Chi si occupa di poesia o letteratura dalle parti di Bologna non può non conoscere il nome di Sergio Rotino, uno degli autori più attivi e uno dei più entusiasti curatori di riviste, concorsi, convegni e manifestazioni letterarie.
Non è un caso se Sergio è stato trasformato addirittura nel personaggio protagonista di un romanzo giallo di Lorenzo Marzaduri ambientato, per l’appunto, fra biennali d’arte e circoli di narrativa della Bologna underground.
Sergio si dedica con tale passione a tutto ciò che fa letteratura che è impossibile non invidiare questa sua devozione alla causa.
Il racconto che mi ha consegnato per questa fanzine è in una versione non ancora definitiva e pertanto viene pubblicato in via sperimentale.
La preziosa Francesca
La preziosa Francesca arrivò tutta sorridente in un fresco pomeriggio di ottobre. Salutò con un “Ciao” vivace quanto falso, si sedette ad un terminale della redazione con un fascio di fogli dattiloscritti al fianco e iniziò a bestemmiare in perfetto dialetto palermitano. Ci era stata presentata vagamente nemmeno due settimane prima come amica della caporedattrice Renata Ferraglia, una giovane e conturbante catanese in preda a continue crisi di abbandono. Nel senso che aveva dovuto abbandonare la sua amata Milano, per trasferirsi da noi, in provincia. Era stato un classico editoriale quello che ce l’aveva messa lì a dirigere queste grandiose testate: la casa editrice per cui lavorava le aveva dato il benservito dalla notte al giorno successivo, senza otto giorni e, soprattutto, senza pagarle le oltre sette mensilità che le spettavano. Narrava, nelle ore in cui aveva prosciugato la valle di depressione in cui pareva albergare dopo il trasferimento in provincia, di vere non stop della durata record di cinque giorni e sei notti senza staccarsi dalla scrivania per organizzare, scrivere e impaginare la rivista in cui lavorava. Io e il buon Mario un po’ rabbridivamo un po’ sorridevamo a tanta orrenda cosa. Ci chiedevamo, sarà poi vero? Esisteranno veramente situazioni così terribili? Noi due si viveva in una piccola casa editrice che aveva fatto i soldi grazie a fortunate coincidenze astrali, e che chiedeva abnegazione flessibile, ma nessuna erculea simile prova. Lavoravamo tanto anche noi, anche noi facevamo qualche notte e venivamo pagati, dopo ben otto anni, solo con il maledetto diciannovepercento. Ma era povera cosa se confrontata con la cordiale vicinanza che ci legava e con la possibilità di ascoltare in anteprima, grazie alle case discografiche, tutto lo scibile musicale prodotto ogni mese. Di fatto, se non fosse ricomparsa dalle nebbie di chissadove la preziosa Francesca, la depressa Renata avrebbe di lì a poco tentato il suicidio. Quelle due erano amiche di vecchia data, esattamente dal primo anno di università e per la bellezza dei quattro anni restanti. Poi la separazione. Problemi familiari avevano portato la preziosa Francesca ad abbandonare la capitale lombarda e trasferirsi in terre più calde. Immaginate quindi la gioia di Renata nel reincontrare la preziosa Francesca durante una passeggiata estiva al Parco Sud con l’amorevole nostro direttore responsabile Riccardo Gardum, grande esponente del fotogiornalismo nostrano, nonché uomo di rara umanità. Era stato lui infatti che mi aveva raccolto da una vita di articoluzzi disseminati su fogliacci di quart’ordine per regalarmi a una professionalità adamantina. Mica castagaccio. Fu lì che Gardum, dopo solo qualche ora di conoscenza, colpito da una simpatia improvvisa propose alla preziosa Francesca, all’epoca in disperate necessità economiche, di lavorare per lui. Avrebbe dovuto digitare alcuni articoli per il nostro famoso mensile Blood’n’Axe, rivista di musica metallica per eccellenza, con allegato compact disc, dove smiagolavano le migliori voci e dardeggiavanno le peggio infuocate chitarre del panorama heavy internazionale. Vecchi padri fondatori si alternavano a nuovi miti di questo rumorosissimo sound, per la gioia dei fan italici sempre a corto di concerti e notizie.
In realtà il computer le fu ostile da subito. “Mi fa sparire i file, ‘sto bastardo” berciava la preziosa Francesca ad ogni pie’ sospinto. “Non è come il mio. Questo mi perde i file, dannazione.”
