Il romanzo d’esordio di Ginevra Lamberti (“La questione più che altro”, storia di una ragazza veneta che deve destreggiarsi fra una situazione familiare complicata e un susseguirsi di lavori precari talvolta imbarazzanti) mi ha parecchio entusiasmato, sia per l’originalità della scrittura che per la sua brillante ironia. Mentre lo leggevo mi è capitato di ridere da solo in metropolitana sotto lo sguardo perplesso di altri passeggeri e sono esperienze che fanno sempre bene allo spirito di noi lettori. Al termine del libro le ho subito scritto chiedendole un racconto inedito per ‘tina. Mi attendevo un brano allegro e pungente come lo stile del romanzo, invece Ginevra mi ha sorpreso con una storia tanto originale quanto misteriosa, dagli sviluppi imprevisti. In un solo colpo ha disatteso le mie aspettative e ha confermato il suo talento di narratrice. Ottima mossa.
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Ginevra Lamberti, Non di una scelta
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Le formiche sono un esempio di civiltà avanzata. Hanno ruoli, gerarchia, edificano architetture. Rubano il nostro cibo e forano i nostri muri, ma soprattutto si insinuano in cucina, lungo la dispensa, in piccole file, nell’esatto momento in cui abbiamo ospiti con cui sfigurare.
I più magnanimi tra i proprietari di muri provano ad allontanarle con il caffè e il borotalco, poi con i chiodi di garofano, esasperati passano al peperoncino. Sarà tutto inutile. Una volta che il formicaio esiste, devi ricorrere al veleno. In cucina spray e polveri sono sconsigliate. I beati anni in cui condire la pasta con il DDT non era un problema sono un ricordo sfocato sui toni del marrone. Ora si mangia bio e si eliminano i formicai con le casette, malvagie già nel nome. Sono silenziose e non lasciano residui. Le formiche vi si addentrano, carpiscono i bocconi avvelenati e li portano a casa. Dopo solo un giorno tutto torna pulito e silenzioso, niente più infinitesimale scalpicciare di migliaia di zampette, niente più agitarsi di piccole antenne. Mi guardo intorno e penso ho fatto il deserto, sperando in segreto che presto tornino ad animare almeno il terrazzo.
Nel mettere al loro posto il detergente per il legno e lo sgrassante per i fornelli prendo male le curve e sbatto contro gli spigoli. Da bambina sbattevo la testa, adesso il fianco. Dalla pelle emergono ematomi blu scuro, verde bottiglia o neri. Chi non conosce la mancanza di senso della geometria sospetta che sia vittima di violenza domestica, ma da tempo non vivo con nessuno e non frequento nessuno. A causa di questi incontri ravvicinati con i complementi d’arredo ho una cicatrice sulla fronte, appena sotto l’attaccatura dei capelli. Tanto tempo fa sentii raccontare che da bambina, in una delle mie scorribande compiute da semi ferma (mai correndo, piuttosto procedendo a passo lento verso un ostacolo contundente visibile a tutti tranne che a me) mi procurai un taglio sanguinante trasformatosi poi in cicatrice. Talvolta penso che non ho memoria di questo fatto perché le cose non sono andate così. Sono andate che vengo da un altrove in cui non voglio tornare perché tutto sommato mi piace stare qua, penso che allora mi hanno aperto la testa e ci hanno messo un chip per controllarmi le emozioni, la vita e i ricordi. Penso che qui è tutto di panna montata che si smonta se mi deconcentro. Quando penso troppo poi mi agito e devo respirare profondo. Se non passa prendo un sacchetto di plastica e me lo infilo in testa finché il cervello e i polmoni non scoppiano. Strappo e torno al mondo boccheggiante, i nervi si sciolgono, appannandosi la vita diventa reale.
