Riccardo D’Aquila, Zia Dot

A volte è una storia a farci entusiasmare, a volte è un personaggio. Sfido chiunque a leggere questo racconto senza innamorarsi del personaggio di Zia Dot. Tutti vorremmo avere un parente così, anche se sappiamo bene che a pochissimi capitano fortune simili.

Riccardo D’Aquila, che proprio sull’ultimo numero di ’tina aveva compiuto il suo esordio letterario, torna con un nuovo testo, caratterizzato ancora una volta con un’ambientazione americana assai credibile, passando però dai toni drammatici a quelli della commedia. Un’ammirevole prova di versatilità. E poiché nel frattempo ha scritto numerosi altri racconti mi auguro di vedere comparire presto il suo nome su altre riviste.

Riccardo D’Aquila, Zia Dot

Il bagno di casa Roth era molto grande e aveva dei dettagli in oro che ti facevano sentire in colpa, dato quello che andavi a farci. Erano d’oro i rubinetti, alcune manopole, i piedi della vasca e il copri water, su cui in quel momento era riflessa la testa di Amanda, che vomitava.

«Non ti dispiace se non ti reggo la testa, vero?» disse la donna appoggiata al lavandino.

Amanda, dopo un lungo conato, la guardò e scosse la testa.

Qualche minuto prima, sia Amanda che la donna erano sedute una di fronte all’altra al lungo tavolo da pranzo, al piano di sotto. Si festeggiava il compleanno della nonna di Amanda, madre di sua madre. Al tavolo c’erano anche i genitori di Amanda, la vecchia nonna Patricia, zia Moira con marito e figli e, di fronte a lei, zia Dorothy.

Dopo la prima portata, Amanda era diventata di uno strano colore, aveva smesso di parlare e aveva preso ad allontanare i piatti da sotto gli occhi. Infine si era alzata, aveva detto «Scusatemi» ed era praticamente scappata al piano di sopra.

A quel punto, Zia Dorothy aveva messo una mano sulla gamba della sorella, la madre di Amanda, e si era alzata in piedi. Aveva detto al tavolo «Ci penso io.» ma, prima di avvicinarsi alla scala dal corrimano in mogano, si era riempita il calice di vino fino all’orlo, sorridendo ai commensali muti. Poi, facendo svolazzare un po’ i pantaloni del tailleur bianco, aveva preso il cappello, dello stesso colore e dalla tesa larga che era in equilibrio sullo schienale della sedia, e aveva alzato il bicchiere in direzione di sua madre, dicendo: «Alla tua, mamma.».

Era andata dritta al bagno, l’unica porta chiusa del corridoio lunghissimo, e aveva bussato.

«Tutto a posto.» aveva detto Amanda.

«Sono zia Dot.» le aveva detto l’altra.

La ragazzina, allora, aveva aperto la porta, l’aveva fatta entrare e aveva richiuso la porta a chiave.

E ora erano lì. Nel bagno di casa Roth.

«Vediamo…» disse zia Dorothy mentre la nipote vomitava.

Amanda la guardava, con metà faccia nel water.

«Almeno, diciamo, un paio di mesi fa hai rivisto… com’è che si chiama?» continuò.

La ragazza restò sorpresa e strabuzzò gli occhi già arrossati dallo sforzo.

«Zia, come…»

«Aspetta, ricordamelo, mi sfugge.» continuò l’altra, poggiata al lavandino, a sorseggiare il vino.

«Jack.» disse Amanda, spostando i capelli indietro e raccogliendoli in una coda.

«Sì, vero, Jack.» sorrise zia Dorothy.

La donna si tolse il cappello e lo poggiò sopra un cigno di ceramica, vicino alla vasca. Approfittò per guardarsi allo specchio e aggiustarsi i capelli. Li aveva sempre tenuti corti, alla Liza Minnelli, diceva, anche se sembravano più alla Audrey Hepburn. Se Audrey Hepburn li avesse avuti biondi ossigenati e con un po’ di lacca.

Tornò con gli occhi su Amanda, che aveva appena ripreso a vomitare.

La nipote, con la frangetta ormai decisamente scompigliata, fece un lungo respiro.

«Zia, come lo sai?» le chiese.

Zia Dot fece un sorso di vino.

«È esattamente così che tua madre ha scoperto di te, in questo bagno.»

Amanda restò imbambolata. Una lacrima le cadde sul vestito rosso.

Dorothy spostò il tappeto e ci si inginocchiò sopra, per guardare la nipote negli occhi.

«Stai calma.» le disse.

Amanda aveva preso a singhiozzare.

«Ho rovinato tutto, zia. Tutto.» fece.

La donna poggiò il bicchiere di vino sul mobiletto stile antico e aprì un’anta. Tirò fuori un rotolo di carta igienica e ne strappò un pezzo. Lo porse alla nipote.

