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MATTEO BORDONE
Se il fascino di un
prodotto sta tutto nella confezione, allora è innegabile che
il vero appeal di ogni televendita risiede nello sguardo, nella voce,
nelle movenze del venditore. Ed è proprio su questa parabola
di marketing mediatico che Matteo Bordone, già acuto testimone
di lanci promozionali santacrociani, decide di porre il suo sguardo
sornione e truffaldino, succube di un'attrazione incontrollabile. La
regina delle antenne commerciali italiane come oggetto d'amore e ammirazione?
Come diceva Andy Warhol per definire la vera essenza della pop-art:
"Tutto è buono".
L'astro sfolgorante
di Telemarket
Per anni sono andato a letto presto la
sera perché ero uno dei pochi in tutta Varese a non prendere
Telemarket. Anzi.
La vedevo, in bianco e nero, ma l'audio era come appoggiare l'orecchio
nel cavo di una conchiglia. E io mi stufavo di vedere che mi parlavano
e sentire il mare. Nonostante la passione, desistevo.
Telemarket è in provincia di Brescia, a Roncadelle, immersa nelle
nebbie zincate dell'operosa provincia lombarda.
Quando capitava di andare a una festa a casa di qualcuno, gli altri
magari limonavano, bevevano, fumavano, io delle volte mi piantavo davanti
alla televisione. Certi mi prendevano per pazzo, cambia, dicevano, poi
però chissà come mai stavano lì.
Poi, qualche mese fa, finalmente libero: il 25 Aprile della ricezione
televisiva. Dopo anni di annose trattative trasversali e sotterranee,
di mezze frasi nell'ascensore, cooptazioni dirimpettaie, compravendita
di voti davanti alla casella della posta, portoni tenuti aperti troppo
gentilmente per un secondo fine, alla fine il condominio nel quale vivo
ha statuito che sì, si mette la parabola centralizzata.
Siccome io abito a ridosso della collina Campigli, con l'antenna normale
prendevo tutto un po' male: Emilio Fede col ronzio e canale 5 con le
righette che vanno e vengono.
Così un giorno sono arrivato a casa e c'era il decoder e si vedeva
tutto bene, si vedevano i film in 16/9 si cambiava l'audio e si sentiva
tutto in inglese, Emilio Fede niente ronzio, canale 5 senza righette
che vanno e e vengono.
E soprattutto premendo con cura i tastini del telecomando del decoder,
l'immagine è scomparsa un istante e quando è tornata un
uomo con i baffi e la criniera che mi sorrideva, mi chiamava "adorato
ospite" mi offriva quello che aveva. Sembrava non lo facesse per
denaro, ma semplicemente per assecondare una spinta profonda dell'animo,
radicata nelle viscere della sua natura: vendeva per amore.
Quell'uomo si chiama Paolo Frattini, è il più grande televenditore
vivente, abita a Varese a duecento metri da casa mia ed è l'astro
sfolgorante di Telemarket. La seconda serata del sabato è tutta
sua.
Vorrò proporre loro qualcosa di realmente
straordinario, graditi ospiti. Coloro i quali avranno la gentilezza
e il garbo di prestarci ancora una porzione del loro tempo prezioso,
avranno modo di considerare un Patek Philippe senza tema di smentita
davvero straordinario.
Qualche tempo fa, nell'ultima giornata umida prima della
siccità di quest'inverno, sono passato davanti alla biblioteca
e l'ho incrociato: una figura eterea, quasi irreale, come sparata nell'aria
grigia di un pomeriggio autunnale da un cannone fotonico nascosto.
Era Lui.
Vedere Paolo Frattini e poterlo toccare fisicamente sarebbe stato per
me come essere sulla strada di casa verso Emmaus, incontrare un viandante
affamato e offrirgli la cena; e solo dopo, al momento di portare in
tavola il coniglio con le patate, scoprire che il capellone è
Gesù Cristo il rivoluzionario, risorto dopo la morte.
Mi sono spostato leggermente sulla sinistra, in via Sacco, davanti alla
biblioteca, e lui non mi ha nemmeno guardato.
Gli occhi li teneva fissi davanti a sé. Sembrava deambulare su
piccole ruote fatte di spirito santo, tanto il suo movimento era costante,
lineare, mistico. I capelli erano setosi, impalpabili, perfettamente
curati affinché una scriminatura centrale li facesse ricadere
ai lati del viso con la naturalezza erotica di una pala di Tiziano.
Non aveva un ombrello ma indossava una cerata di classe, con una struttura
simile a una mantella che copriva ampiamente le spalle ricadendo sulla
schiena. Da lontano sarebbero potute sembrare, vi giuro, delle piccole
ali.
Guardino, li prego, questi incarnati. Ne sentano
il profumo, cari amici. Osservino il colore..aspetta, c'è un
riflesso, come possiamo fare? Lo sposto... Ecco, ora puoi stringere
sulla vergine. Ecco, beh, beh, amici, beh! Non credo di dover dire altro.
Un dipinto del genere, mi credano, non può costare questa cifra.
Non può. NON PUO' COSTARE QUESTA CIFRA!
