Il caso di Jonathan Bazzi è interessante: il suo è un esordio avvenuto via Facebook. Le sue storie sono nate in forma di post rilasciati sui social, creando una curiosità intorno a ciò che raccontava, al punto che diversi scrittori l’hanno contattato per incoraggiarlo a dare a quei frammenti autobiografici una forma narrativa compiuta. Io stesso ho funto da tramite perché il romanzo che ne ha ricavato approdasse all’editore Fandango. Sin dalla sua uscita “Febbre” è stato accolto dalla critica come uno dei più interessanti debutti italiani degli ultimi anni. Per ’tina Jonathan Bazzi ha scritto un testo potente che sembra un frammento inedito tratto dal romanzo: in queste righe ritroviamo la stessa sfrontatezza, l’immaginario onirico e la poesia sporca e urbana che sembrano già essere un suo marchio di fabbrica.
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Jonathan Bazzi, Il corpo di Tina
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Infilo le autoreggenti davanti allo specchio dell’armadio della camera da letto.
Nonostante le strisce di lattice, stanno su a fatica con tutti ’sti peli.
La minigonna scozzese di lana mi stringe le cosce – le riesco a muovere? –, la lampo tira un po’ ma si chiude. Il reggiseno lo aggancio da davanti e lo faccio scorrere fino alla posizione giusta.
Tiro su le bretelle.
Sopra, la camicia bianca e poi una giacca.
Gialla?
Meglio viola. Questa, l’ha appena comprata.
Ha ancora il cartellino del prezzo: lo nascondo dentro una tasca.
Mi trucco pescando in fretta dalla trousse che lei tiene in bagno, sopra la lavatrice: il correttore per coprire le occhiaie perenni, il mascara dopo il piegaciglia, il rossetto mattone – rosso alla mamma non piace. Matita nera, non troppa, altrimenti poi non viene via neanche col latte detergente. Ombretto bronzo su fino alle sopracciglia.
Fermo i capelli con quattro forcine nere, come le conduttrici di Top of the Pops.
I piedi infilati nelle scarpe di vernice col tacco alto ma squadrato, da professoressa. La mamma ha il 37, io il 39, a volte il 40.
Solo metà piede, di più non entra.
Veloce, prima che tornino.
Veloce, prima che sia troppo tardi.
Accendo lo stereo a palla, chi se ne frega se i vicini mi sentono.
Salto avanti e indietro, rimbalzando sui bassi della canzone di Annie Lennox, salto da una stanza all’altra, il pavimento di finto cotto è un tappeto elastico. Allungo le braccia verso il soffitto, inarco la schiena: una sirena, una creatura di Milo Manara. Spingo più che posso in dentro la pancia, stringo le cosce fino a far scomparire tutto all’indietro.
Se sto sulle punte sono come Barbie.
Polpacci sottili, ginocchia flesse, gomma e fil di ferro.
C’è solo la musica.
Uno a uno sfilo via i vestiti: inizio a spogliarmi senza mai smettere di guardare. Spettacolo e spettatore, seguo il mio riflesso allo specchio, devo vedere mentre succede.
Striptease, sono Demi Moore.
Sono mia madre, sono la Tina.
Nata Concetta, come sua nonna, ma per tutti Tina, la Tina.
Il suo corpo, il mio: possessione, invasamento, passo da lei per spostarmi da me. Uso il suo armadio ogni volta, di nascosto, per questo contrabbando genetico.
Con due mani abbasso il reggiseno: maschi in platea, vi ipnotizzo coi miei piccoli capezzoli rosa.
Alzo la gonna, ancora, di più.
Vi piace?
La sollevo tutta e vi sento urlare, affamati.
Le braccia tese verso di me: mi lascio toccare solo per permettervi di infilare le mance nell’unico elastico che ho ancora addosso. Offro alla vostra vista il perizoma che mia madre tiene nascosto nel cassetto più basso, sepolto sotto le cinture, appallottolato quasi fino a farlo sparire.
Mi allungo di più, giro il viso di lato: c’è qualcuno che mi vuole scopare?
Mi ha avuto a diciotto anni, mio padre è andato via di casa quando io ne avevo tre, dopo averla riempita di corna. Sono cresciuto dai nonni, materni. A dodici anni torno da lei, nella casa dove tutto è iniziato, in via Giacinti, vicino al capolinea del 15. Sempre nel paese dormitorio dell’hinterland, estrema periferia sud, sempre case popolari. Tossici e spacciatori, i nostri vicini mi fanno paura.
