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MARINA MANDER
L'anno scorso ho letto
uno strano libro di racconti, dedicato alla malattia: un'antologia sorprendente
sin dal titolo ("Manuale di ipocondria fantastica") nella
quale a ogni racconto era legato a un disturbo, reale o immaginario.
Ho pensato: mhhmmm…, molto interessante. Così ho contattato l'autrice
per chiederle un contributo per 'tina. Lei non ha tradito le mie aspettative,
consegnandomi un surreale brano di erotismo botanico che è allo stesso
tempo divertente, imprevedibile e (Dio mio!) persino eccitante. Attenti
a questa Mander: vi dà il pollice, ma si prende la mano.
Pollice verde
Di lui, della loro vita insieme, un anno bisesto funestato
oltremodo dal passaggio della cometa di Halley, lei non ne aveva più
voluto sapere.
- Ne, sinjorino, mi vojagas en mi lando - gli aveva detto per dire basta,
me ne torno al paesello.
- La hirundoj flugis trans la riveron - le aveva risposto lui, poetico,
e poi aveva aggiunto, patetico: - car trans la rivero estis aliaj hirundoj.
Cioè: al di là del fiume ci sono altre rondinelle.
Niente da fare. Lei se ne stava andando sbattendo la porta e lui a bassa
voce ripeteva:
- La kato saltas sur la tablo, la kato saltas sur la tablon..
Il suo amanto era, purtroppo, un appassionato di esperanto.
La kreinto de la lingvo Esperanto estas Doktoro Zamenhof, kiu nun estas
kuracisto en Varsovio.
Dal doktoro kuracisto dovresti andarci tu - urlava lei mentre lui non
la stava a sentire, vani i tentativi di farsi ascoltare.
Il suo amanto era affascinato soltanto dalle lingua del Dottor Ludwig
Lazarus Zamenof, lingua franca che permettesse a tutti popoli di comunicare,
dopo la morte del latino e l'eccessiva vivacità dell'inglese, (benché
all'epoca del primo congresso esperantista di Boulogne-sur-Mer del 1905,
nessuno avrebbe potuto supporre il dominio attuale dell'idioma di Albione
eccetera eccetera) l'inglese, sottolineava l'amanto, e gli inglesi non
li sopporto.
- Del resto, lo sai, l'esperanto aveva affascinato anche Tolstoj, ignoranta
di un'amanta, dovresti capirmi.
- Tu non sei Tolstoj, ti pagano una miseria a cartella strozzinandoti
sui refusi. Cosa ti serve comunicare con tutto il mondo in una lingua
che non interessa nessuno, se non parli neanche con me ?
- Di che cosa vuoi che parli con una che scrive oroscopi per una rivista
di analfabeti?
Così. Lui con la fisima della lingua del passato, lei che stilava predizioni
per il futuro, chiaro che il presente fosse un presente in progressivo
sfacelo.
Di quell'anno funestato dalla cometa di Halley e dal Dottor L. L. Zamenhof,
la ragazza non volle patetici strascichi. Il fantasma di Lazarus le
suggerì di alzarsi e camminare e lei non se lo fece dire due volte.
Dalla casa dell'esperantista portò via solo un ricordo: una piantina
con cinque foglie e pochissimo fusto. Una piantina invasata in vasetto
di plastica, regalata in un momento di spropositata generosità.
- Non ti posso dare nulla, lo sai, ma questa piantina te la regalo con
tutto il cuore: bela arbo, multa bela arbo a multa bela amanta.
Una piantina spinosa. La ragazza la traslocò nel suo
nuovo appartamento mentre il sole entrava in saturno, la portò come
unico souvenir di un viaggio sbagliato tra ruderi lessicali e strafalcioni
sintattici. Acqua ogni dieci giorni, un piantina che richiedeva poca
manutenzione. Già grassa di suo. Una sana dose di rincrescimento sarebbe
bastata a farla crescere benigi e fortigi..
Quando la ragazza, soprattutto nei primi tempi, finalmente abbassava
le palpebre sui propri sogni e ricordi - nul, du, tri, kvar, kvin...