Quella di Telemarket è una grande famiglia senza
madri. Tutti sono figli di Paolo Frattini: nascono per gemmazione dalle
pieghe immacolate della sua chioma.
In ciascuno dei suoi figli, gli altri venditori, esistono le virtù
commerciali del padre, ma sbilanciate e terrene, laddove nel padre costituiscono
un melange infallibile, etereo. Quando vende, Paolo Frattini è
nel vuoto senza tempo e, letteralmente, levita dentro allo schermo.
Quest'inverno ho fatto le quattro di mattina a sentire Alessandro (giovane,
entusiasta rampollo di famiglia) che proponeva uno scatolo di cartone
con dentro sei chili di posate d'argento. Mentre le presentava accanto
a lui c'era un bancale di scatoli. Ognuno costava qualcosa come 6.000.000
di lire. All'inizio ci saranno stati duecento scatoli sul bancale. Non
è facile crederlo, lo so, ma Alessandro, presentatore toscano
e ridente che si rivolge alle telefoniste dicendo "amore"
"tesoro" "dolcezza", l'ha fatto fuori nel giro di
un paio d'ore. Un bancale intero di scatoli di argento da sei chili.
Una, ha giurato, l'ha comprata anche per sé, perché l'argento,
si sa, è un investimento. Non va mai fuori moda.
Non propongo loro questi tappeti per la loro magnificenza.
Insisto con tappeti caucasici, perché ne adoro la schiettezza,
la sincerità. Potrei offrirvi un Nain di Nain recente, perfetto,
mai calpestato, ma tra vent'anni non avreste un tappeto come questo.
So di chiedere loro uno sforzo. Si lascino guidare, lo prenotino, se
lo facciano portare in casa propria e solo allora decidano.
Qualche tempo fa ho dato l'esame di storia contemporanea
e mi ricordo che, parlando dello stile liberty, venivano citati questi
mercanti parigini che lanciarono i motivi a volute floreali nei salotti
borghesi di tutta Europa. Uno di questi si chiamava Daum. Vasi colorati
in pasta di vetro. Me lo ricordavo bene.
Una domenica ho visto il Frattini vendere cinque vasi di Daum nel giro
di venti minuti. Costavano una media di 15.000.000 l'uno.
I pezzi, sia ben chiaro, loro non li comprano. Chiamino,
li prenotino in visione senza nessunissimo impegno. Ma non aspettino
domani! Non si mettano nella condizione un giorno, adorati ospiti, di
dire "Perché non ho speso quei soldi allora?!". Si
facciano un piacere. Se lo facciano ORA!
Un pomeriggio di domenica ho visto il Frattini nella
stanza. Il Frattini la domenica pomeriggio non è seduto davanti
a un cromakey con dei gioielli ingigantiti fissi alle sue spalle. Quello
succede la sera o la notte, quando vende preziosi e cronografi svizzeri.
Ma quando vende mobili, Egli è sulla terra, tra di noi. In quei
momenti Paolo Frattini è nella stanza. In piedi. E si muove di
continuo, scivola impalpabile in mezzo a mastodontiche collezioni, interi
salotti stile impero, pendole, dormeuses, scrivanie, sedie, poltrone,
veri e propri troni imperiali napoleonici, tavoli da pranzo in noce
nazionale perfetti come nuovi, - guardate il lavoro a sbalzo sulle gambe,
guardate la zampa leonina - che ci si mangia in tredici comodi, perfetti,
vi giuro, da ultima cena.
Se io vi dico che un litro di benzina costa un litro
di benzina costa 2.200 lire, voi che cosa mi dite? Sì, Paolo.
Saranno 2.110, 2.120, 2.140 quello che è. Giusto? Ma se io vi
dico che un litro di benzina costa 1.400 lire, voi che cosa mi dite?
Paolo, non è vero! Sei...sei rimasto indietro! Giusto. Ecco.
Stessa identica cosa. Una ribalta del genere, Inghilterra, giusta, costa
20.000.000. Se non sono venti potranno essere diciannove, come dissi
pocanzi...
A stare dietro al padre, proprio nel senso che al suo
confronto risulta perdente ma non umiliato, schiacciato, ridotto a poltiglia
per cani come gli altri figliocci, c'è solo Willy Montini, critico
e venditore d'arte.
Nella sigletta che anticipa i suoi programmi, Willy Montini chiacchiera
animatamente con Achille Bonito Oliva. (Dario Ulivi, invece sfoglia
un catalogo, accarezza un tappeto, ascolta un gruppo suonare un pezzo
dei Weather Report. Paolo Frattini arriva semplicemente in motocicletta,
toglie il casco e sorride come Sai Baba).
Willy Montini in ogni caso presenta l'arte contemporanea come nessuno.
All'ombra dell'elefantino verde di Telemarket, Willy Montini dimentica
un secolo abbondante di lingua italiana e apostrofa il pubblico: "Siano
celeri", "Sappiano sentire il dipinto, ne sappiano cogliere,
so che è difficile per televisione, la folgorante matericità"
e altro. Così, in diretta, per ore, in qualunque fascia oraria.