«Ora non ci pensare.» le sussurrò.

Amanda singhiozzò, asciugandosi gli occhi.

«Mamma mi ammazza.» fece.

«Ci parlo io con tua madre.»

«Papà mi butta fuori di casa.»

«Tuo padre mi deve tanti di quei favori…»

Amanda accennò un sorriso, ma sparì subito.

«Senti, analizziamo meglio la situazione, ti va?» fece Dot.

Amanda annuì.

«Da quanto non… ti tornano?» chiese.

«Due mesi.»

«Può succedere.»

«Sì?»

«Può, sì. L’ansia.»

Restarono in silenzio.

«Ed è Jack?»

«Sì.»

«Non siete stati attenti?»

«Io… io non lo so.»

Amanda singhiozzò di nuovo.

«Alla vostra età è normale.» le disse la zia, accarezzandola.

Dorothy le porse un altro pezzo di carta igienica.

«State insieme, adesso?» le chiese.

«Non lo so.»

«Cioè?»

«Non lo so, zia.»

«Okay, okay.»

Ancora silenzio.

Dalla finestra del bagno veniva la solita luce dorata del primo pomeriggio. Il bianco della ceramica luccicava di uno strano arancione e l’oro sembrava del colore di un ceppo arso dalle fiamme di un camino.

«Fa la tua classe, no? Me ne avevi parlato.»

«Quella dopo.»

«Ha un anno in più?»

«Due, è stato rimandato.»

La donna sorrise, compiaciuta.

«Hai proprio i gusti di tua madre.» disse.

Amanda faceva a pezzi la carta tra le mani.

«Lui lo sa?» fece ancora Dorothy.

«No.»

«Hai fatto bene. Devi esserne sicura, prima.»

Restarono a guardarsi per un po’, con la mano della zia che aggiustava la frangetta della nipote e la ragazza che tirava su col naso a cadenza continua.

Qualcuno bussò alla porta.

«Tutto bene.» aveva urlato zia Dorothy.

«Amanda?» aveva detto la voce della sorella.

«Tutto bene.» aveva urlato Amanda.

Ma Amanda era di nuovo tesa come un corridore al traguardo.

«Facciamo una cosa.» disse zia Dot «Io adesso esco e vado a prendere un test. Ne hai già fatto uno?»

La ragazza scosse la testa.

«Va bene. Vado a prenderlo io.»

«Ma…»

«Ci parlo io con tua madre.»

«Non dirle…»

«Non le dico niente.»

«Zia, per favore…»

«Amy, ti fidi o no?»

Zia Dot si fece serissima, la squadrò coi suoi occhi verdi.

Amanda annuì.

«Tu continua a vomitare.» disse sua zia.

Così la donna prese il bicchiere di vino e si alzò in piedi. Tolse il cappello dalla testa del cigno e lanciò un’altra occhiata allo specchio.

«Zia…» disse Amanda.

Dorothy si girò a guardarla.

«La nonna… il compleanno…» e scoppiò di nuovo in lacrime.

«Ah, figurati! Non riuscirai mai a superare quel record, tranquilla. Il posto da pietra dello scandalo me lo tengo stretto.»

«Non dire così, zia.» fece Amanda.

La zia alzò la tesa del cappello e le lanciò un sorriso.

«Questa famiglia l’ho già rotta io. Sta’ tranquilla.»

Sua zia si avviò verso la porta, poi si girò di nuovo verso di lei.

«Questo Jack… è nero?» chiese alla nipote.

Amanda rise.

«No, zia.»

«Neanche un po’?»

La ragazza scosse la testa.

«Sei proprio una dilettante.» le disse la donna, facendo finta di spararle con pollice e indice.

 

Dorothy uscì dal bagno e richiuse la porta, dietro la quale c’era la sorella. Le disse che era tutto a posto e che doveva solo aspettare che lei tornasse. Mise la chiave della porta in tasca mentre l’altra la prendeva a parole per tutto il corridoio, fino al piano di sotto.

Dot si affacciò in sala da pranzo, prese la borsa e disse una cosa tipo «Lasciatemi un po’ di dolce, ce la fate?» e, sempre guardando la madre, fece: «Ti diverti, ma’?».

Camminò a passi svelti sul viale di casa e guidò fino al cancello, poi verso il centro.

La farmacia più vicina era fuori città. Chiusa. Dovette accontentarsi del distributore.

Dopo aver infilato i dieci dollari, sentì una presenza, proprio dietro di lei, mentre si stava specchiando sul vetro della macchinetta, per levarsi i segni del vino dai denti. Il cappello e gli occhiali le davano un’aria quasi seria.

Si girò, con la confezione del test in mano.

Dietro di lei c’era un ragazzetto ben pettinato, in un cappotto beige, alto almeno un metro e ottanta, che sghignazzava.

