ANDREA MELI, IN QUEL BUIO

In tanti anni di attività non è mai successo che ‘tina ospitasse degli estratti di romanzo. È accaduto che pubblicassi racconti che poi sono diventati capitoli di romanzi, ma una serie di frammenti non consequenziali tratti da un testo integrale no. Ho scelto di farlo perché ho amato molto il romanzo inedito “Cadere” di Andrea Meli e nell’attesa che trovi un editore mi piace l’idea di offrirne un assaggio in lettura. Meli ha creato un personaggio complesso e sfaccettato, che poco viene raccontato in letteratura. Un uomo perfettamente bisessuale che alterna una regolare vita da padre di famiglia con quella di amante che incontra uomini via chat, ma una non è la copertura dell’altra: in Claudio non c’è conflitto, non c’è ipocrisia. Separa le esperienze per il desiderio di vivere più vite, incapace di scegliere (o indifferente all’idea di doverlo fare). Una bipolarità sfacciata, che dota il testo di una costante e insopprimibile tensione.

ANDREA MELI, IN QUEL BUIO

(Estratti di Cadere)

 –

Il ragazzo di stasera indossa una maglietta bianca, jeans e scarpe da tennis. Ha detto di avere ventiquattro anni e di chiamarsi Antonio. Mi stringe la mano e sorride. Ha gli incisivi superiori leggermente accavallati.

«Non mi ricordo il tuo nome» dice appoggiandosi alla macchina.

«Non te l’ho detto.»

«Allora, come ti chiami?”

«Mi chiamo Claudio». Metto le mani in tasca e decido di non toglierle più da lì.

«Che si fa?» chiede Antonio. Guarda da un lato e dall’altro della strada e si carezza le costole sotto la maglietta, poi mi tocca una spalla. Una macchina passa con un rumore di motoscafo.

«Facciamo due passi» dico.

«Non è meglio stare in macchina?»

Fa su e giù, con quella mano.

«Vuoi stare in macchina?»

«Stiamo più comodi.»

Più comodi. Ma dentro sarà buio. Si vedranno i suoi incisivi storti e il dorso umido della sua lingua come una bandiera.

Ribatto: «Io vorrei fare due passi, se non ti dispiace.»

«Beh, verso dove allora?»

Dal punto in cui siamo si vedono due orizzonti uguali, entrambi lontani, intaccati da palazzi e curve, entrambi alla fine di una lunga scia di luci.

«Ti va un gelato?»

Antonio si guarda attorno e scolla dall’asfalto una foglia con la punta della scarpa. «Non saprei» risponde. «Tu vuoi proprio camminare?»

«Adesso sì, mi andrebbe.»

«Posso farti una domanda?»

«Dimmi.»

«Ti chiami davvero Claudio?»

Sulla sua fronte di Antonio la pelle è butterata in due punti. Ci vorrei mettere le dita. Vorrei poter forzare e aprire.

«È che così importante?»

Antonio alza le spalle e un pugno di tendini gli invade il collo. «Sul nome mentono tutti. Tutto qui. A me poi non interessa niente.»

«Non vedo perché dovrei mentire sul mio nome» dico.

«Lo fanno in molti. Anche secondo me è una cosa stupida.»

«Più che stupida, direi inutile.»

Lui mi guarda in attesa. Guarda la strada. Ha un sorriso esausto. Sta per aggiungere qualcosa, ma cambia registro: «Vuoi fare due passi? Per me va bene.» Si scolla dalla macchina e sembra scegliere una direzione.

Ma ancora non mi decido. Non so se questa è una di quelle circostanze isolate in cui tutto quello che avviene sta a mollo di una zona franca; in cui il buon senso e la legge che lo conferma sono i barbari al confine; oppure è ancora la realtà, dove di notte vige tutto quello che vige anche di giorno, il pianeta terra fatto di cose che si possono e non si possono fare.

Antonio poggia nuovamente la sua mano contro la mia spalla. Su è giù, brevemente.

«Tutto bene?»

Muovo le dita dentro la tasca e faccio pressione contro il portachiavi. Le luci della macchina si accendono, le serrature si liberano.

«Entra» dico.

