dell’armadio cercavano di prender sonno dopo una estenuante giornata di lavoro. Lei spense la luce e circondò il letto con la zanzariera che le faceva da scudo. Sotto le coperte i suoi piedi toccarono solo i suoi piedi.
Prima o poi ogni guerra si rivela per quel che è. Inutile. Infantile. Ogni battaglia uno spreco. Ogni distruzione una parvenza di rinascita. Non si finisce mai d’essere un dopoguerra vivente. Non si finisce mai d’essere maceria e polvere e disabitati. Siamo come la pellicola di un film inceppata poco prima dei titoli di coda, inceppata proprio sulla scritta The End che rimane. E trema. Su tutto lo schermo. E sui visi illuminati degli spettatori.
Dalla finestra entrò il sole. Dietro ogni apocalisse c’è sempre qualcosa di peggio.