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MATTEO B. BIANCHI
Festa perduta
Ripensandoci oggi, la festa a casa di Cristina è stata davvero
lultimo bagliore di tutto lo sfavillante periodo universitario (sfavillante
mi pare adesso, perché allora mica me ne rendevo conto, sia chiaro).
I segni del disfacimento, alcuni piccoli indizi, cerano già: accenni
distratti nei discorsi degli amici, qualche atteggiamento sfocatamente ambiguo.
Troppo poco, comunque, perché se ne potesse intravedere il disegno
di rovina di lì imminente.
Per cominciare cera ancora Cristina, amica cara al punto di prestarmi la
sua casa di campagna per la mia festa di compleanno. Una grande villa, rustica
quanto bastava, ma dotata di giardino e (Dio mio come faceva fine specificarlo
negli inviti!) di camere per gli ospiti.
E la sera della festa, imprevedibilmente, nevicava. A metà Aprile,
dico. Pianura padana, dico. Mica Livigno, o Cortina. No, pura Bassa.
La gente arrivava scuotendo le giacche, passandosi le mani nei capelli. -
Ma hai visto che tempo? -. Baci, abbracci, pacchetti regalo. Fiocchi colorati,
in casa, fiocchi bianchi, fuori.
Tanti eravamo tanti. La casa lo permetteva. E gli invitati fluivano dentro
con istintiva destrezza salottiera, in breve occupando le stanze, i corridoi,
i bagni, gli anfratti, la scaletta che portava in cantina, gli sgabuzzini.
Si distribuivano amabilmente, a gruppetti di tre-quattro, subito lanciati
in converazioni animatissime. Cerano sia gli amici di sempre che quelli
occasionali, oltre a persone che non si vedevano da anni e gli sconosciuti
familiari che prendevano finalmente il coraggio di affrontarsi (- Ma, sbaglio
o anche tu frequenti Filosofia Morale? -).
Mai avuta tanta gente ad una mia festa. Ero stato generoso con gli inviti.
Mi ero pure concesso la follia di portare un tizio, conosciuto per caso appena
il giorno prima. Un tale Riccardo, col quale, in realtà, non sono
mai effettivamente finito a letto e che è sparito dalla mia vita di
lì a poche settimane. Anzi, per dirla tutta, gli avevo chiesto di
passare a prendermi solo per il gusto di arrivare accanto a qualcuno che
nessuno avesse mai visto prima. E lui stesso, che aveva afferrato al volo
la situazione, sembrava gradire immensamente il ruolo di accompagnatore
ufficiale, lasciando cadere di continuo la mano sulla mia spalla e concedendomi
piccoli amorevoli sorrisi nel bel mezzo delle conversazioni.
Quando si era presentato a casa mia, qualche ora prima, mia madre
imprevedibilmente mi aveva chiesto: - E questo, è nuovo? Dove lhai
abbordato? -, usando una franchezza e un verbo (abbordare) che ben poco spazio
lasciavano al dubbio. E io, ancor più imprevedibilmente, avevo detto
la verità : - Da Burghy. Era lì che mangiava tutto solo -.
Non sono tattiche da confessare a una madre, lo so, ma del resto non era
neanche una domanda da fare a un figlio. Sembrava la tanto attesa premessa
per una bella discussione di famigia in cui la verità, la mia
verità, sarebbe finalmente venuta alla luce. Invece niente. Un fuoco
fatuo, una scintilla di sfrontatezza subito evaporata. La festa premeva,
le verità sanno attendere.
Comunque, per quanto mi piacesse fingerlo, Riccardo non era un flirt, solo
un diversivo. E venne fuori, dopo, che i diversivi abbondavano quella sera.
Clelia era arrivata con Maurizio, il tanto decantato Maurizio, ragazzo bello,
intelligente e pure artistico (fotografia, credo), su cui lei ricamava velati
tentativi di seduzione. E Sergio, il mio amato Sergio, si era presentato
invece in compagnia di due amiche sue che io conoscevo solo di vista e di
cui, vagamente, cominciavo a preoccuparmi. Ma ho lasciato correre, sorridendo
ospitalmente, bacino bacino sulle guance anche a loro e bacio, sulle labbra,
a lui, che non ha neanche protestato, come era solito fare in circostanze
sociali. Più tardi, di fronte al mio filarino ha finto una minimale
scena di gelosia (- Chi è il biondino?-), ma era una gelosia di
gentilezza, perché se ne è subito disinteressato. E per completare
il valzer degli inganni Cristina, entusiasta e orgogliosa, mi aveva fatto
finalmente conoscere il suo ragazzo, un tizio alto, barbuto e cameratesco,
che dietro laffabilità delle pacche sulle spalle ha cominciato subito
a tramare ingiustificate e insensate vendette sociali nei miei confronti.
Lintera serata, insomma, era un gioco delle parti mal recitato, in cui ogni
ruolo era confuso e niente affatto felice. Perché via via che la festa
scorreva inesorabile verso lo sfilacciamento notturno, superati i regali,
i brindisi, le danze, adesso che i primi ospiti cominciavano ad addormentarsi
sui divanetti, la commedia aveva preso a scricchiolare forte.