- ancora a contare le pecore in esperanto per abitudine, il regalo,
appoggiato sul comodino al posto dei porta-ritratti con coppie sorridenti
e cani e bambini che giocano a frisbee, la piantina spinosa e invasata,
a sua insaputa, cresceva. Ogni giorno, qualche impercettibile millimetro,
ses o sep, più o meno. La ragazza si svegliava e le sembrava di vederla
già un po' più grande. Le piante grasse crescono per anni, secoli e
anche di più, c'è una welwitschia nel deserto della Namibia più vecchia
della cattedrale di Varsavia. Bisogna avere pazienza, dio Zamenhof,
considerava la ragazza, ma quanta pazienza?
Una serie di fortuite congiunzioni astrali comunque lasciavano ben sperare.
Lunedì.
I progressi della piantina furono inequivocabili anche per l'occhio
più privo di pollice verde, solamente dopo tre settimane. Il terzo lunedì
dalla separazione, la piantina raggiunse miracolosamente i dek-ok centimetri,
non in tutto il corpo a dir la verità, solo nel mezzo. E un certo turgore.
Linfa espansa in tutte le foglie e in particolare, in quella centrale.
Diciotto centimetri, erti e insolenti, già sull'attenti di prima mattina.
La ragazza la misurò e poi ricordò:
- Oggi è il giorno dell'acqua. Se non ci fossi io a accudirti, che ne
sarebbe di te? Rinsecchita, prosciugata, impoverita, derelitta, incartapecorita,
avvizzita, liofilizzata, micro-ondizzata, dove vivresti, se non ci fossi
io? In un negozio di piante, saresti, a competere con orchidee in scatola
per signore sfiorite, e con kentie più esotiche e longilinee, e mazzi
di rose, rose che gli innamorati tradizionali tradizionalmente regalano
alle donne che amano, il mio no, il mio aveva un'anima anglofoba, sessuofoba
e extraparlamentare. Però tu non appassisci e non ti vendono già moribonda
in un ristorante.
Si sa, le ragazze, in solitudine, parlano con le piante.
- Bela arbo, belega, belega - continuò e la piantina, per la prima volta,
sembrò scossa. Un fremito leggerissimo, durò solo un attimo. Le foglie,
piene di sé, sode di polpa pasciuta, tremarono tutte.
- Bela e granda.
La piantina vibrò un'altra volta, tronfia del suo epitelio tornito.
Nessuno, né la ragazza né il suo amanto, aveva mai saputo a quale specie
appartenesse la piantina comprata al mercato, invasata chissà quando
da uno sciamano in disgrazia ma, questo era chiaro, trattavasi di piantina
dolce e sensibile, nonostante le spine, almeno molto sensibile ai complimenti.
Bastarono infatti poche parole -bela e granda - per farla crescere altri
settantacinque millimetri, in tempo reale, come nei documentari sulle
meraviglie della natura.
La sera, quando la ragazza tornò dal lavoro, la piantina era lì, ancora
in erezione, ad aspettarla.
- Ti proteggerò - pensò la ragazza - Io ti proteggerò.
Poi spense la luce ma non fu capace di dormire. Nella penombra ripensava
sempre gli stessi pensieri.
- Perché non riesco a dormire? Che sia colpa della fotosintesi clorofilliana?
La fotosintesi fa male agli esseri umani, le piante in camera da letto
tolgono il respiro, bruciano l'aria, consumano l'ossigeno. Ma - riconsiderava
un attimo dopo - una piantina così piccola, dopotutto, chi può danneggiare?
In realtà la ragazza non riusciva a dormire perché aveva voglia di far
l'amore con qualcuno che non fosse se stessa.
- Kio pasas sub miaj fenestroj? Chi passa sotto alle mie finestre?
Poi gli occhi caddero sulla piantina, la ragazza si sforzò di indovinare
i contorni delle foglie che nel buio ravvicinato del comodino parevano
mostri, poi, abituandosi all'oscurità, riuscì a percepirla più distintamente,
con le forme arrotondate di carciofo alla giudea, appetitose e succulente.