Antonio fa il giro, monta e si sventola la maglietta dal colletto. Io lo guardo da fuori, attraverso il finestrino. È una figura svelta, scontenta. Un animale che scrocca il tepore di una tana e si guarda attorno per accertarsi di non essere stato seguito.

Quando lo raggiungo, lui ha le braccia conserte e sorride.

«Qui è molto meglio» dice.

«Ora voglio farti io una domanda?»

«Se vuoi.»

«Hai davvero ventiquattro anni?»

Il suo sorriso cede e la sua faccia perde peso.

«D’accordo» dico. «Non interessa niente neanche a me.»  Chiudo lo sportello e la luce si spegne. Ora le nostre teste sono palloncini. Volteggiano qualche secondo distanti, poi si scontrano e continuano a salire insieme, allacciate, gonfie di ossigeno e pensieri bianchi.

 

 

*

 

«Ciao.»

«Ciao.»

«Sei carino.»

«Grazie.»

«Posso interessarti?»

«Sì, sei carino anche tu.»

«Ti va di vederci?»

Scrivo «sì». Poi scrivo «mi piacerebbe, ma per adesso non posso». Poi scrivo «no guarda, sono qui solo per amicizia». Poi cancello e clicco su rispondi più tardi. Aspetto. Dopo mezz’ora il ragazzo scrive ancora.

«Ci sei?»

«Sì scusa ho dovuto chiudere.»

«Sei in compagnia?»

«Sì.»

Guardo le foto del suo profilo. C’è lui che beve una birra. Lui che guarda l’obiettivo dal fondo di un letto. Lui che prende un cazzo. Adora i maturi e i pelosi. Siamo qui per questo, vorrei dirgli. Mi chiedo cosa scatena questa voglia di avere un vecchio tra le chiappe. Alcuni scrivono: solo over sessanta. Fa uno strano effetto dichiarare di avere quarant’anni e sentirsi dire «sei troppo giovane». È crudele. Hai voglia di un ragazzo e te lo immagini far finta che sei suo padre, ma quello non ha bisogno di te, non gli piaci, con un gesto da prestigiatore ti ribalta la scena e in un attimo sei tu a dire «ti prego.»

«Sei fidanzato?»

Rimando di nuovo la risposta. Aspetto. Non mi chiama più. Cerco di godermi il silenzio della casa. Il buio. Ci sono la culla, il fasciatoio, pacchi di pannolini nello sgabuzzino, lo sterilizzatore, le bavette, le tutine, le copertine. Sembrano invitati che aspettano di fare una sorpresa. Non avrò tempo per questo. Non avrò né tempo né testa. Se proverò ad aprire il pc anche di notte, la piccola comincerà a tossire. Potrei dal lavoro, ma non avrei i riflessi pronti. Non vedrei arrivare Carlo, con il suo gilet a scacchi e le scarpe di vernice.

In ogni caso sto solo guardando i profili. Davide è sempre in linea. È uno di quelli che ha assunto la chat come accessorio della sua personalità. Si definisce amico di uomini di cui non ha neanche sentito mai la voce. Li chiama col loro nickname e quando parla di loro ti fa sentire un estraneo rispetto al suo esclusivissimo giro.

Mi arriva un suo messaggio: «puttana, che ci fai qui?»

Cancello il messaggio e continuo a guardare profili. Alcuni non scrivono nulla. Altri postano le loro poesie d’amore, o video di Laura Pausini e Madonna. Qualcuno lancia invettive preventive contro tutti: siete tutti stronzi, siete tutti cretini, siete tutti uguali. Molti dichiarano il loro carattere impossibile: se mi vuoi mi prendi così come sono, se no fottiti.

Davide mi scrive ancora: «troia è inutile che fai finta di non essere in linea.»

Cancello anche questo e apro il profilo di un ragazzo. È fotografato di schiena. Ha un grosso 69 rosso tatuato tra le scapole. Si chiama Viz e ha solo un’altra foto di profilo, poggiato su una ringhiera azzurra – probabilmente a Sferracavallo – e una giacca a vento bianca. Come presentazione ha postato un dialogo

 

Mr Twittle: Cara Mrs Brownie, la noia uccide gli stupidi e ingegna i crudeli.

Mrs Brownie: E gli intelligenti? Dove li mettiamo?

Mr Twittle: Ha mai visto uno stupido intelligente, Mrs Brownie?