Anche alle quattro di mattina, in qualsiasi situazione ipotizzabile,
Willy Montini sorride delicatamente e snocciola le buone maniere della
nonna. A volte ride da solo, composto e mai sopra le righe, davanti
ai prezzi - tutti i prezzi sono da scontare di un tot, e di un ulteriore
tot se si possiede una Telecard 3, cose da iniziati - e scuote la testa,
non è possibile, questa non è più arte: sono investimenti
di capitale.
Xavier Bueno, Emilio Scanavino, Aligi Sassu, Michele Cascella, Remo
Squillantini uno dopo l'altro, i pittori contemporanei vengono presentati
con calma. Pittori di punti neri su sfondo blu, di barchette scolorite,
di croste bulbose che pulsano dalla tela sotto le lenti compiaciute
di Willy. Tutti questi più i gradissimi. Anche Picasso. Anche
Chagall. Ma soprattutto lui. Il massimo rappresentante della POP-ART
italiana. Mario Schifano.
Mario Schifano.
Mario Schifano.
MARIO SCHIFANO.
Questo nome risuona come una litania. Ci sono sempre da vendere unici
dipinti di Mario Schifano. Non esiste l'eventualità di essere
per una sera risparmiati. Lo stesso Willy davanti a Mario Schifano allarga
le braccia e sorride "Cosa volete che dica loro, signori...MARIO
SCHIFANO". Telefoni. Lavatrici. Scritte stampatelle a spray, come
sulle casse al porto.
Mario Schifano.
Quanti quadri ha dipinto Mario Schifano?
Quanti anni è vissuto Mario Schifano?
Mangiava, ogni tanto?
Aveva una vita sociale?
Faceva qualcosa oltre a dipingere?
O aveva un disperato bisogno di soldi, trenta figli da mantenere, il
vizio del gioco, qualche tossicodipendenza segreta?
(E soprattutto perché così tanto Mario Schifano nella
mia vita?)
Si rendano conto che questo non è quadro reperibile
domani o tra un anno o quando loro preferiscono. Questo non è
quadro su cui possono fare ripensamenti, tra un mese tra un anno. Questo
dipinto c'è ora. C'è ora e credo di non dire un'assurdità
se assicuro loro che domani, gentili amici, questo dipinto non ci sarà
più.
C'è una certa ripetitività nelle vendite
d'arte, nonostante Willy Montini. Si fatica a reggere tutta la diretta.
Entrano in ballo questioni estetiche. Certi quadri piacciono, altri
schifano.
Il sabato sera tornando a casa cerco gli orologi svizzeri. Cerco i Baum
et Mercier, i Rolex di ogni modello, gli scheletrati di Gerald Genta,
la solidità degli Omega, il delirio economico dei Vacheron et
Constantin, dei Patek Philippe, delle scatoline di molle rotanti che
costano 20.000.000. E lo faccio solo per vedere il sorriso da marcante
veneziano di Paolo Frattini, che li sventola sotto la telecamera come
reliquie medievali o autentici frammenti della croce.
Amo di Paolo Frattini il suo mestiere. Chi conosce sua figlia ed ha
così la fortuna di frequentare quella casa, dice che è
un uomo tranquillo, pacato, placido, al limite del pigro. Lavora molto,
ma non è stressato. Gira in vestaglia per casa. La notte, quando
non lavora, dorme il sonno dei giusti. Recentemente ha comprato un macchinone
americano. Spesso è parcheggiato qui sulla strada.
Ascolta, non mi interessa sapere della centralina
digitale. Io voglio l'immagine di quel Cartier dietro le mie spalle.
Non mi interessa. Io sto facendo il mio lavoro, amico regista. Non mi
riguardano queste cose. È un tuo problema. Tu stai facendo il
tuo lavoro? Allora vedrai che ce la fai, anche perché io, amico
caro, sennò non vado avanti.
Anche io dopo tutta questa esposizione mi sono preso
un bell'orologio Rolex. Modello Oyster Perpetual, quadrante blu scuro.
Movimento automatico. Impermeabile. Cassa e cinturino in acciaio. Spacca
il secondo e certe volte me lo guardo soddisfatto.
Ma so che se Paolo Frattini mi stringesse anche solo la mano capirebbe
tutto. Lo sentirebbe dal ticchettio, dalle vibrazioni che vengono dal
profondo del cuore degli orologi, dal quadrante squadrato, dal meccanismo
meccanico. Sentirebbe una lingua straniera dai polpastrelli stretti
intorno alla mia mano, una purea di vocali e consonanti gridati in un'improbabile
fabbrichetta con umidità all'80%, palme, insetti, rettili velenosi
appesi agli alberi della gomma. Niente a che vedere con la pace celeste
di Ginevra, l'espressione serena degli svizzeri che passeggiano tranquilli
per le vie del centro. Gerani sui balconi.
Niente da fare, se ne accorgerebbe. Troppi particolari fuori posto.
Il mio Rolex è un falso di Taiwan comprato a Marina di Carrara,
sulla spiaggia, per centomila lire.
Perdonatemi, maestro.