- Beligi e fortigi - le sussurrò, nel senso di "mi sembri più bella
e più forte".
La piantina vibrò un'altra volta. Più decisa, adesso. Un fremito secco
e irrevocabile, come quello dei terremoti. Ma il lampadario appeso sopra
al letto rimase immobile, non c'era nessun terremoto. Solo un'onda sotterranea
che giunse fino a lei.
E' piena di spine - pensò la ragazza - spine che fanno soffrire - nel
pensarlo allungò lentamente la mano sul comodino fino a sfiorare la
pianta. Le spine si staccarono facilmente, come se non avessero intenzione
di ferire. Docilmente la piantina lasciò che la ragazza sfilasse dal
corpo carnoso della foglia centrale ventisette aculei, lei li lasciò
cadere nel portacenere, come a shangai. La foglia centrale si presentò
liscia al tatto, forse appena increspata dalle sottili nervature che
si irradiano sotto la superficie tesa dei vegetali, morbida e vellutata.
La ragazza non seppe resistere. La foglia, senza opporre troppa resistenza,
con un rumore di biscotto spezzato, si lasciò strappare dal fusto.
Con la foglia la ragazza cominciò a fare l'amore.
Mi estis amata, mi estis amata, le parole dell'amanto bastardo le tornavano
in mente, poco prima della separazione erano arrivati ai participi passati
e ai verbi passivi.
- Avresti mai pensato di far l'amore con una foglia di pianta? - si
chiese - Che importa - si rispose - L'ho già fatto con altre specie
di vegetali, quelli con la pretesa di studiosi e intellettuali. Almeno
questa non borborigma in una lingua desueta.
Se la infilò tra le gambe. Ebbe tre orgasmi facili facili. Poi scivolò
nel sonno, la foglia di piantina ancora umida appoggiata sul cuscino
vuoto dall'altra parte del letto.
Le apparve un'altra volta Ludwig Lazarus vestito come l'Uomo del Monte
in un rigogliosissimo giardino dell'Eden: diceva di sì, approvando bonario
la sua muliebre grazia e intraprendenza.
Martedì
La mattina dopo, nonostante la vista, a prima vista non edificante,
della piantina mutilata sul comodino, la ragazza si trovò di buon umore.
Merito dell'inclinazione botanica, che non aveva mai saputo d'avere,
o del fortuito passaggio di Venere nel suo segno zodiacale?
Al giornale la ragazza, nonostante uno sciopero di cuspidi, mantenne
un atteggiamento compassato e distante, i pensieri già altrove. Per
la sera rifiutò un paio di inviti, pregustandosi un tête a tête. Loro
due, in santa pace. Infatti fecero un po' di conversazione davanti a
una bottiglia di Ferrarelle - tu questa sera non bevi - disse la ragazza
alla sua piantina - bere troppo ti fa male.
La piantina non protestò.
- Che bello avere un vegetale di compagnia. Che bello, io sono il tuo
sostegno e tu la mia bella epifita, non sei contenta?
La piantina, benché nessuno le avesse mai dato dell'epifita, nel senso
di parassita, non fece una piega. La ragazza allungò una mano per accarezzarla.
- Cu vi estas sana? Stai bene?
La piantina, allora, vibrò ancora. Accondiscendente.
- Io ti do quello che posso, tu mi dai quello che poi, finalmente una
convivenza adulta e civile - concluse la ragazza prima di trasferirsi
con la piantina invasata nel vasetto in camera da letto.
Si tolse i vestiti, tolse le spine alla seconda foglia e gli orgasmi
di martedì furono quattro, merito sicuramente di una maggior confidenza.
Domani - disse quasi nel dormiveglia alla seconda foglia adagiata accanto
a quella del giorno prima, entrambe sdraiate accanto a lei - domani,
primo quarto di luna crescente, vi rinvaso.
Mercoledì
Ancora in pigiama, alle otto e un quarto di mercoledì, la ragazza si
diede da fare con le talee e un manuale di giardinaggio.