 

«Da dove hai preso quel dialogo?» scrivo.

«Da nessuna parte» risponde subito.

«Pensi che gli intelligenti siano crudeli?»

«No, tutto il contrario.»

«Dal dialogo sembra di sì.»

«Beh, io non sono Mr Twittle.»

«E chi è allora Mr Twittle?»

«O è un crudele che pensa di essere intelligente, o è uno stupido a cui piace essere crudele.»

«Quindi pensi che gli stupidi siano crudeli.»

«Penso che se uno è stupido è più facile che diventi crudele.»

«Però ci sono alcuni criminali che sono tutt’altro che stupidi.»

«Non parlo di criminalità. Parlo di crudeltà.»

Ho gli occhi secchi e la testa pesante. Domani devo andare in ospedale. Voglio prendere la piccola in braccio. Devo andare all’anagrafe. Elisa. Lei vorrebbe chiamarla così. Avrà il nome scelto da lei e il cognome imposto da me. C’è una certa giustizia in questo.

«Si è fatto tardi» scrivo. «Devo andare.»

«Ok» è la sua risposta.

 

 

*

 

«Papà si è fatto male.»

Sono le sei del mattino. Quando suona il telefono mi sveglio con i suoi capelli in bocca. Mia madre parla come se stesse descrivendo la scena di un film: mio padre si è alzato per andare in bagno ed è caduto. Si è tagliato il sopracciglio e si è fatto male al braccio. Lui dice che ha avuto un crampo alla gamba, per questo ha perso l’equilibrio. Sostiene che non è niente, però quando mia madre gli ha toccato il polso lui ha urlato e adesso è gonfio.

«Arrivo» dico.

Mi vesto al buio. Intanto guardo dentro la culletta. La piccola dorme. Non capisce le parole, ma le atmosfere sì. Ne sono sicuro. E stanotte le abbiamo avvelenato il sonno.

Mentre guido accendo il cellulare. Nessun messaggio. Preso alla sprovvista ho dato a Viz il mio numero ufficiale. L’asfalto è stato leccato. C’è freddo. Mio padre si è rotto un polso. E io guido guardando lo schermo del telefono. Se alle otto non ho ancora ricevuto notizie lascio perdere. Guarderò se ci sono messaggi in chat. Lascio perdere sul serio, se anche lì non trovo niente.

I miei sono vestiti e mio padre è in cucina. Beve il caffè con il braccio appeso al collo, tenuto da un foulard marrone di mia madre, mentre lei gli tiene del ghiaccio sulla fronte.

«Sembrate dei profughi» dico.

«Vuoi il caffè?»

«Papà, andiamo in ospedale. Al caffè ci pensi poi.»

Gli tolgo la tazzina dalle mani. Lui protesta, ma appena gli tocco il braccio si zittisce. Mia madre va ad aspettarci in pianerottolo con le chiavi di casa e la pezza ghiacciata in mano. Sta per chiudere, ma la fermo.

«Che devi fare?» mi chiede.

«La pipì.»

Vado dritto in camera mia. Apro il cassetto e lo trovo lì. Provo ad accenderlo, ma dopo quattro mesi di inattività la batteria si è scaricata. Mentre torno indietro penso che dovrei tirare l’acqua per maggiore credibilità. Ma lascio stare.

Al pronto soccorso ci sono milioni di persone prima di noi. Io e i miei ci mettiamo in disparte e aspettiamo. Vado alla macchinetta del caffè. Prendo un macchiato per me e un tè per mia madre. Intanto faccio cambio di batteria. Se lei dovesse chiamarmi adesso, le dirò che non c’era campo. Scorro i vecchi contatti. Li salvavo con dei numeri, invece che col nome. Il 3 era un feticista dei piedi. Voleva che andassi da lui dopo avere camminato una giornata sana e avere sudato. Il 7 non parlava neanche. Forse ci dicevamo «ciao». Abitava in corso Calatafimi alta, in una casa piena di stucchi e arazzi. Ogni volta che entravo in quelle stanze sentivo lo stimolo di tossire. Mi offriva un bicchiere d’acqua. Mi dava il culo. Usava delle tovagliette da bidet umide di acqua calda per pulirci. Mi salutava con un bacio sulla guancia.

