Marco Palasciano, Le due zitelle del quartiere degli arcivescovi

A prima vista un racconto dal linguaggio così ricercato e polveroso come questo “Zitelle” potrebbe sembrare fuori luogo all’interno di questa rivistina votata alla leggerezza narrativa. Ma basta addentrarsi fra le sue pagine per capire che quello che ci presenta l’esordiente Palasciano è un quadretto di famiglia delirante e perversamente ironico, con due sorelle-caricatura in grado di compiere delitti, malefici, incesti, lotte fratricide e alleanze indissolubili. Un barocco-pop, insomma, che regala un’interessante variante allo stile ‘tinesco. E questo è solo un assaggio delle abilità narrative di questo autore fuori dagli schemi, giunto per ben tre volte consecutive in finale al Premio Calvino con tre romanzi diversi (!), due dei quali distrutti per insoddisfazione e uno miracolosamente conservato, che forse vedrà la pubblicazione ufficiale nei prossimi mesi. Attenti, potrebbe diventare una vera rivelazione.

LE DUE ZITELLE DEL QUARTIERE DEGLI ARCIVESCOVI

Un mattino le zie si erano svegliate vecchie. Avevano cominciato a guardare le cose attraverso il filtro della nostalgia, divenendo cieche a tutto ciò che non si conciliava con le forme cui le avevano assuefatte i secoli favolosi dell’infanzia. Gli arabeschi scoloriti dei parati, le sedie dalle imbottiture rigide come la copertina di una lussuosa enciclopedia, i merletti adagiati come candide meduse morte su quelle e sui braccioli dei divani, i fiori secchi nei grandi vasi di porcellana screpolata ad arte, i piccoli tappeti dal penetrante profumo di polvere, lo zoo di animali di vetro sulle mensole sotto l’orologio a cucú, il mappamondo cigolante nell’ingabbiatura di legno tornito e sui cui continenti era tatuata una geografia totalmente estranea a quella del presente, i libri ingialliti dalle pagine così rumorose a sfogliarsi nella sepolcrale biblioteca leopardiana, le tende simili a sudari che soffocavano le finestre nel pomeriggio, il suono acidulo del clavicembalo, le felci sui balconi e il capelvenere nel pozzo erano divenuti tutt’uno col loro essere. Si convinsero che non avrebbero potuto sopravvivere fuori dell’immunità di quella magione di legni speziati e marmi frigoriferi, che presero a chiamare il loro piccolo convento; e quando la bella Clara si sposò, Clelia e Cloris rimasero a condividere la solitudine della madre vedova, e poi la solitudine reciproca, fino a che il terremoto non diede il colpo mortale a quelle mura già indebolite da tanti anni di astio vibrantemente rimbalzato fra le due gemelle.
Fino al momento di quel matrimonio, tra Clelia e Cloris era prosperato come un rospo chiuso tra due pietre un odio pernicioso nato per gioco nei primi anni della ragione.