- Ma tu fiorisci, qualche volta? - domandò ai pezzi di piantina ancora
incerti nei nuovi contenitori - comunque meglio di no, mi piaci così
tutta verde, ancora acerba, più virginale.
Poi, invece di andare a lavorare entrò in una libreria per documentarsi,
consultò sette volumi di botanica e floricoltura varia: piante da giardino
con suggestivo villino, piante da appartamento in multiproprietà, piante
da trilocale doppi servizi e portineria, da simpatico bilocale con cucinotto,
da villetta-canile dell'hinterland produttivo, da stanza in sub-affitto
e cesso sul ballatoio, quest'ultimo più che volume, un dépliant. Nessuno
dei sette, però, dovette constatare la ragazza scorrendo l'indice con
l'indice laccato e una certa impazienza, sembrava trattare, che disdetta,
della sua piantina.
- O è molto rara, e quindi molto preziosa, o è talmente insignificante
che la letteratura fai-da-te non la considera - pensò la ragazza - peccato,
ci vorrebbe un tassonomo ma, in fin dei conti, che importanza hanno
i nomi delle cose quando le cose non sono più cose ma sentimenti? Tu
sei il mio vegetale di compagnia e questo ci basta, gli uomini e gli
animali non sono altrettanti leali, appena possono giocano sporco.
- Sei malata? - le chiese l'amica dell'ufficio al telefono.
- Sì, non sto bene.
- Cos'hai?
- Male alle ovaie.
- Tipica reazione isterica per via di quello là.
- Quello là, chi?
- Quello lì, quello che ti ha fatto tanto soffrire.
- Ah, l'ex amanto? Acqua passata.
- Racconta.
- No, non te lo posso raccontare.
- Acqua passata - disse la ragazza infilando un dito nella terra completamente
secca del vasetto di plastica della piantina originale. Le tre foglie
rimaste già un po' cresciute, almeno di sedici o diciassette millimetri
le due più lunghe, un po' meno quella più corta. Visto che sei la più
piccola, por malgranda, ti tengo per un'altra sera, trattamento speciale.
Troppi centimetri possono far male, tu sei l'ideale. La piantina, un
puntaspilli non belligerante, si scosse di gratitudine. La ragazza,
poche ore più tardi, strappò la terzultima foglia, la spogliò delle
spine e non rimase delusa, che piacere potersi fidare.
Il problema era che ora, se le talee non fossero cresciute in fretta,
la ragazza si sarebbe ritrovata, ancora prima del fine-settimana, con
una sola foglia a disposizione.
- L'ultima la tengo per sabato, venerdì in bianco, che è meglio lo diceva
anche il prete tra i miasmi di pesce dell'oratorio. E poi sabato è il
giorno peggiore, la gente che è sola si svena, per forza, di sabato
sera. Adesso ci sei tu a consolarmi.
Giovedì
Bonan tagon, disse la ragazza alla sua piantina, buongiorno! Il resto
del giovedì passò come un giovedì, né carne né pesce. Poi, esattamente
dalle ore ventidue e quarantacinque all'una e trenta, con la penultima
foglia la ragazza si accarezzò tutta quanta, e contemporaneamente, dilatando
il tempo in un'idilliaca dimensione futura, prese a fantasticare. L'unione
con la sua piantina andava così bene, il ménage talmente appagante che
chissà, magari con un po' di fertilizzante, la ragazza si chiese se
una piantina potesse, in qualche modo, fecondarla. Un ibrido meraviglioso,
loro due fuse insieme. L'ultima frontiera dell'ingegneria genetica e
della riproduzione artificiale. Uno scandalo bioetico. La stirpe vegetanimale,
estrema fantasia della tassonomia e il papa a inalberarsi su Piazza
San Pietro.
- Mi estas amonta, mi sa che mi sto innamorando.
E' sempre così, la prima volta si prova per noia o curiosità, la seconda
per vedere come va, la terza se non stai attenta all'ascendente, va
a finire che t'innamori.
Venerdì.
In bianco.
Sabato.