Mia madre mi chiama. Faccio di nuovo il cambio di batteria e li raggiungo.

«Scusa, c’era la fila.»

Lei beve un sorso di tè e poi lo lascia su un ripiano. Mio padre si è addormentato con il mento sul petto.

«Come dobbiamo fare con tuo padre?»

Mi guarda come se lo stessimo perdendo. Come se si stesse sgretolando.

«Legarlo al letto?»

«Perde colpi» dice mia madre. Riprende il tè dal ripiano e dà altri due sorsi. «E diventa testardo. La vecchiaia lo sto facendo diventare un mulo.»

«Quando si romperà tutte le ossa lo capirà.»

Mio padre si sveglia. Mia madre gli porge il tè. Anche lui beve due sorsi e lo posa. Intanto mi arriva un sms di lei. Le rispondo che la richiamo quando abbiamo fatto. Per fortuna è domenica e non devo avvertire Carlo.

Tocca a noi. Il polso è rotto in due punti. Il sopracciglio se la cava con dei cerotti che sostituiscono l’ago. Quando usciamo c’è luce e fresco. Butta qualche goccia di pioggia, ma non è niente di che. Mentre guido tengo di nuovo il cellulare in mano. Sono quasi le otto. Nulla per tutto il tragitto. Mio padre parla a vanvera dei condomini. Dice che quando si è rotto la gamba sono venuti tutti a trovarlo, mentre lui voleva starsene solo; che spera di non incontrare nessuno e che si barricherà in casa fin quando non gli sarà passato tutto.

Quando siamo sotto casa, mia madre mi ferma. «Saliamo da soli, vai tranquillo.»

Guido fino a casa guardando lo schermo. Quando arrivo, Elisa guarda il soffitto e i suoi pendaglietti di legno a forma di farfalle. Lei è in bagno, seduta, che si tira le sopracciglia davanti a uno specchietto.

«Come sta tuo padre?»

«Sta meglio di me.»

«Rimettiti a letto dieci minuti.»

Una volta sotto le coperte mi abbasso le mutande fino alle ginocchia e mi masturbo piano. Vengo poco, dentro il palmo della mano. Mi asciugo con la maglietta e aspetto di riprendere sonno. Nell’altra mano ho ancora il cellulare.

 

*

 

Non vedo Davide da giugno. La luce invernale gli rende la faccia più secca. Ha anche un filo di barba bianca. Porta una coppola viola in pendant con la sciarpa.

Ci sediamo al bar e per prima cosa mi chiede una foto della piccola.

«Non ne ho» dico.

«Sei tremendo. Non hai una foto di tuo figlio?»

«È una bambina.»

«Quello che è. Che padre sei?»

«Le ho a casa le foto. Ne ho anche troppe.»

Davide si toglie la coppola. Al centro della testa ha un cerotto bianco. Si muove come se non ne avesse idea.

«Che hai combinato?»

«In che senso?»

Gli indico il cerotto e lui si mette una faccia sbadata, piena di storie che si ripetono tutte uguali. Mi chiede con gli occhi di lasciare stare.

«Vi siete menati di nuovo?»

«Ascolta amore. Io e Jean non ci meniamo, ok? Però lui rompe il cazzo con tutte le sue menate, e tira e molla, e certe volte esagera. Tu non esageri mai? Vorrei vedere con uno come me se a un certo punto non esageri. Avrà anche ragione. Però se esagera, io salto su, non posso farci nulla.» Adesso si è tolto anche la sciarpa; continua: «e va a finire che, esagero io, esagera lui, ce le diamo. È un graffio, passa in due giorni.»

Tira su un dito e chiama il cameriere. Ordiniamo due caffè.

«Tu e Jean non state insieme da almeno cinque anni» dico.

«Stare insieme, non stare insieme. C’è un legame, amore. Non so dirti altro.»

Per qualche secondo restiamo in silenzio. Quando ho conosciuto Davide, Jean era il fantasma di tutti i suoi discorsi. Persino quando ha portato a termine il pompino che assolutamente doveva farmi, ha detto che Jean gli avrebbe messo cinque.

«Ma dimmi di te» dice Davide quando arriva il caffè. «Novità?»

Gli racconto degli orari sballati, della piccola che ancora stenta anche a sorridere, di lei e del suo umore.