E stato Riccardo ha dare il via alla fine, abbandonando la serata
allimprovviso per tornare a casa con Vittorio, il più corteggiato
fra tutti gli invitati di tutte le feste del mondo, che per la prima volta
cedeva a un esplicito tentativo di seduzione. Dal finestrino della macchina
Vittorio mi ha anche sorriso, allargando le braccia, come a scusarsi del
fatto che persino ai sex-symbol talvolta capita di lasciarsi conquistare.
Non che mi importasse di essere mollato da Riccardo così facilmente.
Sapevamo entrambi che era solo un alibi, però mi scocciava svelare
in modo tanto plateale il trucco. E senza una breve pausa, né un cambio
di scena, alla prima disfatta ne è seguita subito unaltra. Andando
in cucina per un caffè ho udito distintamente i toni alterati di un
litigio in corso. Erano Cristina e il suo amico. Mi sono affacciato sulla
porta e loro si sono interrotti di colpo. Dallespressione colpevole di Cristina
ho capito chiaramente che stavano discutendo a causa mia e, per quanto assurdo,
ero certo di aver sentito le parole piccolo borghese dette dal ragazzo
con unanacronistica veemenza da politica degli anni 70. Ero davvero io
il borghese piccolo piccolo per cui si stavano azzuffando?, mi chiedevo.
(Lo ero, me lha comunicato Cristina stessa qualche sera dopo, al telefono,
aggiungendo sbrigativamente che era diventata una rivoluzionaria e che non
avrebbe mai più voluto vedermi. - Rivoluzionaria? Tu? Con
lappartamento in centro a Milano, le vacanze allestero, la villa in campagna?
- ho chiesto, ma lei ha riattaccato).
Tornato nella grande sala del piano terra ho oscillato fra i gruppetti di
ospiti ancora attivi e conversanti, inserendomi brevemente nelle loro
chiacchiere, finché non ho visto Sergio, da solo, davanti al camino
acceso. Aveva gli occhi persi dentro le fiamme e lucidi per il troppo bere.
Mi sono allontanato dai convenevoli e lho raggiunto.
- Ti fermi stanotte, vero? -.
Lui mi ha abbracciato, baciandomi un buon compleanno sul collo. - No, è
meglio che torni a casa - ha detto, staccandosi. E salito in una delle camere
a cercare il cappotto, accodandosi a un gruppo in partenza. Io lho aspettato
ai piedi della scala e quando è sceso gli ho chiesto perché.
- Sono morto - ha risposto, con un sorriso di scusa.
Il dubbio mi ha sfiorato solo dopo che era uscito, quando ho visto le sue
amiche ancora placidamente sedute su un divanetto che ridevano con certi
chiassosi sconosciuti. Allora sono corso alla finestra, appena in tempo per
vederlo salire sulla macchina di Clelia.
Qualcuno mi ha afferrato per un braccio. - Cosa fai qui? Vieni di là
con noi! -. Ho seguito quella singola voce, cercando di far tacere le troppe
che si stavano risvegliando nella mia testa.
In un salotto sono stato accolto con una piccola ovazione. - Oooh, finalmente
sei tornato! - ha detto unamica. - Siediti qui - mi ha invitato, facendomi
posto sul divano, fra lei e Maurizio, il tanto decantato Maurizio, ragazzo
bello, intelligente e pure artistico, che ho guardato con paziente rassegnazione.
- Anche tu sei rimasto? - ho chiesto. Sorpreso dalla domanda, ha dato un
rapido sguardo tutto intorno. - Vuoi dire che Clelia è già
andata via? -. Ho annuito, ma volevo dire molto più che questo.
Mi ero fatto un regalo per quel mio venticinquesimo compleanno: un romanzo
di Gilberto Severini che avevo scovato alla C.L.U.E., lunica libreria di
Pavia a tenere i libri Transeuropa.
La mattina dopo la festa, appena tornato a casa, mi sono chiuso nella mia
camera, ho preso il libro e mi sono buttato sul letto. Avevo bisogno,
fisicamente, di perdermi in qualcosa, di infilarmi in un libro che allontanasse
i sospetti che stavano tormentandomi.
Ho letto tutto di fila, il romanzo breve e i due racconti. Poi ho bussato
alla camera di mia sorella, per accertarmi se ci fosse.
Cera.
- Ciao, comè andata la festa? -
- Lasciamo pedere. Dì un po, lo conosci tu questo Severini? -
- Mai sentito -
Ha guardato la copertina del libro.
- Un breve autunno... è bello? -.
Io ho alzato gli occhi al cielo, con espressione mistica. - Vorrei saper
scrivere così - ho sospirato.
- Ho capito, prestamelo -.
Le ho lasciato il volume e sono uscito.
Di sera, prima di cena, laveva già terminato. Quando è venuta
a riconsegnamelo ha detto: - Guarda che tu scrivi meglio -, poi è
tornata subito nella sua stanza.
Mia sorella mi conosce bene. Sa capire quando sto male davvero, quando ho
bisogno di un abbraccio o di un conforto morale. Ma non è capace di
mentire, non lo è mai stata.
Sono rimasto lì, con il libro fra le mani, a godere un po della sua
gentile menzogna. |