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ALBERTO FORNI
Non-stop sentimental Marche
Allinizio cera il Country pub, scoperto durante una perlustrazione pomeridiana
in una giornata piovosa. Era giugno, un lavoro di fotografo turistico dietro
langolo, impellente la necessità di cercare appigli con il mondo
esterno.
Il Country pub era un posto tranquillo sul monte Conero: aveva tavolini
allaperto, aveva alberi molto romantici, tra i rami luminarie natalizie
fuori stagione. Un posto ideale per impostare discorsi belli tondi e ragionevoli,
guardare le luci della costa fino a Porto Recanati, offrire birra a babysitter
francesi ansiose di lasciarsi alle spalle giornate piene di bagni altrui.
Ricordo Lorella, le rispettive storie sentimentali finite in contemporanea,
i suoi tesoro detti sempre con la o stretta.
O Betta, cameriera umbra dalla parlata strana, invitata e strainvitata fuori
e alla fine messa in fondo ai pensieri, che una sera mi arrivò alle
spalle dicendo Allora andiamo?. Betta, che io nemmeno ti pensavo più,
sotto quegli alberi mi buttasti allimprovviso le braccia al collo e il cuore
mi arrivò quasi in gola. Poi ti dimenticasti in fretta di me. La mia
unica rivincita? Che avresti dovuto continuare a servirmi al tavolo.
E ancora, Floriana, problematica milanese, la cassetta di Fandango in perpetuo
replay, un Pat Metheny liquido liquido, lalba della nostra ultima notte
in piedi sul cofano della Ritmo a gridare frasi sconnesse. E nemmeno era
successo un granché, solo avevamo energie in eccesso da spendere.
Lanno seguente il Country pub mi apparve subito inadatto: troppi ricordi,
troppi gesti e frasi che si assomigliavano tremendamente.
E allora via, a Recanati, rigorosamente allinterno delle mura, con obbligatoria
visita alla casa di Giacomo ed escursione sul colle dellInfinito a guardarsi
intorno e chiedersi Quale sarà la siepe che da tanta parte il guardo
escludeva?.
Nei negozietti di souvenir artigianali con una ragazza bionda della quale
ho scordato il nome, della quale conservo ancora una foto in bianco e nero
scattata dentro uno specchio antico.
In un boschetto con Diana, intenta a truccarsi, la pioggia improvvisa che
aveva fatto scappare tutti. Tu immobile, io che ti scrutavo maliziosamente
dal mirino della Nikon. Da qualche parte conservo ancora quelle diapositive.
E quella sera alla festa del paese? Ricordi le risate? Tutto ci sembrava
insignificante e ridicolo. Commentammo con sarcasmo i capolavori della mostra
fotografica, danzammo a fianco di pensionati e contadini sulle note di una
melodia popolare, stavamo così bene che ci girava la testa.
O con Stefania, al ristorante La torre antica, quella pasta con i funghi
mi fece star male per giorni, ma era bello essere lì, concedersi il
lusso di coltivare aspettative.
Raffaella e un sabato al cinema sotto le stelle, un tè pomeridiano
al bar della piazza grande, non ricordo più con chi. Forse era una
cosa importante. Forse no.
Poi anche storie piccole piccole, la commessa di un negozio di abbigliamento
che non mi piaceva per niente e un intero pomeriggio a chiedersi Cosa ci
faccio qui?, la zia di una ragazza che mi faceva impazzire e che alla fine
declinò linvito collettivo e io lì, in un vicolo cieco, a
rispettare promesse un po furbe.
Poi anche storie mie, soprattutto il negozio che aveva tutti, ma proprio
tutti, i modelli delle Superga. Poi sempre più storie mie e un paese
da mettere in soffitta, dimenticare alla svelta. Basta Recanati, basta con
le presenze ingombranti, voglia di starsene da soli.
Ultima una quarantenne con figlia di venti, io precisamente a metà
via con dubbi che si presentavano da soli. Cercavo di continuo la distanza,
mezzo metro, un metro intero, quasi a sottolineare tutto lo spazio che ci
separava. Lei cercava invece la mia mano, incurante delle rughe, avrebbe
voluto giocare ai fidanzatini. Sposata per ventanni, da poco separata, voleva
giustamente tutto quello che non le era stato concesso prima. Io avevo già
dato. Alla fine, insistente comera, lho portata al Joyland, un centro
commerciale a fianco della statale sorto dal nulla nel giro di un anno.
Dentro, un flipper di rumori e colori accecanti. Io camminavo veloce come
al solito, lei arrancava affannosamente. Subito fuori, la nostra storia,
pur senza essere mai iniziata, era già finita.
Rigorosamente da solo dunque, a bearmi di una vita quasi normale durante
certi sabati mattina. A Osimo lasciavo rullini da sviluppare, poi percorrevo
il corso a passi lenti, fingendomi un turista. Guardavo le riviste nelle
vetrinette delledicola, facevo colazione nel modo più lento possibile.
Ma gli acidi agivano in fretta, ben presto le immagini prendevano forma sulla
gelatina sensibile. Arrivava sempre il momento di rientrare, di tornare a
essere un animatore-fotografo.
Le donne nella mia testa e quelle fuori, quello che ero e quello che avrei
voluto essere, le serate che ero costretto a passare e quelle che avrei voluto
avere in cambio. Una lacerazione continua, placata solo dai miei libri, fra
cui quelli di un signore che durante quei sabati mattina speravo sempre di
incontrare. Il suo aspetto mi era sconosciuto, eppure lo speravo lo stesso. |