Sabato di giorno la ragazza pensò tutto il giorno a sabato sera. Per
ingannare l'attesa cercò di ricordare una poesia in lingua padre poiché
la lingua madre non sortiva alcun effetto. Ora però, con l'esperanto,
era un po' fuori esercizio, ciò che ricordava erano solo litanie di
fonemi insensati, significati perduti, suoni svuotati. Ciò nonostante
cercò di pronunciare quelli che parevano più gentili, con l'esperanto
bisogna stare attenti, è facile incappare in un sacco di kappa, e le
kappa, psico-foneticamente parlando, sono cattive. Con tono soave quindi
mormorò:
plenigi,
lernigi,
bonigi,
malbonigi,
dormegi,
resanigi,
dormegi, dormegi.
Quando arrivò un'ora decente per portarsela a letto
la piantina era già in brodo di giuggiole. L'ultima foglia tremava come
una foglia, ma di piacere, non di paura. La ragazza la strappò lasciando
nel vasetto un solo moncone diramato in cinque spunzoni irregolari,
dalla foglia malgranda , con l'attenzione di chi ha acquisito una certa
praktika , sfilò tutte le spine. Accarezzò più volte l'epitelio verde
brillante, era la foglia più piccola e forse anche per questo la più
desiderosa di fare bella figura. Infine, rompendo gli indugi di un petting
quasi estenuante la utilizzò, come si dice, contro-natura. Nel farlo
ripensò a lui, le due cose le sembrarono la stessa cosa.
Paroladanto, paroladisto ma okulo matematikisto ni falta che, lasciando
qualche libertà al traduttore potrebbe significare, la matematica non
è un'opinione.
Domenica
La domenica si presentò subito come una domenica, il languore di chi
non sa cosa fare. Nel giorno dedicato al più solare dei pianeti del
sistema solare cielo nembocumuloso con probabili addensamenti a nord-est
e parziali precipitazioni su tutto l'arco alpino, voglia di piangere.
Il vasetto vuoto, qualche stoppia di foglie recise, qualche filamento
fibroso che trasuda un umore lattiginoso di tubetto di dentifricio mai
chiuso, la festa finita, bicchieri con avanzi di Ferrarelle abbandonati
qua e là e portaceneri pieni di cicche che nessuno si è preso la briga
di svuotare. Un vago mal di testa e anche un vago dolore in mezzo alle
gambe. Un leggero senso di colpa.
- Non ti preoccupare - disse la ragazza al vasetto invasato ma mutilato
- ricrescerai - Bone mangi, multe trinki, longe vivi - proverbio formulato,
oltre che in esperanto, anche nella maggior parte degli idiomi correnti
che l'esperantista non avrebbe mai preso in considerazione.
- Ti curerò, ti nutrirò, ti darò la medicina, eccola qua - aggiunse
- mostrando al moncone rimasto la pubblicità su una rivista femminile:
"Ormone fitostimolante per lo sviluppo delle tue piante".
Poi venne la prima notte senza foglie.
Pazienza - si disse la ragazza - non è che possiamo farlo tutte le sere
- e si rigirò nel letto allungando il piede sulla metà vuota rabbrividendo
al contatto con le lenzuola. Sprofondò nel sonno e nel giro di tri,
kvar minuti sognò un sogno assai strano.
Per prima cosa sognò di pesci che le solleticavano i piedi. Un intero
branco di pesci proliferanti si infilavano tra alluce e indice, e tra
il medio, e poi tra tutte le altre dita dei piedi, pesci in bilico sul
malleolo e pesci che risalivano la pianta in formazione, prima del piede
sinistro, poi anche sul destro.