Quando non stermino formiche assediata dal senso di colpa, faccio le pulizie in un appartamento per turisti e i check-in con servizio di recupero umani compreso. Vado alla stazione dei treni o degli autobus, li aspetto in un punto convenuto e accompagno a piedi verso il bilocale che ho poco prima finito di tirare a lucido. Non è necessario camminare a lungo perché il posto si trova vicino alle stazioni che sono vicine tra loro ed anche a casa mia. Oggi dovevo recuperare un americano. Michael ha la corporatura di chi insegna educazione fisica alle superiori e alla domenica fa il barbecue. Mi spiega che dobbiamo aspettare altri dieci minuti, con il prossimo treno è in arrivo una sua amica. La nostra lingua veicolare è l’inglese, dunque che si tratta di una femmina lo capisco solo quando la vedo. È piccola di statura, formosa e ha i capelli striati di meches giallognole. Una tipica bellezza del sud ormai sfiorita, avrebbe detto un amico che non vedo più da non ricordo quanto. Una volta entrati si dimostrano entusiasti della casa. È un tugurio umido al piano terra. Appestato dalle zanzare, con l’intonaco che si sbriciola a ogni tocco e una porta sfondabile con un calcio. Prima, quando ho detto di aver tirato questo posto a lucido ho mentito. Ci provo ogni volta mettendoci anche dell’impegno, ma la verità è che è sudicio di sporco stratificato nei decenni, impossibile da raschiare. Bisognerebbe togliere le piastrelle, buttare i mobili, sradicare i sanitari, grattare e ridipingere i muri, o più semplicemente dargli fuoco.
Li abbandono al loro entusiasmo e vado a casa, dove mi attende una tisana al carciofo (molto amarotica, altamente depurante). Il pensiero del servizio di pulizie che il liquido verde-viola opera nel mio corpo mi allontana dalla tentazione di immaginare i corpi unti degli americani avvolti in amplessi scomposti, rotolanti a sporcare di umori le lenzuola cambiate di fresco.
Michael e la bellezza del sud si sono fermati tre giorni. È la media stagionale, quella che gli permettere di restare entro il budget illudendosi di aver visto tutto. Il giorno stesso o quello successivo ne arrivano subito di altri e si prosegue a ciclo continuo da inizio aprile a fine ottobre. Alle sette e trenta del mattino successivo alla loro partenza mi trovo già presso la stazione degli autobus, in attesa. Ho i bioritmi sballati dai turni di notte dell’altro lavoro, pertanto sono incartapecorita dal sonno, incapace di ragionare. Dopo giorni di asfissia estiva, il cielo, coperto da una patina bianca, ha l’aspetto solito di quando sta per cadere. Il vento si solleva e ne porta a compimento le promesse con rovesci in terra di acqua a secchiate. Il turista che attendo non è arrivato con la prima navetta dell’aeroporto e neanche con la seconda. A dire il vero nemmeno con la terza, la quarta e la quinta. Fradicia, attendo sino alle undici e trenta tra gli sguardi dei passanti che mi fissano. Succede da una vita e da una vita mi chiedo se sanno qualcosa che non so. Attendo sino alle undici e trenta e con la navetta numero chissà cosa arriva John, il sessantenne giramondo, John il brillante. Vorrebbe parlare del più e del meno e io no. Vorrebbe conoscermi meglio, uscire con me a bere e approfittare della disponibilità della cucina per prepararmi delle tipiche pietanze americane. Gli spiego che purtroppo ho molta fretta e inderogabili impegni, accarezzando con il pensiero il momento in cui sarei entrata al fast food della stazione per assaporare il panino più grande del menu, quello in promozione all’ora di pranzo solo sino a fine mese.
A me i panini dei fast food piacciono perché sono igienici oltre che gustosi. Le verdure crescono protette da teli di plastica che evitano il contatto con le piogge acide, i pesticidi tengono alla larga da esse tutte le bestie con più di quattro zampe, cioè quelle che io ho sempre pensato dovrebbero c’entrare con la decomposizione e non con le cose che mangiamo quando il corpo è ancora vivo. È grazie a questi accorgimenti tecnici che le fette di cetriolo e pomodoro e le foglie di lattuga arrivano dentro al panino conservando il loro colore brillante. La carne è pura carne di animale nato e cresciuto in un ambiente chiuso fatto al cento per cento di acciaio lavabile e inossidabile. Niente di tutto questo viene toccato dalla nuda mano umana. Il processo di coltivazione/raccolto/lavorazione e allevamento/macellazione/lavorazione sono al cento per cento affidati a braccia meccaniche e cervelli elettronici. L’unico contatto avviene al momento del trasporto del prodotto su gomma e del suo passaggio- nella e consegna-dalla friggitrice alla busta del cliente. Ho molta fede nella tecnologia e so che presto riusciranno ad eliminare anche questo fastidio.