«Sì tesoro, ma per il resto?»

«Cosa?»

«Oh andiamo ciccio, lo sai.»

Con due dita si gratta lungo il perimetro del cerotto. Ne stacca un bordo. Intravedo un lungo solco rosso scuro.

«Non c’è nessun resto.»

«Ti pare brutta?» Davide si china e mi mostra la ferita. Sembra procurata dal bordo di qualcosa. Non tirata da lontano, ma tenuta salda in mano e picchiata contro la sua pelata. Ci avvicino un dito e la tocco. È calda e sembra infiammata.

«Ma che avete combinato?»

«Dici che dovrei metterci qualcosa?»

«Dico che tu e Jean dovreste imparare a parlare.»

Davide sorride. A quanto ne so Jean è stato il suo primo amore. Un architetto francese, amante della barca a vela, dei gatti e di Charlie Chaplin. Uno che va e viene da Lione, e che sembra esistere solo quando è qui. Uno che a novembre usa i sandali e parla un italiano perfetto, però Davide lo chiama Davì.

«Tesoro, non cambiare discorso. Hai fatto incontri interessanti?»

«Nessuno, a parte te.»

«Ho capito, non vuoi parlare.»

Con il dito raccolgo il fondo del caffè. Guardo Davide e poi fuori. Sento un impellente senso di fame. Alle due e mezza devo chiamare Viz.

«Davide, ti pare che se avessi qualcosa da dire non te la direi?»

«Non so come tua moglie non ti abbia ancora sgamato. Sei una sega a mentire.»

«Finiscila» dico con il dito in bocca.

«Dimmi almeno come si chiama.»

Si è rimesso la sciarpa e la coppola. L’ombrello invece è giallo. Si alza e lascia due euro sul tavolo. Mi fissa, in piedi, poggiato al manico.

«Si chiama Viz» dico.

«Quanto siete carini» mi dice e prima di andare mi bacia sulla bocca.

 

*

 

Davide mangia di corsa e parla mentre mangia.

«Lascialo perdere, è un ragazzino» dice.

«Ha ventitré anni.»

«Oh cielo, davvero? Allora scusa tesoro, mi sono sbagliato a fare i conti. Ora che me lo dici, sì, hai ragione, ha ventitré anni, è una donna matura, quasi in menopausa.»

«Smettila, non è così bambino come pensi.»

«Cosa ti fa per farti impazzire?»

«Ti prego.»

«Amore mio, io i ventitreenni li conosco. Sono giovani, elastici, instancabili, superdotati e vanno all’università. Quali di queste caratteristiche ti ha fatto innamorare di lui? E, ti prego, risparmiami la storia dell’università.»

Davide parla anche ad alta voce ed è uno stronzo finocchio che sa sempre tutto e ha fatto tutto prima di tutti, meglio e con benefici maggiori.

«Io non sono innamorato di lui.»

«No, davvero.»

«Credimi, non sono affatto innamorato.»

«Davvero, non lo sei affatto.»

«Lo sapevo che non dovevo parlartene.»

«Perché? Perché così saresti stato felice nella convinzione di stare vivendo un bellissimo sogno una volta ogni quanto? tre settimane?, per mezz’ora, dentro la tua macchina, senza neanche abbassarti le mutande fino a terra?»

«Non l’abbiamo mai fatto in macchina.»

«Ok, ok, allora vi dichiaro marito e moglie.»

«Per la cronaca, ti ripeto: io non sono innamorato.»

«Già. Io invece sono vergine.»

Vorrei potergli dire che lui è l’ultima persona al mondo che può farmi certi discorsi, che è una testa di cazzo che si fa menare da un frocio francese con il cazzo minuscolo, che l’ha presa tante volte nel culo che tra le sue chiappe ci si può parcheggiare una bicicletta, e vorrei cucirgli quel sorriso del cazzo che si è appena messo, di quello che capisce sempre tutto e che non accetta né le menzogne né le verità, se non è stato lui a pensarle per primo.

«Non dovevo parlartene.»