Quando resto da solo, dall’armadio prendo i suoi vestiti e scavalco, vado dall’altra parte della barricata, lo faccio accadere.
Sono una donna, una cantante.
Spogliarellista, piccola puttana.
Stavo dai nonni perché mia madre doveva lavorare, lei non c’era e io l’ho immaginata, l’ho proiettata ingigantita, un monumento?
Mamma ultracorpo, mamma eroina.
Spettro, ologramma, mamma-fantasma.
La mitopoiesi al posto degli abbracci, fare della propria madre un’opera d’arte. Ogni pensiero rivolto a lei, un’evocazione medianica, una seduta spiritica.
Il mondo è affar suo – cavallerizza, valchiria, conquistatrice – è lei che ci va.
Io resto a casa.
Ancora oggi non esco molto.
Però io sto a Milano, tu sei lì, mamma, sei rimasta a Rozzano.
Corpo confinato, corpo di periferia. Hai paura anche a prendere la metropolitana: sottoterra, dove si va da morti.
La mamma ideale, la donna reale.
Diana, Atena, Giovanna d’Arco.
Batgirl, Tempesta, Cynthia Rothrock.
A sette anni mia madre è la capofila delle mie paladine.
Il suo corpo assente e perciò sovraesteso, iperdiffuso, ubiquo, onnipotente. Mamma là fuori, ovunque. Lavoro, amiche, l’amico della mamma. Io in via Verbene, solo lì, con la tua famiglia: nonna, nonno, i tuoi fratelli minori. Figlia di Biagio e Lidia, ma in realtà figlia degli dei, mamma-denaro, santa Tina, la protettrice del portafoglio. Lavoravo per te, mi ha detto, lavoravo tutte quelle ore per te – difficilissimo in realtà chiederle qualsiasi cosa.
Mia madre per il senso di colpa ringhia, per difendersi attacca. Subito.
No, non si può.
Perché no!
Ho detto di no.
Mamma-Saturno, giudice, volontà, censura: mai una ragione, un ragionamento.
Non siamo solo poveri, non lo siamo sempre: è che i soldi non sono per me.
Per me non ci sono.
Quando una famiglia si sgretola si rivedono le priorità.
C’è dell’altro ai vertici della classifica.
Per farmi comprare qualcosa devo stare male, molto male, correre un qualche rischio, metterla in allarme: una piccola bambola all’edicola dell’ospedale dopo il primo prelievo del sangue, perché piangevo, l’ho impietosita – smettila che altrimenti piango pure io – l’unico regalo fuori dalle feste.
Che bella tua madre.
Ma è giovanissima!
I capelli lunghi tinti di rosso, e stirati, spazzola e fon, affinché da mossi diventino lisci. La frangia gonfia come Lorella Cuccarini. La pelle bianca, delicatissima – ogni estate la cura preventiva per l’eritema solare, i nei da tenere sotto controllo – basta toccarla e resta segnata.
Occhi verdi, i miei solo marroni.
Normali.
La mamma ama fare shopping, tiene molto al suo look. Ce la porta Tindaro, il suo nuovo compagno, il responsabile dell’impresa di pulizie in cui lavora. La porta alla Conbipel di fianco alla tangenziale, alle Orme, nei negozi a Milano. Il vestito attillato nero, le ciglia impastate di trucco, un cuore d’argento al centro del petto.
Ho quattordici anni, di fronte all’ennesima richiesta indesiderata, finalmente lo dice: i miei sacrifici a suo tempo li ho fatti, ora mi spiace ma a un paio di scarpe, per te, io non rinuncio.
Anche parlando del cibo: al mattino non posso mangiare i suoi cereali.
A ognuno le sue cose, mai fusione, mai confusione.
La mamma recinta, difende il suo spazio vitale, costruisce con cura, lei stessa, a mani nude, lo steccato tra sé e gli altri. Poi sta di guardia, pronta a sparare.
Anche a suo figlio?
Io t’ho fatto e io ti distruggo.
Nel dipinto di Segantini Le madri cattive sono quelle intrappolate tra i rami degli alberi spogli di una landa innevata, finite in un purgatorio ghiacciato nel quale si contorcono in eterno, espiando la loro colpa.