La cosa per me e Mario, redattori tuttofare dei grandiosi mensili musicali Dance Discoteq e, appunto, Blood’n’Axe, rasentava la normale routine. Eravamo abituati a dover far affidamento sul nostro acume per estrarre dal maledetto IBM “inserito in rete” alcuni dei preziosi dattiloscritti che i nostri collaboratori ci inviavano ogni mese, con regolarità, due giorni prima della chiusura. Solo che a me, redattore pronto a spiccare il salto verso un posto di maggior prestigio, la vista della preziosa Francesca seduta e berciante al computer, fece immediatamente montare un feroce mal di testa. Anche perché la scrivania dove si era seduta spargendo le sue sigarette, i suoi fiammiferi e tutte quelle cosine che una donna si porta dietro, era la mia. Come mio era il computer da cui mi aveva spodestato.
A sentire la preziosa Francesca era stato Gardum, magnifico direttore responsabile, a dirle che quella postazione poteva essere occupata. “Tanto non ci lavora nessuno a quell’ora” pare avesse commentato. In verità la cosa mi parve abbastanza strana, dato che era quello il momento in cui l’attività mia e della redazione ferveva maggiormente. Comunque la cavalleria prima di tutto, le lasciai il posto accontentandomi di uno strapuntino d’angolo, accanto al suo posacenere tascabile sfoderato con noncuranza sotto le mie narici. Eppure la buona Renata Ferraglia avrebbe dovuto avvertirla che nessuno di noi due baldi redattori fumava. Comunque la cavalleria prima di tutto. E poi il mal di testa mi andava aumentando, lento ma inesorabile.
“Sarà il tempo” disse banalmente il buon Mario. “Anche a me da un paio di giorni duole la cervicale.”
“Mi sembra un po’ tirata, come spiegazione.”
“Allora prendi un Moment e piantala di lamentarti.”
“In effetti” dissi vago, ritornando a scervellarmi su come imbastire un pezzo sulla techno-trance che imperava nelle discoteche rivierasche. Era il quarto numero di fila che lo stupendo fotoreporter Gardum Riccardo mi faceva rimestare nel paiolo, ormai vuoto, del tema. “Guarda la cosa dal di sotto” aveva detto cripticamente giorni prima. “Non ti accorgi che l’associazione dei bassi a 320 bpm con le onde cerebrali crea un nuovo stato mentale, simile alla visione della Madonna a Lourdes? Ma sei proprio scemo, ti si deve sempre spiegare tutto!” In verità, un simile rimprovero da parte dell’esimio massimo esponente del giornalismo fotografico internazionale, mi aveva lasciato perplesso. Mai si era abbassato all’insulto con noi umili redattori. Aveva sempre usato il metodo, molto più fruttuoso a suo dire, del bastone e della carota. Un metodo che permetteva a lui di essere rispettato e a noi di lavorare spediti, felici della sua immensa comprensione. Gli errori erano piccoli incidenti di passaggio sulle nostre buste paga, che lui stesso vistava amorevolmente ogni mese. A vederle sembravano più le pagelle delle nostre maestre elementari durante i consigli di istituti, tanto erano piene di fregi, cancellature e commenti. Tutti vergati di sua propria mano.
“Avrà problemi con la moglie” aveva detto in quell’occasione il buon Mario.
“Sarà” avevo ribattuto io. “Ma perché se la prende solo con me?”
“Lo sai com’è” aveva commentato lui. “Vorrà tenerti sulla corda in questi mesi, prima che si parta con la nuova testata.”
Già, la nuova testata. Help!, il regno dei fumetti, avrebbe dovuto chiamarsi, una rivista formato tabloid di cui dovevo diventare il caporedattore, redattore, correttore di bozze e magazziniere a tempo perso. Un lavoro che mi avrebbe assorbito completamente, ma in cui avrei a detta del Gardum dato finalmente prova del mio talento di estremo conoscitore dello scibile fumettistico passato, presente e futuro. La testata, secondo gli editori e lo stupendo direttore responsabile, avrebbe dovuto gettare nel più nero sconforto tutte le case editrici di fumetto nostrane e aprirci i cancelli di quelle stanziali oltreoceano. Il fatto che dovessi essere io a occuparmene, era stata dettata dall’anzianità maggiore che avevo accumulato sulle scrivanie della redazione. Al buon Mario sarebbe toccato altro incarico nel prossimo futuro.
Ma gli attacchi frontali del geniale Riccardo Gardum nei miei confronti erano continuati, con sempre maggiore virulenza mano a mano che i mesi prendevano il posto dei mesi. Battutine sulle mie incapacità a risolvere semplici problemi redazionali avevano lasciato il passo a sceneggiate plateali sulle mie enormi incompetenze giornalistiche davanti all’intero staff redazionale. Futili motivi erano diventati ragioni di primaria sopravvivenza per le testate e, se non si risolvevano nei tempi utili dei decimi di secondi, la colpa di tutto sarebbe necessariamente stata mia e della mia busta paga che iniziava a restringersi peggio di una maglietta sottoposta a un lavaggio troppo energico.