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Era stata ben accolta da entrambe, stranamente, la nascita della terza sorella, quando erano giunte a un punto dell’infanzia in cui nessuna delle due poteva ricordare il motivo della rabbia verso il proprio sosia ma al tempo stesso non poteva smobilitarla, così come non si può bloccare il flusso di un cannello di cui si è perso il rubinetto. Si strappavano i capelli a vicenda tutte le volte che potevano e anche senza pretesto, ma davanti al padre e alla madre esibivano una compassatezza sfacciata che riuscì sempre a ingannare chiunque sulla reale portata della loro rivalità senza fulcro. Non c’era dispetto cui ciascuna delle due non avesse pensato e che non avesse messo in atto o sventato all’altra, in un prolungato e estenuante macchinamento di furbizie che aveva il carattere metodico e freddo di una partita a scacchi. Clelia sistemava un ago nella babbuccia di Cloris e Cloris mordendosi il labbro fingeva di non aver sentito la trafittura, per poi cucire dentro il guanciale di Clelia un moscone vivo che avrebbe fatto impazzire la bambina tutta la notte, e nemmeno allora era stato denunciato il fatto ma erano state intraprese nuove ed incrudelite contromosse. A tavola le due piccole erano il ritratto di una pariglia d’angeli, e i genitori non si accorsero mai della guerra silenziosa che devastava la loro innocenza trasformandola in terreno fertile alle più inaspettate perversioni. Fu allora che nacque Clara.
La neonata mutò il corso della guerra. Un mattino Clelia si accostò al fasciatoio mentre la mamma cambiava il pannolino e si provò a darle una mano, o meglio un dito per tener fermo un lembo; Cloris vide e ribollì, e con calcolata arguzia riuscì a prevenire la sorella nel porgere il borotalco alla mamma. Da quel momento la loro rivalità trovò un fulcro nelle attenzioni da dedicare a Clara, che crebbe vezzeggiata dalle sorelline e convinta che le volessero un gran bene, senza poter sapere che in realtà lei era il pretesto perché Clelia dimostrasse a Cloris – e viceversa – quanto era più brava nel prendersi cura dell’infanta. Col tempo una tale fasciatura di attenzioni andò allentandosi, ma lei continuò a credere che le sorelline le volessero un gran bene, e un gran bene continuò a voler loro come ne voleva a sua madre. Il padre, uno storico del medioevo sempre in giro per conferenze, con la sua morte contribuì a far compiere uno scarto ai sentimenti maternalistici di Clelia e Cloris, che abbandonarono Clara tra i suoi giochi per dedicarsi completamente ad asciugare le occasionali lacrime della vedova. Non poteva chinare un attimo il capo pensierosa che subito o l’una o l’altra gemella le era addosso a domandarle se era triste e perché era triste e a dirle che non doveva essere triste e la povera donna sospettò più di una volta che tra quelle due sue figliole uguali e simmetriche come le ganasce d’una morsa fosse in corso una strana gara a chi la consolasse di più, ma non concepì mai il sospetto che un simile agone potesse essere così disumanamente fine a sé stesso e non in relazione alla cifra d’affetto che le figlie dovevano pur nutrire per lei.
Clara non volle accorgersi subito, dal suo canto, di essere stata totalmente dimenticata dalle sue sorelle. Ma non poteva non sentire la mancanza di una devozione che prima era stata puntuale, e che ora con il suo decadere la costringeva a cercare l’amicizia dei giocattoli, che animava con la propria voce, assegnando loro i ruoli dei personaggi di varie favole e confondendo spesso le loro caratteristiche con quelle che leggeva nelle due gemelle e che sempre più, adesso, sembravano veramente venire a trasferirsi nei musetti inespressivi della ranocchia e della paperina, del micio bello e del cagnino giallo, mentre i musi di Clelia e Cloris – come per uno stregato scambio d’anime fra le bambine e i pupazzi – perdevano sempre più espressività, nella loro continua usura a prodigarsi verso la madre in affettuosità che sapevano pi di affettazione che di affetto.

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Poi Clara aveva conosciuto l’amore e aveva dimenticato tutti i suoi giocattoli. Clelia e Cloris cominciarono a capire che presto sarebbero rimaste sole nella grande casa con la madre ormai vecchia, e finirono col rendersi conto di essere diventate loro stesse due vecchie, molto più vecchie della loro età. Quel mattino si guardarono allo specchio con orrore e ognuna, tacitamente, maledisse l’altra per averla impegnata in una disfida sterile che aveva svuotato il suo e l’altrui cuore delle energie che Clara invece aveva conservato per l’amore e per la vita. La felicità, tanto a lungo vagheggiata – la notte, nei rispettivi letti, quando veniva meno la fantasia delle offensive e delle vendette – come un pianeta da raggiungere a volo dopo essersi liberate l’una della zavorra dell’altra, si rivelò per ambedue un asteroide già morto prima ancora di essere esplorato. La gioventù si era riempita di crepe da cui affioravano le radici della disperazione, in sincronia col profilarsi delle vene sul dorso delle mani della madre, che avevano raggiunto nel ricamo una maestria impeccabile culminata nell’abito da sposa di Clara. Il cui matrimonio gettò nel gelido ripostiglio del cuore delle due zitelle l’ombra di un odio improvvisamente rivolto non più dall’una verso l’altra, ma da entrambe verso di lei.