John è uno di quegli ospiti che fanno eccezione rispetto alla media, è uno di quelli che si fermano solo una notte. La sua esperienza di conoscitore di mondi deve essere tale da fargliela bastare per esplorare in tempo record ogni anfratto di una nuova città. Ventiquattro ore dopo il check-in ha già portato via il suo bagaglio leggero da uomo che basta a se stesso, poco più di trenta e sono fuori dalla stazione dei treni per un recupero serale. Alle 22:00 aspetto Natasha la russa. Con il caschetto ossigenato e il tacco dodici su scalinata di granito è arrivata dando nuove sfumature al concetto di stereotipo. Nella foto fornitami via mms dal capo sembrava più giovane. Il capo l’ho visto solo una volta, l’anno scorso, il giorno del colloquio conoscitivo. Da lì in poi abbiamo comunicato solo via sms e mms cui uso rispondere ok e tutto bene. A forza di andare a prendere le persone ho capito che a ventuno-due-tre-quattro-cinque-sei anni va tutto bene. Dai ventisette-otto-nove-eccetera la vita impercettibile inizia a scavarti. Io non è importante sapere quanti anni ho, anche perché allo specchio non mi guardo mai. Natasha parla bene inglese, padroneggia una serie di convenevoli e gentilezze di circostanza, ma la verità è che ha molte pretese. Le trattiene per poi buttarle fuori a getto: la chiave non gira bene nella toppa, la doccia ci mette troppo tempo a passare da fredda a calda, carini i prodotti per la colazione di cui è fornita la credenza, ma la mattina non mangio dolci, domani posso avere delle uova? È in città per una serie di vernissage e mentre le illustro le regole dell’appartamento riempie l’armadio di abiti con fantasie pitonate, sfumate, fiorate. Le spiego il funzionamento della macchinetta anti zanzare e vado via dopo aver gettato un ultimo sguardo al diffusore di profumo alla lavanda. Le piace l’aroma alla lavanda? Chiedo. Risponde che in effetti è il suo preferito insieme al mughetto. Con un brivido di schifo dedicato a tutti i mughetti del mondo botanico la saluto e le auguro una felice permanenza.
In linea con il programma del giorno mi affretto verso il primo fornitore di panini igienici a disposizione e ne ordino uno con bacon e doppio formaggio da portare via. Adesso gli ordini si possono effettuare anche dai tabelloni elettronici. Scegli, invii, stampi il bigliettino e attendi che compaia il tuo numero sullo schermo sopra il bancone. Questo sistema permette di non stare in fila con altri clienti e di parlare poco con i dipendenti. Ho davvero molta fede nella tecnologia.
In questi tempi di lassismo si può dire che io sia una lavoratrice esemplare. Devo fare un rapido passaggio a casa a cambiare gli abiti chiari con quelli scuri, depositare lo zainetto con i prodotti per le pulizie e prendere l’altro. L’impiego notturno è la mia passione vera, tant’è che lo svolgo gratis, come puro atto di generosità. Togliendo le ultime briciole di panino dal tavolo constato che le formiche non sono più tornate. Le casette bianche spiccano sul pavimento color chili vomitato, ferme negli angoli non hanno più ospiti di passaggio.
Nel letto bianco immacolato eseguito alla perfezione dalle mie proprie mani trovo Natasha, immersa nel suo sonno narcotico. Senza trucco, piega e tacchi risulta essere una cozza pelosa come sospettavo, ancorché meno di quanto non lo fossero Michael, la Bellezza Sfiorita del Sud e John il cercatore di mondi.
Io depilo tutti. Uomini e donne. Ascelle, gambe, petto e schiena dove necessario, ma soprattutto inguine. Totally shaved. Ho imparato anche la brasiliana, che è più laboriosa, ma superiore per risultati e durata. Ho seguito dei corsi online e ottenuto il diploma da estetista con il massimo dei voti. Lo faccio per non trovare più i loro peli ricciuti nella doccia, nel bidet, sul pavimento, incastrati fra le trame degli asciugamani, sparsi sulle lenzuola e perfino nel lavandino. Lo faccio anche per loro, per restituirgli la dignità. Al mattino si svegliano nuovi, forse ancora intontiti da quella roba che diffondo con l’aroma di lavanda. Almeno una volta vorrei poter vedere le loro facce prima sgomente e poi felici. In quasi un anno di attività nessuno si è lamentato con il capo né ha lasciato recensioni negative, neanche quando capita che li tratti durante la prima notte di permanenza. Io li miglioro e loro lo sanno. In quasi un anno di attività non ho trovato nessuno che fosse abbastanza in ordine da non aver bisogno di un trattamento.