Eppure ogni madre è un’eredità, il compito che ci è stato affidato.
Terrorizza e fa tenerezza l’egoismo materno, la bambina che rimane a reclamare ciò che le spetta, la donna reale dietro il nostro ideale infantile.
Ogni madre porta con sé una promessa, che rimane, comunque, al di là della disposizione contingente dei fatti.
Che rimane comunque anche quando non è stata mantenuta.
Il corpo di mia madre è il limite primo.
Corpo-onirico, il mio feticcio.
I suoi: gli anelli, i ciondoli enormi, le collane che anch’io le regalo.
Il profumo al muschio bianco, la valigetta per la manicure.
L’oro bianco, solo quello bianco, giallo lei lo odia, è da terroni – i suoi sono di Mugnano, Napoli, e Aversa, Caserta – da zingari. Oro bianco, solo oro bianco per la mia regina. Mamma anch’io come te: solo nitore pallido, fulgore sbiancato.
Puri, noi siamo puri.
La mamma non parla di sesso, la mamma si vergogna.
Tina, Concetta, immacolata concezione.
Mamma, anche io: il sesso è una colpa, se accade lo deve fare senza parole.
Il sesso spaventa, che resti nel buio. Evitarlo, il più delle volte – anoressia sessuale. Ammalarsi piuttosto, per tenerlo nascosto, per non farne oggetto di discorsi, controlli medici.
Il sesso è un segreto.
Il nostro, il tuo.
Una domenica pomeriggio torno a casa in macchina con lei e un amico di famiglia, Otello, il fidanzato della migliore amica di Tindaro. Alto, alto, faccia da mafioso. Con la sigaretta che ha in bocca accende quella dopo. Siamo stati all’ippodromo di San Siro, lui è appassionato di scommesse – si gioca tutto lo stipendio così. Stipendio? I soldi della sua compagna. Lei ha un hotel, lui le dà una mano.
Saliamo in casa e loro si chiudono in sala.
Guardiamo un po’ di tv, dicono.
Jonny, tu vai a dormire di là.
Un minuto a letto, non riesco, mi alzo.
Mi avvicino pianissimo, un piede, poi l’altro, solo le dita a sfiorare il pavimento.
Spio dalla serratura in plastica nera della porta della sala.
La luce intermittente della tv, ci metto qualche secondo a vedere qualcosa.
Mia madre e Otello sul divano di tessuto blu che alla sera apro per dormire, il divano-letto che userò per tutta l’adolescenza (non ho mai avuto una cameretta). La coperta color sabbia si alza e si abbassa, illuminata dal televisore col volume un po’ troppo alto.
Su e giù, montagna infestata, piccola catena montuosa vivente.
Per un attimo forse un rumore, un suono.
Una risata.
Otello che quando usciamo insieme dice sempre: tua mamma è proprio bella.
Mamma e papà, mamma e Dino, mamma e Tindaro, mamma e Otello, poi mamma e Alessandro. Dura, blindata, carro armato con chiunque, tranne che con gli uomini che ti sei scelta. Loro possono tutto, possono prenderti per la gola e farti svenire.
Troia, mi hai rotto i coglioni.
Niente autoambulanza, non c’è bisogno, mi sento bene.
È successo solo due volte – solo due, vuoi precisare.
La prima volta mia sorella aveva due anni, l’ultima andava alle medie.
Mia madre che dice: ogni famiglia ha i suoi problemi, non esistono le famiglie perfette.
Mia sorella che racconta, molti anni dopo: la mamma quel giorno ha avuto un attacco epilettico.
La carne di mia madre non è carne, non c’è – è armatura, carapace vuoto, oppure corpo sacrificale. A noi interessano solo gli estremi.
Il corpo di mia madre, diaframma ontologico. Sono nato maschio, sto dalla parte sbagliata: il suo corpo è stato il veicolo esoterico per un’altra dimensione.
Mamma ti copio, mamma ti ho copiata.
C’ho provato.
Storto, queer, inguaiato.
Frocio, finocchio, ricchione.