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Clara non si rese mai conto dell’enormità della loro invidia. Al momento delle nozze, Clelia e Cloris dissimularono il nuovo astrolabio dei loro pensieri sotto la rugosa compiacenza dei sorrisi, e baciarono la sorella con il calore che le avevano dimostrato negli anni d’oro, nascondendo dietro le labbra il groviglio di vermi velenosi del loro odio nascente. Quando, concluso il banchetto e partiti gli sposi, le due zitelle rientrarono nella casa vuota con la madre, che da quel giorno avrebbe seppellito gli ultimi sprazzi di dolore in una pace fermentante di buone preghiere per la felicità di anche queste sue figlie, Clelia e Cloris non erano più nemiche: erano le due teste di un unico rettile mostruoso, il cui unico divampante desiderio era succhiare il sangue da ambo i polsi della bella principessa.
Questa comunità di intenti non venne mai ratificata da un accordo verbale, ma da un giorno all’altro Clelia diventò la migliore amica di Cloris e Cloris la migliore amica di Clelia; e lo stesso impegno che avevano messo fin da bambine nel fomentare rabbia e dispetto l’una nell’altra, lo profusero nel ravvivare la primordiale dolce complicità che un gioco di cui avevano perso il ricordo aveva spezzato rendendole avversarie. Per la prima volta da allora si riconoscevano sorelle; e la sorella che era stata tanti anni prima al centro delle loro coccole, e le cui visite venivano ora accolte con nascosta ripugnanza, divenne l’obiettivo di una congiura che avrebbe sempre aleggiato a diverse altezze senza decidersi mai a posarsi su nessun piano.
Fu per loro la stagione più pura. Nella grande casa, dove il sole arrivava solo filtrato dai velari neri delle finestre e dagli intrichi variamente verdi delle piante preistoriche, Clelia e Cloris si abbandonarono a un culto del passato che si ripercosse sul loro abbigliamento in un rifiuto di seguire la moda in avanti; e presero a seguirla all’indietro. I colori della tappezzeria, dei libri antichi e delle federe dei mobili si trasferirono nei tessuti scelti per i loro abiti. Avevano imparato a cucire e ricamare dalla madre, in gioventù, pur non dedicandosi mai a lavori più impegnativi del fare le iniziali a un fazzoletto per evitare che vi si soffiasse il naso qualcun’altra, ma ora divennero sarte impeccabili. Non leggevano riviste né giornali. Copiarono i modelli dalle fotografie di quando i genitori erano giovani, e poi trovarono album più vecchi, quelli dei nonni, e resuscitarono una moda che fece ridere chiunque le vedesse, le rare volte che si vedevano uscire di casa per frettolose commissioni nel quartiere di acquafrescaie paraplegiche e arcivescovi in pensione che era il loro universo. Quando Clelia trovò in un baule della soffitta il decrepito album dei dagherrotipi ingialliti d’una bisnonna, esultarono come fosse il tesoro di Aladino. Da allora i loro abiti e le loro acconciature furono una carnevalata eterna di fogge dell’Ottocento.