Trascorro i miei due giorni di pausa cercando di capire se le casette vanno buttate con la plastica o con l’indifferenziato, e sorbendo zuppa di orzo e lenticchie in busta. Dapprima sospettosa, ho aperto la confezione per controllarne il contenuto. Prodotto in polvere, con mezzo litro di acqua minerale riscaldata a fiamma bassa torna allo stato liquido e ha tutte le caratteristiche di un alimento sicuro.
Persistendo nel ragionare sulla collocazione delle casette comincio la nuova settimana a testa bassa e puntata verso la stazione dei treni. Arrivata con dieci minuti di anticipo, appuro che con venti minuti di anticipo sull’anticipo mi attende di già Rob il tedesco.
Indossa scarpe bianche, pantaloni verde bosco, una maglietta verde bottiglia e un cardigan leggero verde smeraldo. Anche il suo zaino è verde, anche i suoi occhi sono verdi. Rob è calvo, non ha le sopracciglia e quando mi avvicino per stringergli la mano noto che non ha peli neanche sulle braccia. Resisto alla tentazione di afferrargli un polso, sollevare il cardigan e con uno scatto controllare cosa nasconda sotto l’ascella. Elenco i convenevoli a stento e ad ogni parola mi sale un gran caldo alla faccia. Al momento di congedarci gli faccio i complimenti per la sua scelta di vita drastica e chiedo informazioni sul tipo di ceretta utilizzato per un lavoro così preciso. Mi spiega che non si tratta di una scelta, ma di alopecia. Cammino verso casa ripetendo ad ogni passo la parola alopecia.
L’alopecia areata è una malattia autoimmune. Il sistema immunitario attacca i follicoli. Possibilità di perdere i capelli e ogni altro pelo del corpo. Cause non chiare. Possibile trasmissione ereditaria. Due per cento della popolazione. Sintomi. Non esistono terapie valide. Non è una malattia pericolosa. È importante apprezzarsi.
Adagio la faccia sul computer senza bere la tisana amarotica. Dopo aver buttato le casette nel cesto della carta ho deciso di svegliarmi presto per invitarlo a fare colazione con un pacchetto di giambonetti, gli snack sfiziosi al gusto di prosciutto protagonisti di ogni distributore automatico. È tedesco, ho pensato, dovrebbe apprezzare le colazioni salate.
Voci di corridoio dicono che gli opposti si attraggano e il pensiero che possa amare le donne baffute toglie l’aria. Ci rifletto e concludo che in caso di necessità sarei pronta a investire tutti i miei risparmi in un trapianto di peli facciali. Per la prima volta rivolgendo un pensiero tenero ai peli e all’essenza dei medesimi assieme, come si trattasse di un concetto solo, al centro dell’armonia del Cosmo, chiudo gli occhi e li riapro. Dove siamo, Rob?
La luce della lampadina si riflette sul suo cranio facendolo risplendere. Siamo a casa, dice Rob. Ma questa non è casa mia e anche se lo fosse, Rob, per quanto l’emozione mi colga nel vederti, non dovresti possederne le chiavi. Quantomeno non ancora. E come me la spieghi Rob l’illogicità di questa situazione, e perché ho le braccia bloccate Rob, mi hai seguita, drogata, rapita e portata via con te? Perché parli italiano? Avevi previsto tutto, mi controllavi da tempo? Sei allora tu a controllarmi da sempre? Se così fosse, io forse, Rob, potrei accettarlo. Se tu mi amassi, Rob, potrei anche smettere di urlare ed essere buona per sempre. Vorrei smettere di urlare, ma la voce va da sé e io non riesco a fermarla.
Rob mi tiene giù le spalle e con una nenia gridata racconta le fiabe. La fiaba di quando li hanno chiamati dalla stazione degli autobus, quella di quando minacciavo i passanti con un rasoio e dicevo voi siete sporchi io devo pulire tutto, quella di quando ero fradicia sotto la pioggia con un zainetto e poche cose dentro e parlavo a un vecchio telefono rotto dei turni di lavoro, quella del lavoro che non c’è più, della casa che non c’è più, che forse non ci sono mai stati e non si capisce ancora perché nessuno è venuto a chiedere di me, quindi, dice Rob, che se ora prendo la terapia e mi calmo e mi ricordo qualcosa li aiuterei tantissimo ad aiutarmi. Quella di quando addormentandomi sull’ambulanza gli ho detto che bel completo verde e con una mano carezzavo la camicia della sua divisa da infermiere. Quella di Rob che dice di chiamarsi Paolo, ma io lo ho capito chi sei Rob, e se ora possiamo stare insieme per sempre prometto che sarò buona.