«Amore, se volevi sentirti dire quello che volevi sentirti dire, allora sì, hai sbagliato persona. Mi hai chiesto un parere, giusto? Beh, io ti dico che ti stai mettendo nella merda. Non puoi gestire moglie, figlia e, scusami se insisto, altro figlio. Hai quasi quarant’anni. Capisco che hai le palle che ti scoppiano e tutte le tue sane pulsioni, ma ecco, trattale come pulsioni. Ti fai un giro al porto, ti trovi uno, due, cinque cazzi, ma poi te ne torni a casetta.»

«Senti, dimentica quello che ti ho detto. Non è niente.»

«Niente? Non è niente? Amore, non mi chiami mai. Neanche un cazzo di messaggio. Poi di punto in bianco dobbiamo parlare e tiri fuori sto ragazzino. E se non sbaglio è lo stesso che ti ho cavato dalla bocca due mesi fa. Una scopata non dura due mesi.»

«La tua dura da anni.»

Sta per rispondermi, ma gli squilla il cellulare. «Parli del diavolo» dice, e poi risponde. Parla in italiano. Dice in francese solo oui e ça va. Poi: «come cazzo hai fatto?» e ancora «come dici tu, hai ragione tu» e ancora, prima di chiudere «ti vengo a prendere se mi gira» Quando riattacca mi chiede scusa, si mette a ridere e si accarezza la barba.

«Era Jean?»

«Ha perso il volo.»

«Come ha fatto?»

«Ha fatto che è un testa di cazzo, ecco che ha fatto. Arriva all’una di notte o peggio. Non lo so.»

Non mi guarda neanche negli occhi come fa sempre. Beve un sorso d’acqua e torna serio. Io gli chiedo scusa.

«Per cosa?»

«Per Jean. Quella battuta. Era una battuta poco carina.»

«Lascia perdere, hai ragione. Il mio pulpito non è adatto a questa predica, però…» si ferma. Restiamo in silenzio davanti alle briciole nei piatti vuoti.

«Però cosa?»

Davide guarda fuori, oltre la mia testa, e sembra che abbia realizzato qualcosa in questo istante.

«…però in qualunque modo vada con Jean, siamo sempre in due, io e lui, lui e io. Possiamo anche ammazzarci, ma per quanto ne so non gliene fregherebbe un cazzo a nessuno».

 

 

*

 

Taglio i capelli ogni due settimane. Quando si alzano di un centimetro la mia testa mi sembra enorme. Ogni due settimane riporto tutto al minimo e poi mi faccio uno shampoo. Mi piace sentire l’acqua sulla testa quasi scoperta. Mi piace dare un colpo di asciugamani e trovarmi asciutto.

Ogni due settimane do una sistemata anche alla barba. Ho dei peli bianchi sul mento. Dei peli bianchi sulle basette. Sono pochi e quasi invisibili. Mi trovo spesso intento, durante il giorno, a rovistare nella mia faccia in cerca di un pelo più lungo da tirare. A volte sto molti minuti su un unico pelo. Lo separo dal resto della barba. Lo tiro. Ci gioco. Fin quando non cede e me lo ritrovo in mano, con tutta la radice. A volte è bianco. Altre volte è nero. Ci sono peli più spessi di altri. Alcuni sono piatti e sfibrati. Immagino di vederli al microscopio e scoprire che hanno la forma di un ramo secco o di una radice.

Mi piace anche passarmi la mano sulla testa e sentire la curva del cranio. Il piccolo scalino tra le placche, sulla sinistra. Ci passo il dito lentamente e mi rilasso. Immagino il buio dentro di me, tra i miei organi.

E quando prendo in braccio Elisa, sento ciò che nasconde la sua bellezza. Le bacio la pancia bianca. La bocca. Lei adesso ride come se avesse capito cosa vuol dire. Soprattutto quando la guardo e storpio la voce per renderla simile ai suoni delle favole. Anche se ancora Elisa non sa nemmeno di esistere. Quando succede, quando ride divertita mentre le stropiccio quel corpo perfetto, allora io immagino il buio che c’è anche dentro di lei.

In quel buio, nel mio e nel suo, trovo le ragioni per restare a casa quando vorrei andare; trovo la proporzione che mi serve per stare a metà tra qui e lì, tra mia moglie e Viz.

È come temperare l’acqua ghiacciata con l’acqua bollente.

Quello che c’è in mezzo è una sottrazione.

Il quadrato che non entra nel cerchio.