Ai pesci a poco a poco spuntarono i denti, la ragazza vedeva se stessa
annaspare in un acquario di piranha che le attanagliano le caviglie
e chele di granchio che le si avventavano contro moltiplicandosi, i
polpacci in cancrena, il rosso del suo sangue tutt'uno con il rosso
di carapaci già sbollentati. Poi vide due cani gemelli che digrignavano
le fauci vicino alle cosce, due cani neri con il cervello abnorme compresso
in una testa minuta grazie a qualche errore dei selezionatori di razze,
i cani, di nome Ludwig e Lazarus si disputavano un femore, lo lanciavano
da una parte all'altra del letto sbavando e ringhiando. Scomparirono
nel buio rincorrendo anche il femore dell'altra gamba. Ora lei era senza
gambe e non poteva più muoversi. E dalle onde delle lenzuola agitate
emerse un leone, si avventò sul suo sesso, perché lei era lì, a gambe
aperte, per così dire, se avesse avuto ancora le gambe. Le mascelle
si serrarono inghiottendolo in solo boccone, restavano canali di vene
spezzate e salpingi un po' dappertutto. Un dolore di vergine ferita
pulsava imperterrito a livello del cuore. Allora un sagittario si precipitò
da una distanza vertiginosa e con la freccia infilzò anche i ventricoli,
fece breccia come un ariete, lasciando frammenti di aorta a scombussolarsi
in un'inutile tachicardia. C'era solo un buco dentro se stessa, i segni
zodiacali si erano accaniti contro di lei. Il sagittario ripartì in
volo con le sue ali da putto, uscì dalla finestra, sorvolò le macchine
parcheggiate lì sotto e andò ad appollaiarsi sul cornicione del supermercato,
la faretra a tracolla.
Nel sogno della ragazza nel letto della ragazza rimaneva solo la testa,
ancora attaccata alla spalle. Nella testa ronzavano domande che iniziavano
per kappa:
kie estas mia kuracisti? (dov'è il dottore?)
kiu ploras tie-ci? ( chi si lamenta, qui?)
kiu mi mensogas? ( chi mi ha imbrogliato?)
finché un'incornata di toro non le ridusse a brandelli, una dopo l'altra,
interrompendo la lezione numero 4 sulle forme verbali interrogative
e portandosi via anche un pezzo di collo.
Si ritrovò soltanto con una porzione di sé appoggiata sul cuscino, la
bocca aperta e gli occhi spalancati da santa decollata a chiedersi,
padre dove sei in questo momento? A guardare il grande fratello? Il
corpo scomparso, menomato, reciso. Al suo posto solo il tormento cento
per cento di un incubo splatter.
kiu mi mensogas? ( chi mi ha imbrogliato?)
Uno scorpione le si infilò in bocca e le morse la lingua paralizzandola
col suo veleno e lei non poté più nemmeno lamentarsi o gridare, avrebbe
voluto urlare ma le parole restavano dentro appiccicate alle mucose
come afte sierose. Muta dappertutto, solo negli occhi un barlume di
vita.
Allora la ragazza, con uno sforzo enorme li aprì, sollevò la saracinesca
delle palpebre per sfuggire a tutte quelle orribili visioni, cancellarle
per sempre e non esagerare mai più con i vizi, soprattutto quando è
prevista un'eclissi.
Guardò il letto.
Il letto era vuoto, il suo corpo scomparso, solo il cuscino leggermente
infossato, dove doveva essere stata appoggiata la testa. Qualche capello
appiccicato alla federa. Con gli occhi vagò per la stanza, anche la
stanza era vuota. Si cercò dappertutto senza riuscire a trovarsi. In
un tentativo più che disperato rovesciò i bulbi all'indietro per vedere
dal di dentro che Zamenhof fosse successo.
Solo allora capì.
La ragazza, o meglio, quello che era rimasto della ragazza, se ne stava
abbarbicata nel cuore delle foglie della pianta, cresciute in una sola
notte a dismisura, strabordanti dal comodino. Le foglie erano disposte
a ventaglio e i suoi due occhi lì in mezzo, come due macchie di cocciniglia
su un ficus malato, i bulbi fissavano stralunati le foglie della piantina,
le foglie della piantina, bela e granda come non mai, si succhiavano
le dita.
Nella penombra della stanza dove non c'era più la ragazza era ancora
possibile leggerle il pensiero negli occhi:
- Una pianta carnivora, ecco cos'eri, figlia dell'amanto dell'esperanto,
bastardo e scorpione. Come tutti gli scorpioni , anche un po' vendicativo.
Espero, mi amanto che....
Non riuscì a terminare la frase.