L’astrologa me l’ha detto, l’ha visto nel cerchio simbolico dello zodiaco: inversioni di genere nel tema natale, pianeti fuori posto, in caduta si dice. Pianeti femminili collocati in segni maschili e viceversa. Luna in Ariete, Marte in Cancro, identità tradizionali compromesse, alterate: le donne amazzoni, gli uomini inetti o infantili, tutti emotivi. Due spiriti dicono gli indiani d’America, metà e metà: sono nato per transitare, spostare i confini, esibirne la porosità?
Farvi vedere che anche questo è possibile, che da qui, e da qui, si può passare.
La compattezza del muro è la storia che non ho assimilato.
Anche mia madre, ora sembra una lesbica butch: bassa – quasi mai i tacchi –, solida, compatta, tuta, cappuccio, capelli a spazzola biondo platino, piena di tatuaggi.
Siamo stati catalizzatori reciproci?
La mamma era altrove, la mamma il paradigma del desiderio.
Separare la donna concreta dalla mamma sognata, mi ha detto l’anno scorso la psicologa del centro di terapia familiare in Porta Venezia, quello in cui sono andato pagando solo trenta euro a seduta (dopo le prime quattro gratuite) perché a seguirmi era una studentessa dell’ultimo anno e non una terapeuta esperta.
A lei perdoni sempre tutto.
Guardala davvero, apri gli occhi, prendi atto di quello che è.
La odia? La mia psicologa odia mia madre?
Dice che mi manipola, che mi tiene vicino per potermi prendere a calci, per ricavare adrenalina antidepressiva dall’ansia che le suscito. È vero, non sono obiettivo. Mia madre, mio padre: due pesi, due misure. Anche nel romanzo che ho scritto.
Non ho un genitore, una genitrice, ho un totem.
Di fuoco o di ghiaccio?
Il corpo sacro della Vergine Tina, ammaccato, mezzo in rovina: il corpo della mamma sfigurato prima da me, poi da trent’anni di lavori forzati. Ricoperta di smagliature dopo la gravidanza, poi le protusioni discali, le ernie, le continue operazioni ai polsi e alle mani, la fisioterapia, le ossa che hanno preso a sbriciolarsi come pane secco, le dita che a cinquant’anni hanno perso forza.
Per aprire bottiglie e barattoli deve chiedere aiuto.
Mia madre è giovane ma ha un corpo già vecchio.
Troppo lavoro, non tutti vivono la vita adeguata alla loro composizione cellulare.
C’è chi perde l’uso delle gambe, mia madre quello delle mani?
Il corpo di mia mamma – non so che odore né che sapore abbia.
Per me sa di camomilla: quella che ho bevuto, in casa da solo, ogni volta che è stata male di notte e l’hanno portata via sulla barella. Il pentolino di acciaio, il mio corpo che trema. Colica renale, tachicardia, ernia iatale: ma s’è sempre scoperto dopo, sul momento il male innominato, male senza nome.
E poi un giorno: la mamma ha un nodulo al seno.
In attesa del responso della biopsia, in università non riesco a pensare ad altro. Altro non vedo. La mamma in bagno a vomitare dopo la chemio: è diventata uno straccio lungo e sottile portato in giro per casa, di peso, dagli altri. Un sacchetto vuoto, svuotato. Appeso, da sostenere. A vomitare la porteranno in braccio.
La porteranno, altri – io sempre a guardare.
Mantengo la posizione nell’ecosistema familiare.
Il corpo della mamma, una mappa su cui segnare la costellazione delle metastasi.
È troppo tardi, è piena.
Una colonia fugace, da consumare in fretta.
La mamma che muore, quello che non può accadere.
L’incubo di ogni bambino.
Acido fluoroantimonico versato nel cuore.
Mi raccomando, prenditi cura di tua sorella.
E poi no, nessun tumore, neoplasia benigna, la mamma che vive.
Che rischiara, ancora, sempre lontana.
Il corpo di mia madre è un mistero preistorico, una stella cometa: invisibile, l’ho visto ovunque. Lo vedo ovunque – anche ora, nel nome della rivista su cui finiranno queste parole.
Mamma, papà: scrivo per questo, forse è per questo che scrivo.
Perché non c’è stato il tempo – la voglia? – di vivere insieme.
Di essere persone in una trama di rapporti reali.
I miei genitori: ipotesi finzionali, corpi estranei nella volta dell’immaginazione.
Io, il ragazzo dell’Aveyron, il libro della giungla – variazione sul tema.
Sono stato allevato dai miei personaggi.