“E’ la tensione per la nuova creatura” diceva il buon Mario addentando un panino magnum durante la pausa di pranzo consumata in un baretto della zona. “Vai tranquillo che, appena in edicola, tutto tornerà normale.”
“Sarà” dicevo io piluccando la mia insalata greca. “Però non capisco come mai il grandioso Gardum non rampogni assolutamente la preziosa Francesca.”
“Eh” diceva il buon Mario fra un movimento di mandibola e l’altro. “Il fascino delle donne siciliane.”
In quegli ultimi tempi avevo dovuto condividere sempre più spesso la mia scrivania con la preziosa Francesca, che oramai faceva parte integrante della redazione. Al perché dovessi essere io a restringere lo spazio di lavoro, Gardum aveva impiantato un casino del trentanove pieno di urla e strepiti sul fatto che il mio egoismo nei confronti di una povera ragazza volenterosa di apprendere e senza il becco d’un quattrino era senza limiti. “Cosa proveresti se fossi al suo posto, razza di omunculo?” aveva roboato la voce del possente Gardum. “Eh, razza di insetto, cosa proveresti?”
A queste parole vibranti di sdegno non seppi cosa rispondere. Mi sentivo in colpa, ecco, e preferii battere in ritirata abbozzando umilissime scuse.
Di fatto i mal di testa mi erano diventati sempre più frequenti, arrivando a diventare tristemente come le ciliege a giugno. Mi prendevano a tradimento dietro gli occhi per poi irradiarsi a tutta la scatola cranica. E bastava sentissi la voce della preziosa Francesca alzarsi di qualche ottava presa da un attacco d’ira verso il mio computer perché esplodessero in tutta la loro violenza.
“Se troppo sotto pressione, diceva il buon Mario, “dovresti imparare a rilassarti. Fai come me, comprati un buon coltello da lancio e vai ad esercitarti contro un asse di legno. Non sai quanto aiuti a scaricare le tensioni questo esercizio.”
I coltelli erano una vera mania per il buon Mario, al pari dei gruppi di grind-metal. Ne aveva una collezione vastissima: coltelli da taglio, coltelli da lancio, a farfalla, cantonesi, coreani, machete, temperini multiuso e via cantando. Erano tutti esposti nelle vetrine che arredavano il suo appartamento in zona Bolognina, in perfetto ordine di provenienza e ben lucidati. Ogni coltello aveva il suo posto nelle rastrelliere, e veniva contraddistinto da una etichetta adesiva su cui il buon Mario aveva annotato preventivamente nome convenzionale, marca, tipo, nazionalità e anno di fabbricazione. Questo lama per lama. Me le aveva fatte vedere tutte un giorno che ero andato a casa sua per alcuni compact di oscuri gruppi death, di provenienza ungro-finnica.
“Non sono meravigliosi?” aveva chiesto con l’entusiasmo di un bambino mostrandomi quella puntuta raccolta. “Armi così letali e silenziose che se ne stanno sottovetro, più inoffensive delle farfalle. E forse anche più affascinanti.”
“Ci affetto il pane” dissi io.
“Cosa?” fece lui.
“Con i coltelli. Ci affetto il pane. Servono a questo, no?”
Il buon Mario mi guardò come se fosse tornato al primo giorno di redazione, quando ci stringemmo la mano diffidenti ma carichi di vibrazioni altamente positive. La faccia gli si era atteggiata ad una evidente perplessità. Rughe profonde attraversavano la sua fronte.
“Dài” feci. “Era solo uno scherzo.” E gli diedi una leggera pacca sulle spalle.
A queste parole il buon Mario sembrò riprendersi dalla sua stupita catatonia. “Per un attimo ho creduto fossi andato pazzo” disse. Poi aprì la vetrinetta più vicina e ne estrasse una lama, lunga quanto il mio avambraccio. Vista in tutta la sua possanza aveva una impugnatura in gomma nera zigrinata, che la ricopriva per circa la metà. L’acciaio temperato mandava lampi al neon di una glacialità impressionante. Sul lato opposto al filo, la dentellatura dava all’arma, se ce ne fosse stato bisogno, un che di aggressivo, bilanciandone la curva leggermente curva
“Tieni” disse il buon Mario offrendomi il coltello. “Prendilo” insistette. “Non aver paura.”