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La madre perse ogni speranza di vederle sposate. Accolse le loro stravaganze come un prendere i voti. Lei, del tutto recuperata la giovialità d’un tempo, noncurante dell’inverno imminente andava e veniva dalla vecchia casa alla casa della figlia minore, e ogni volta che ritornava dalle due zitelle le sembrava che fossero sprofondate di un centimetro in più nelle sabbie mobili della morbosa nostalgia di un passato che neppure apparteneva loro. Lei vestiva come una persona normale. Le due camerate del delirio, forse nell’inconscia speranza di affrettare la propria vecchiaia e superare la madre nella corsa verso la morte per un invaginato gusto di autodistruzione, chiudevano le orecchie come serpenti a tutti i suoi consigli: smetterla di ritagliare la storia per cucirsela addosso, dare una passata di colore alle loro vite, uscire e cercarsi dei buoni mariti prima di divenire buone solo per raccontare favole ai bimbi delle altre; e finirono col considerarla un’ospite importuna della casa in cui, come fossero figlie di quelle mura e non del ventre della propria madre, solo loro due avevano il diritto di sentirsi padrone.
Camminavano sul filo della pazzia. A poco a poco la madre si ritirò in un àmbito di stanze sempre più ristretto, che poco tempo prima del terremoto si era ridotto a uno stanzino con un letto e una lampada, nell’ala più sperduta della casa, giusto per farsi dimenticare. Le figlie calcavano i pavimenti di marmo come le tavole del palcoscenico di un teatro, dove – attrici e spettatrici di sé stesse – dipanavano le tragedie compiaciute e senza strepito delle loro quotidiane abiure alla vita. Si lasciavano essiccare pigramente al braciere della solitudine, rimestando nei ricordi di quando erano bambine, e anche meno remoti; di tutte le cattiverie che si erano scambiate e che adesso, divertendosi, rievocavano come trastulli affettuosissimi. I loro sorrisi, che facevano cadere le foglioline più deboli delle felci, finirono col prolungarsi in baci e i baci diedero il nulla osta alle carezze. La madre non seppe mai che la camera che le due dividevano fin dalla fanciullezza era ora diventata un melmoso ring di incestuosità saffiche. I due letti erano stati trasformati in un unico talamo, fra le cui lenzuola si produssero gli unici orgasmi che il terribile duo avrebbe mai spremuto dalla propria esistenza.
Fu per loro, in ogni modo, la stagione più pura. Puro era, ad esempio, il loro odio nei confronti della sorella lontana. Benché si considerassero felici nel loro mondo di polvere e ragnatele, in cui avevano cessato di fare le pulizie dopo essersi rese conto che i detriti avrebbero aggiunto un sapore di concretezza alla loro fuga a ritroso nel tempo, sentivano al fondo dei propri pensieri risuonare grave e pastoso il comandamento: opera per il male di Clara. E in effetti fu tale l’intensità ribollente delle preghiere sacrileghe che innalzavano dall’altare dei loro stravizi notturni, che il marito di Clara, un allegro programmatore di computer, morì lo stesso giorno della nascita del figlio Clodoveo.

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Il colpo incrinò la fiducia di Clelia e Cloris nell’impenetrabilità della scorza che le separava dal presente. La morte del cognato le rendeva coscienti di un lutto che non avrebbe avuto senso se veramente la loro vita fosse andata scorrendo all’inverso delle vite degli altri, e in un lampo di lucidità si costrinsero ad ammettere che ciò che non aveva senso era il loro modo di vivere. Ripresero a dare la corda agli orologi. In secondo luogo, il ritenersi responsabili della morte di un uomo raffreddò e spense la fiamma del loro odio verso Clara e fece loro dimenticare di aver mai desiderato il suo male.
La madre fece sempre più spesso visita alla figlia rimasta vedova come lei e a un certo punto fu chiaro che non sarebbe più tornata. Ma non si stabilì a casa di Clara e del bambino. La aiutò finché le parve che ne avesse bisogno e poi, decidendo che non valeva la pena né di disturbare quell’adorabile figlia con la presenza di una vecchia dalla vista sempre più fioca, che ormai non distingueva tra le sagome dei vivi e lo spettro del marito che la chiamava a sé, né di tornare a vivere in una casa dove due figlie pazze la trattavano ormai come una serva nemmeno buona a salare la minestra, una notte lasciò la finestra della sua stanza aperta e al mattino fu ritrovata morta fra i sogni nel letto pieno di neve.

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L’accresciuta densità della solitudine spinse Clelia e Cloris a diradare il calendario dei loro amplessi e, mentre si faceva strada nei loro cuori l’impressionante colatura d’inchiostro del pensiero di dover un giorno morire, finirono col separare nuovamente i letti e cristallizzare in una castità definitiva i sessi che le laboriose tecniche di appagamento meccanico avevano immiserito fino a renderli totalmente insensibili.
Si ricucirono l’imene squarciato da troppi scettri e parve che avessero cucito anche ogni spiraglio fra le rispettive anime. Vissero nel silenzio. Nessuna delle due rivolgeva più la parola all’altra se non per casi di necessità estrema. Stavano tutto il giorno in stanze differenti, quasi mai incrociandosi per i corridoi, e pranzavano e andavano a letto in differenti orari, e a un certo punto Clelia senza dire nulla smise di dormire nella stessa camera con Cloris per andare a sistemarsi nella camera che era stata della loro madre. E si giunse così al settimo giorno. Poi ci fu la notte del terremoto, e gli abitanti del quartiere distrutto avrebbero ricordato per sempre, con spasso malgrado la portata della catastrofe, le due streghe che urlavano come scimmie gettandosi a precipizio fuori del portone in camicia da notte e con i capelli sciolti come due vergini di manicomio.