«Che ridi?» gli fece Dot.

Il ragazzo non rispondeva.

«Voglio sapere che cazzo ridi, imbecille. Non lo sai come sei nato?»

Il ragazzo annuì. Aveva una polo e le chiavi della macchina in mano.

«Sei sicuro?» continuò Dot.

Il ragazzo parlò.

«Lei è Dorothy Roth, vero?»

La donna alzò il cappello e abbassò gli occhiali da sole, per squadrarlo meglio. Quello sguardo le diceva qualcosa.

«Sì.» gli fece «Allora?»

L’altro rise ancora.

«Niente, mi fa ridere una lesbica che compra un test di gravidanza.» disse con un ghigno.

Dorothy restò calma. Non se lo aspettava, certo, ma non era la prima volta. Prese tempo passandosi il test da una mano all’altra.

«Ti ho già visto?» gli chiese, ignorando quello che le aveva appena detto.

Il ragazzo, mani in tasca, fece di no con la testa.

«Come ti chiami?» incalzò lei.

«David.»

«David come?»

«Senta, stavo solo…»

«David… come?»

David cambiò espressione.

«David Walton.» fece.

Dorothy si lasciò a una risata da salotto.

«Walton, eh? Tua madre deve essere Susan, Susan Bloomberg. Giusto?»

David annuì, lentamente.

Alle sue spalle comparì un altro ragazzo, vestito come David, ma biondo.

«David… che cazzo stai combinando?» gli chiese il tipo.

Dorothy li guardò entrambi, lei all’ombra della pensilina, loro sotto il sole. Attorno una periferia appisolata, con la strada e le querce a godersi il caldo.

«Estate dell’ottanta, se non sbaglio. Festa alla villa dei Bloomberg.» disse lei.

I due continuavano a guardarla, finché David non disse: «E cosa vuol dire?»

Dot continuò.

«Si era fatto molto tardi, i Bloomberg non erano in casa, ma ci avevano lasciato tutto l’alcol dentro. Che poi, si sa, in quei casi è solo un bell’alibi. Tuo zio… Chester? Tuo zio Chester o come si chiama cercava sua sorella Susan. Non si trovava proprio da nessuna parte.»

L’amico di David lo guardò.

«Chi è questa?» gli chiese.

David restò zitto.

«Chester non la trovò.» continuò Dorothy «Neanche la sua migliore amica. Nessuno sapeva dove s’era cacciata Susan. Quasi nessuno. È una serata che ricordano bene anche le mie sorelle.»

David strinse i pugni, tremava.

«Anche loro avevano problemi a trovarmi.»

La donna tirò su gli occhiali e infilò il test nella tasca interna della giacca del tailleur.

«Stammi bene, David.» disse.

Passò loro accanto e fece scattare la serratura della macchina col telecomando.

«E salutami la mamma.»

Salì in auto, mise in moto e salutò i due ragazzi sventolando la mano fuori dal finestrino.

Poco dopo, lungo la strada, le scappò un’altra risata. Una lesbica che compra un test di gravidanza faceva davvero ridere.

 

Il rientro a villa Roth fu come l’uscita.

Dot dovette minacciare la sorella perché non le chiedesse più cosa stesse succedendo. Le disse che l’avrebbe fatta cadere giù dalle scale e quella, conoscendo Dot, rimase sotto, a guardarla mentre spariva salendo la seconda rampa.

Amanda sentì la serratura che si apriva e l’accolse con lo stesso sguardo spaventato e smarrito. La zia le spiegò cosa doveva fare.

I minuti furono interminabili, anche se Dorothy, poggiata sul bordo di un altro mobile coi dettagli in oro, sorseggiava il vino e guardava fuori dalla finestra.

Forse continuava a pensare a Susan Bloomberg oppure, era questo che pensava Amanda, la situazione non le sembrava la fine del mondo. «Siamo tutti ricchi qui.» aveva detto alla nipote prima di passarle il test «Non serve preoccuparsi».

Eppure, nonostante le battute, Dot guardava fuori dalla finestra, con lo sguardo un po’ perso, mentre il sole andava giù.

«Peccato.» disse col test in mano.

«Che vuol dire?» chiese Amanda.

Zia Dot sbuffò.

«Che questo compleanno ha smesso di essere divertente.»

La donna passò il test alla nipote. C’era una sola linea.

«Ma come…?» fece Amanda, guardando il water.

L’altra, seduta a gambe accavallate sul bordo della vasca, poggiò il mento su una mano.

«Hai cenato fuori, ieri?» chiese.

«Sì.»

«Dove?»

«Giapponese.»

«Quale?»

«Il Sushi Paradise.»

Dot sbuffò di nuovo.

«Quel posto è una merda.»

Prese di nuovo il calice e se lo portò davanti alla bocca. Fece un lungo sorso e continuò a guardare fuori dalla finestra.