“Io?” dissi un attimo impacciato. “Ma sei scemo? Paura io?” Afferrai l’arma con riluttanza. Era leggerissima, una vera piuma. Il manico in gomma nera mi calzava nel palmo della mano neanche fosse stato costruito appositamente per la mia persona.
Il buon Mario gongolò. “Zoroaster IV” disse. “La più leggera e letale fra le armi da taglio. Se lanciato con una certa potenza può trapassare un bersaglio a trenta metri di distanza.”
“Fantastico” dissi storcendo la bocca. “E questa dentellatura qui?”
“Quella serve nel corpo a corpo” spiegò il buon Mario. “Quando lo Zoroaster penetra nel corpo dell’avversario, basta ruotarlo un poco e poi tirarlo fuori con un colpo secco. Strappa il lembi della ferita in modo tale da farla rimarginare più lentamente, provocando infezioni e altre amenità del genere. Se la lama tocca un organo vitale, la dentellatura causa emorragie interne che portano alla morte. Il dolore provocato è comunque atroce.
“Un bel gioiellino” dissi io.
“Già” approvò lui. “E pensa che per averlo non serve nemmeno il porto d’armi.”
“Entusiasmante” feci pensando a come, intorno a me, potessero camminare ogni giorno maniaci omicidi armati di Zoroaster IV pronto all’uso.
“E’ un amico fedele” disse il buon Mario. “Te lo regalo, in pegno dell’amore che anche tu porti al dio del rock’n’roll.”
A nulla valsero i miei rifiuti impacciati, i dinieghi leggeri ma decisi che opponevo col capo. Alla fine dovetti portarmelo a casa, lo Zoroaster, impacchettato in una busta di plastica della Coop, perché in strada non mi si scambiasse per un emulo di Barbablù.
Gardum era un bell’uomo tozzo e grasso con l’attaccatura dei capelli alla Topolino. In realtà la caduta dei capelli dovuta all’ipercineticità della sua macchina fotografica, lo aveva lasciato proprietario di una immensa savana di cuoio capelluto. Ma lui preferiva considerare tutto ciò un’attaccatura alla Topolino. “Fa più giovanile” diceva. “E conquista le donne.”
La cosa era misteriosamente provata. Nessuna delle ragazze che passava per la redazione resisteva al fascino dell’attaccatura alla Topolino e alla gentilezza virile e maestosa del nostro direttore responsabile. Anche Renata Ferraglia tesseva continue lodi della bellezza esteriore del Gardum Riccardo. E anche con la preziosa Francesca accadde la stessa, identica cosa. “Riccardo è un uomo stupendo” diceva fra i fumi delle sue mefitiche sigarette. “Non come certi tisichelli che bazzicano qui dentro.”
Io e il buon Mario ci guardavamo perplessi, lanciandoci segnali morse con gli occhi. “Sarai tu” dicevano le sue palpebre sfarfallando.
“Ma se sono ingrassato di tre chili il mese scorso” risfarfallavo io.
“Non barare” rimproverava il buon Mario con un deciso battito di ciglia.
“Non barare tu” replicavo sgranando gli occhi.
A colpi di sfarfallamenti ci stava venendo giù una congiuntivite della miseria. Per non parlare dei miei mal di testa che nemmeno un mix di Moment, Drin e aspirina effervescente con vitamina C riuscivano più a calmare. Quei bastardi iniziavano sempre con l’apparire della preziosa Francesca sulla porta della redazione. Ma le cose da fare erano troppe per starci a ragionere, e Help! ormai bussava alle porte. Anche il maestoso creativo milanese, Tristo Fracassi, aveva iniziato a fare la spola fra la sua città naturale e la nostra sede dislocata in provincia. Dall’alto della sua parlata blesa ruminava consigli e genialità come se fosse arrivato il carnevale delle belle trovate. Il prode Gardum applaudiva a scena aperta. “Vedi come si fa, imbecille?” mi ringhiava in pieno fermento riunitivo. “Hai capito che genere di idee hai da produrre per la rivista?” In realtà si vedeva lontano un miglio quanto fra i due corresse un’atavica ostilità. Si sorridevano e si davano pacche sulle spalle da grandi amiconi. Si scambiavano barzellette fritte e mangiate da mio nonno almeno vent’anni prima. E lo sapevano. Avrebbero tanto desiderato scannarsi l’un l’altro alla faccia della fede cristiana di ambedue, ma non si poteva: erano i capi, e i capi non si toccano. Ma questa è un’altra storia, che non avrò il piacere di raccontare né ora né mai. Sapete, a volte di certe cose è meglio non parlare.